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Introduzione
Il disagio nella professione dell’avvocato veniva già ben descritto da un notissimo
Principe del Foro, vissuto nei primi decenni del secolo scorso, Piero Calamandrei (1985,
p. 391
1
) «L'avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione, di carità. Nel
suo cuore, l'avvocato (come il giudice) deve metter da parte i suoi dolori, per far entrare
i dolori degli altri. Un imputato alla vigilia della sentenza può anche esser sereno: ha
rimesso il suo destino nelle mani del suo difensore, ed attende. Ma l'avvocato, in quella
vigilia, non può esser tranquillo: la tragedia dell'imputato si è trasfusa in lui, lo logora,
lo agita, lo lacera. Per gli avvocati non c'è riposo: devono prodigarsi fino all'ultimo
respiro: devono andare in udienza fino all'ultimo giorno».
Un avvocato di Cagliari, dopo aver conseguito la laurea in legge e portato a termine
egregiamente il suo tirocinio, decise di iscriversi alla facoltà di psicologia ad Urbino,
alla quale fece in tempo a terminare gli esami del primo anno con ottimi voti, per poi
dover rientrare in città per motivi che esulavano i suoi studi. Iniziò, dunque, già a
malincuore, ad esercitare la professione di avvocato, scegliendo un campo nel quale
poteva anche dispiegare la sua attitudine per la psicologia, ovvero il penale, ma era
un’arma a doppio taglio, infatti è vero che poteva ascrivere al curriculum una collezione
di successi, ma allo stesso tempo oltrepassava spesso la misura di empatia necessaria
per ogni caso, non mantenendo il distacco che doveva esserci per poter esercitare a
lungo la professione in maniera sana ed equilibrata. Ben presto iniziò a diventare
scontroso, duro coi clienti, e con la famiglia e gli amici che lo circondavano, trattandoli
spesso come oggetti, come numeri che pesavano e che non vedeva l’ora lo lasciassero in
pace, da solo. Era sempre più stanco, si sentiva consumare giorno dopo giorno dal
lavoro e lamentava di continuo di non avere il tempo per potersi dedicare alla propria
vita privata, tanto che arrivò a desiderare di lasciare il lavoro e di allontanare tutti per
potersi dedicare alla sua passione per la canoa. Ed è proprio attraverso la coltivazione di
quest’ultima che egli ha trovato in parte la propria autocura, scaricando come un fiume
in piena, infuriato e carico di energie negative, lo stress accumulato durante l’anno.
1
Calamandrei, P. (1985). Opere giuridiche (Vol. 10). Napoli: Morano.
2
E’ da questa esperienza che nasce l’idea di dedicarsi all’analisi della letteratura
nazionale ed internazionale sul burnout, ed in particolare negli avvocati, Il primo intento
è stato quello di comprendere da dove il concetto, peraltro con significato nebuloso, si
fosse originato, come si fosse differenziato rispetto a concetti affini e la sua evoluzione
nel tempo, e dunque di contestualizzarlo anche rispetto ai diversi studi effettuati. Il
secondo intento è stato quello di approfondire le conoscenze rispetto agli studi effettuati
sul disagio avvertito dagli avvocati, nell’ipotesi che fosse ingiustamente una professione
trascurata ed a grosso rischio di incombere nella sindrome, e che i penalisti, essendo a
maggior contatto con la gente che ha in genere problematiche più importanti e più forti
da un punto di vista morale, rispetto ai civilisti, fossero maggiormente a rischio.
Nel primo capitolo verrà fatto un breve excursus storico dedicato ai mutamenti avvenuti
nell’attività lavorativa, con particolare riferimento al periodo inerente
l’industrializzazione, al Taylorismo ed al suo superamento ed ai disagi che tali
cambiamenti hanno apportato ai lavoratori e contestualmente si vedrà come si arriva al
concetto di burnout, che cambia “fisionomia” nel tempo e che si origina da altri concetti
come quello di fatica e di stress, dei quali saranno esposti i principali modelli di
riferimento (Yerkes e Dodson, 1908; Münsterberg, 1913; Selye, 1936; Cooper &
Marshall, 1976, 1978; Van Harrison, 1978; Karasek, 1989). In seguito saranno analizzati
i principali modelli del burnout, rispetto a come esso insorga e si evolve, dai più datati a
quelli più moderni (Freudenberger, 1974; Maslach, 1992; Edelwich e Brodsky, 1980;
Mansmann, 1999): si evidenzierà il carattere multidimensionale e processuale della
sindrome.
