5
Il disegno essendo, insieme al gioco, una dell’attività più praticate
durante l’infanzia, è stato considerato uno dei migliori strumenti
d’indagine psicologica per soggetti in età evolutiva. I disegni,
infatti, sono entrati a far parte, da più di mezzo secolo, delle batterie
di test che i clinici utilizzano per valutare le performance cognitive
e lo stato emotivo dei bambini. All’utilizzo delle produzioni
grafiche come strumento diagnostico, gli psicologi hanno sovente
affiancato l’uso del disegno anche come strumento terapeutico e
educativo, estendendone l’applicazione persone con sviluppo tipico
e atipico. In questo secondo ambito, tuttavia, sono rimasti aperti
importanti interrogativi, concernenti i tempi e i modi con cui si
presenta lo sviluppo grafico, e le sue specifiche modulazioni entro i
diversi profili evolutivi.
Partendo da questa considerazione, in questa tesi andrò a trattare
com’è utilizzato il disegno nei bambini con sviluppo atipico, in
particolare in quelli con sindrome autistica.
Nel primo capitolo, infatti, analizzerò i principali modelli teorici
che hanno studiato il disegno come indicatore di una maturazione
Introduzione
6
intellettiva, focalizzandomi sui principali test grafici utilizzati nelle
indagini cognitive.
Nel secondo capitolo, affronterò il disegno come strumento
d’indagine emotiva, ponendo enfasi sui metodi di lettura proposti
dalle teorie artistiche e dalla psicanalisi. Secondo queste prospettive
il disegno, in quando linguaggio espressivo portatore di un
significato simbolico, può essere considerato un ottimo ausilio per
accedere al mondo interiore del bambino, ai suoi pensieri e alle sue
emozioni.
Nel terzo capitolo parlerò dell’autismo, dei loro deficit intellettivi
ed emotivi e di come quest’atipicità possa essere evidenziata
dall’analisi dei loro disegni.
Infine, nel quarto capitolo, mostrerò quelle che sono, a oggi, le
applicazioni del disegno come strumento d’intervento psico -
educativo in questa specifica popolazione.
7
Capitolo 1
Il disegno come strumento di valutazione
cognitiva
1.1 Lo studio psicologico dello sviluppo grafo-pittorico
1.1.1 Le teorie stadiali
Per molto tempo si è creduto che le rappresentazioni grafiche
infantili fossero semplicemente forme mancate di espressione,
soltanto sul finire del XIX secolo il disegno è divenuto fonte
d’interesse e ricerca. Dal 1885 al 1920, in diversi paesi, vari
ricercatori hanno compiuto sforzi considerevoli per raccogliere,
descrivere e catalogare i disegni spontanei creati dai bambini.
Partendo dall’assunto che il disegno prodotto da un bambino sia la
copia di un’immagine presente nella mente del bambino stesso, e
che quindi esso possa rappresentare una finestra sui suoi pensieri e
sentimenti, s’intensificarono gli studi per compiere una
classificazione dei disegni infantili secondo sequenze di sviluppo. I
primi lavori sull’argomento risalgono al 1887, quando Ricci,
8
pubblicando una vasta raccolta di disegni infantili della figura
umana, tracciò una prima linea evolutiva delle competenze grafiche
infantili. Il suo intento era puramente tassonomico e normativo e lo
scopo della sua ricerca era di individuare stadi e tappe distintive
dello sviluppo, che conducono il bambino a impadronirsi della
capacità grafica di rappresentarsi il mondo. In seguito alle prime
ricerche condotte da Ricci, molti psicologi si sono interessati a
quest’argomento fornendo un’ampia rassegna di teorie, ma il
contributo maggiore è dato dal lavoro puntuale e complesso di
Loquet (Cannoni, 2005).
George Henri Luquet (1927), influente storico dell’arte, attraverso
l’osservazione dei lavori della figlia identificò una sequenza di
sviluppo delle abilità grafo-pittoriche, proponendo una
classificazione in 4 stadi di sviluppo:
I. La fase del realismo fortuito. Intorno ai due anni il piccolo
dopo aver tracciato dei segni “interpreta” questi come
rappresentativi di questo o di quell’oggetto in conformità a
somiglianze anche fragili.
9
II. La fase del realismo mancato. In questa fase, che va dai due
anni e mezzo fino ai 4-5, il bambino si pone degli intenti
figurativi più chiari ma che spesso non riesce a raggiungere.
Una tipica difficoltà che il bambino incontra in questo
periodo è la coordinazione dei diversi elementi del disegno
cosicché si limita a giustapporre le varie parti senza
rispettarne le relazioni spaziali.
III. La fase del realismo intellettuale. Nel periodo che va dai
cinque agli otto anni, il bambino diviene molto più abile nel
riprodurre l’aspetto di ciò che disegna, le figure si
arricchiscono di dettagli e anche le relazioni tra gli elementi
sono rese più accurate. Un errore tipico di questo stadio è
l’uso delle “trasparenze”; il bambino rende visibili nei suoi
disegni anche parti che realmente sarebbero occluse e questo
perché egli rappresenta ciò che può e non ciò che vede .
IV. La fase del realismo visivo. Dagli otto anni all’adolescenza, il
giovane disegnatore manifesta un grande interesse per la
10
raffigurazione prospettica entro e tra gli oggetti disegnati
(Luquet, 1927).