Nel secondo capitolo verranno analizzati i sintomi della sindrome del burnout,
evidenziati dai diversi Autori (Maslach, 1992; Cherniss, 1980; Pines, Aronson & Krafry,
1981) e rispetto ad alcuni modelli (Burich, 1985; Farber, 2000) che sono stati focalizzati
principalmente su di essi. In seguito si vedranno le cause che possono originare il
burnout che nel tempo sono state variamente considerate, per esempio dando ora più
spessore a fattori personali, ora a fattori contestuali e lavorativi od ancora extralavorativi,
e si analizzeranno i modelli causali di riferimento più recenti, quali ad esempio la teoria
della conservazione delle risorse (modello COR) (Hobfoll 1988; 1989; 1998; 2001) o
quello della domanda-risorse lavorative (modello JD-R) (Demerouti, Bakker,
Nachreiner & Schaufeli, 2001; Bakker & Demerouti, 2007) in contrapposizione con
quello di Maslach e Leiter (1997), fino alla tesi del contagio di Bakker et al. (Bakker,
Schaufeli, Sixma, Bosveld & van Dierendonck, 2000; Bakker, Schaufeli, Sixma &
Bosveld, 2001).
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In seguito saranno esaminati gli strumenti di misura del burnout, in particolare il
Maslach Burnout Inventory (Maslach & Jackson, 1982), che risulta essere quello
maggiormente utilizzato, e si vedranno le critiche ad esso addotte ed il mezzo di misura
proposto in alternativa, il Cophenagen Burnout Inventory (Kristensen, Borritz, Villadsen
& Christensen, 2005).
Il terzo capitolo sarà totalmente dedicato al burnout negli avvocati, si disamineranno gli
studi pioneristici effettuati (Maslach & Jackson, 1978; Maslach & Jackson, 1978; Feng-
Jen, Wei-Lun, Chang-Chuan & Wei-Lun, 2009; Sharma, Verma, Verma & Malhotra,
2010) e verranno analizzate le conseguenze alle quali vanno incontro gli avvocati
Americani sotto stress, i quali risultano essere la professione più pesantemente colpita
delle altre. Infine si vedrà un riesame della ricerca empirica Americana effettuato dalla
Daicoff (1997) per individuare le cause che portano gli avvocati a sfociare nel distress, a
partire dalle particolari caratteristiche interne all’avvocato fino ad individuare fattori
esterni all’individuo appartenenti al contesto.
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Capitolo I
Verso una definizione del Burnout
Il termine inglese burnout, oggi ancora poco adoperato ed usato in riferimento alle
professioni, principalmente in quelle d’aiuto, ha un significato nebuloso e non è
facilmente definibile in italiano, poiché è assente una parola corrispondente. Per tali
motivi e per pervenire ad una efficace definizione del concetto, si rende necessario un
breve excursus storico che, partendo dai tempi in cui l’uomo è chiamato a svolgere il
proprio lavoro in fabbrica, fino a quelli più moderni, ci possa offrire una panoramica sui
mutamenti avvenuti nell’attività lavorativa, con una specifica focalizzazione sui disagi
avvertiti dai lavoratori, a livello organizzativo e non, ed i relativi studi effettuati,
evidenziando, dunque, da dove esso si sia originato ed in quali contesti.
1.1. Dalla Fatica allo Stress Lavorativo
«L’intera storia dell’umanità può essere rappresentata come storia del lavoro umano,
dalle forme più antiche, dirette a controllare e dominare le forze della natura, fino alle
più recenti e continue trasformazioni dell’ambiente fisico e sociale» (Avallone, 1989,
p. 11
2
). Ed il lavoro, a sua volta, «può essere definito come lo svolgimento di compiti
che richiedono l’esercizio di uno sforzo mentale e fisico e che hanno come obiettivo la
produzione di beni e servizi destinati a soddisfare i bisogni umani» (Giddens, 1994,
p. 441
3
).