Il lavoro di Luquet influenzò notevolmente il pensiero di Piaget, il
quale, fin dagli arbori della sua carriera, era convinto che il modo
migliore per descrivere la vita mentale fosse in termini di stadi
evolutivi qualitativamente differenti. Lo sviluppo intellettivo, per
Piaget, procede secondo una sequenza di stadi dipendenti dall’età
cronologica, quindi, il perfezionamento delle produzioni grafiche
sempre più dettagliate, realistiche e proporzionate procede di pari
passo con la crescita intellettiva del bambino (Piaget, 1923, 1924,
1926,1945). Nel tentativo di tracciare una storia del disegno
infantile, intorno agli ani 70-80 s’incrementano gli studi intorno al
nuovo concetto che la rappresentazione grafica fa riferimento ad
alcune forme o modelli universali, che combinandosi tenderebbero
a complessarsi sempre di più. Il contributo più indicativo è quello di
Rhoda Kellogg (1969), che ha centrato la sua attenzione sulle prime
fasi dell’attività pittorica, analizzando l’evoluzione del grafismo dai
primi segni che il bambino traccia scarabocchiando, fino alla
11
realizzazione di figure dotate di significato. Essa, visionando
migliaia di disegni di bambini provenienti da varie parti del mondo,
identificò venti diversi schemi fondamentali usati dai bambini, le
cui modifiche e combinazioni consentirebbero lo sviluppo dei
disegni infantile e che solo a 5 anni comincerebbero a riferirsi ai
modelli sociali. La kellogg, nello specifico, propone un modello
stadiale suddiviso in quattro tappe gerarchicamente ordinate in una
sequenza universale che non risentono d’influenze esterne:
I. Stadio dei modelli. Questa fase, che ha inizio intorno ai 18
mesi, fino a 2 anni di età, è contrassegnata dalla comparsa
degli scarabocchi. Con lo scarabocchio il bambino individua
e produce i segni basilari per disegnare, i quali gradualmente
iniziano a seguire dei modelli di organizzazione.
II. Stadio delle forme. Intorno ai 2 anni gli scarabocchi
assomigliano sempre di più a forme geometriche, fino a
diventare verso i 3 anni, dei diagrammi, ossia forme costituite
da due o più linee che s’intersecano, o da una linea chiusa. La
nascita di queste forme è di particolare importanza perché
12
“prepara” il passaggio del bambino alla rappresentazione
pittorica.
III. Stadio del disegno. In questa fase, che inizia a 3 anni e
termina al compimento del 4° anno di età, il bambino inizia a
rendersi conto che unendo alcune forme ne crea di nuove e
più complesse: unendo due diagrammi può creare delle
combinazioni e unendone tre degli aggregati. Questi ultimi
pur somigliando a elementi della realtà non la rappresentano,
sono soltanto segni facili da riprodurre e da memorizzare, su
cui esercitarsi piacevolmente.
IV. Stadio pittorico. In questa fase, che va dai 4 ai 5 anni,
rappresenta l’ultimo gradino dello sviluppo pittorico. In
quest’epoca si può assistere a un punto cruciale dello
sviluppo pittorico: i segni tracciati assumono un significato,
rappresentano la realtà (Kellogg, 1969).
Nonostante l’enorme successo che la teoria stadiale ha ottenuto tra
gli psicologi dello sviluppo, questa è stata anche soggetta a critiche
e revisioni. Per alcuni studiosi, considerare il disegno come uno
13
specchio e/o elemento dei processi intellettivi generali che
progredisce con scadenza prestabilite, non era più sufficiente,
giacché non riusciva a spiegare in dettaglio come sia possibile
l’attività stessa del disegnare e quali siano le regole sottostanti che
il bambino va via scoprendo. Partendo dall’assunto che ogni
bambino è un individuo a sé, con dei tempi maturativi, modi di
apprendimento e relazioni con l’ambiente propri, il suo sviluppo
cognitivo e di conseguenza grafico non potrà essere uguale agli
altri, quindi seguire delle tappe universali (Golomb, 2010).
1.1.2 L’approccio Human Information Processing (HIP)
Verso la fine degli anni settanta, alcuni studiosi, tra cui Norman
Freeman (1980), Maureen Cox (1993) e Jacqueline Goodnow
(1977), muovendosi all’interno del quadro teorico dell’elaborazione
dell’informazione, riconoscono la rappresentazione pittorica come
una forma di problem- solving. Partendo dalla considerazione che
per disegnare un bambino ha bisogno di abilità basilari e che queste
obbediscono a vincoli percettivo-motori (esecutivi) e cognitivi, il
14
disegno non è visto più visto come un prodotto finito ma come un
processo, segnato da tre importanti conquiste:
La ricerca di equivalenti pittorici
Per disegnare il bambino ha bisogno di stabilire una corrispondenza
tra gli elementi della realtà e i segni grafici, i quali possono
funzionare come equivalenti pittorici. Il primo passo che deve
compiere è trovare gli equivalenti adatti, cosa per niente semplice
poichè la corrispondenza tra i segni tracciati e l’elemento cui si
riferisce non è sempre unioca: un equivalente può rappresentare più
cose diverse e un oggetto può essere rappresentato da segni diversi.
Per far si che l’equivalente sia efficace occorre decidere quali sono
le parti dell’oggetto che bisogna necessariamente disegnare per
renderlo riconoscibile e quali sono trascurabili. Questa ricerca porta
alla creazione di equivalenti ortodossi, delle forme-tipo che oggi
vengono anche chiamate figure canoniche.
La costruzione della figura canonica
La figura canonica è una rappresentazione schematica di un oggetto
che lo rende facilmente riconoscibile, in quanto ne esprime le