Nelle società tradizionali il lavoro era di tipo manuale, s’imparava attraverso un lungo
apprendistato, in famiglia o dal maestro artigiano (Avallone, 1989), ed era assolto dalla
stessa persona in tutte le fasi del processo produttivo (Giddens, 1994). L’individuo
viveva le sue esperienze lavorative, come quelle umane, all’interno del villaggio (che
era in gran parte economicamente autosufficiente, in quanto produceva i beni necessari
a soddisfare i propri bisogni) (Giddens, ibidem), e la sua stessa formazione al lavoro,
che aveva la funzione di supplirne le proprie carenze tecniche, consolidava anche i
valori sociali egemoni (Avallone, 1989).
2
Avallone, F. (1989). La formazione psicosociale:Metodologie e tecniche.
Roma: La Nuova Italia Scientifica.
3
Giddens, A. (1993). Sociology. Cambridge: Polity Press (trad. It. Sociologia, il Mulino, Bologna, 1994).
5
La divisione del lavoro era pressoché inesistente, e riguardava per lo più la divisione per
sesso, per età e per mestieri (Marini & De Simone, 2002
4
).
Con lo sviluppo di nuove tecnologie, l’invenzione dei macchinari e l’avvento di nuove
tecniche di coltivazione, la produzione agricola aumenta, ma si crea una grande
eccedenza di manodopera (Guarracino, Ortoleva & Revelli, 1993
5
). Congiuntamente ad
un forte incremento demografico, dovuto a condizioni di vita migliori, gli individui, per
poter disporre del sostentamento familiare sufficiente, sono costretti ad andare a
lavorare a tempo pieno nelle città (Guarracino, Ortoleva & Revelli, ibidem).
In tale contesto, si avvia la rivoluzione industriale, un periodo storico caratterizzato da
ampi mutamenti avvenuti in tempi molto rapidi (Guarracino, Ortoleva & Revelli, ibidem)
ed in particolare ci si riferisce alla nascita delle prime fabbriche, grandi edifici, per la
produzione od il trattamento di beni di consumo, nei quali al lavoro manuale si univa
quello di nuovi macchinari, mossi inizialmente da un meccanismo centrale che sfruttava
l’energia naturale prodotta dall’acqua dei fiumi o dal vento, successivamente da motori
a vapore ed in seguito da quelli a scoppio ed elettrici (Novara & Sarchielli, 1996
6
).
L’attività lavorativa che, inizialmente era ancora di tipo artigianale e consentiva
all’operaio qualificato di poter esprimere la propria personalità, cambiò radicalmente
fisionomia, conseguentemente all’introduzione dei metodi di Taylor (1902
7
): il processo
lavorativo si parcellizzò in una serie di operazioni, ciascuna delle quali era eseguita da
individui non specializzati, che si adoperavano esclusivamente a svolgere quell’unica
mansione; si introdusse una vera e propria disciplina del lavoro, tale per cui,
nell’esclusivo interesse di abbattere il costo delle macchine attraverso un incremento
nella produzione che non doveva mai fermarsi, i lavoratori non dovevano arrestare in
nessun caso la loro attività, né distrarsi o allontanarsi dalla macchina a cui erano addetti;
per di più le giornate lavorative erano molto lunghe ed i salari molto bassi.
Per questa via ed in seguito all’introduzione di nuovi macchinari ed ad un parallelo
fenomeno immigratorio di massa, le fabbriche si ingrandirono velocemente e crearono
un immenso mercato dei beni di consumo, che andrà a sfociare nella produzione di
massa, cioè nella realizzazione di grandi quantità di beni a basso costo unitario
(Guarracino, Ortoleva & Revelli, 1993).
4
Marini, F., & De Simone, S. (2002). L’inserimento lavorativo delle donne. Roma: Carocci editore.
5
Guarracino, S., Ortoleva, P., & Revelli, M. (1993). Storia dell’età moderna: Dall’assolutismo alla
nascita delle nazioni. Milano: Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori.
6
Novara, F., & Sarchielli, G. (1996). Fondamenti di psicologia del lavoro. Bologna: il Mulino.
7
Taylor, F. W. (1902). Shop management. New York: Herper & Brothers, riedito nel 1947 in «scientific
management» (trad. it L’organizzazione scientifica del lavoro, Milano, Comunità, 1952).