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Introduzione
Il termine malattia e il termine disagio spesso sono utilizzati attribuendogli uno stesso
significato, o un significato simile e la parola “malattia” è contrapposta alla parola “salute”.
Il termine “salute” ha subito diverse modifiche negli ultimi 100 anni. Si è passati da attribuirgli
il semplice contenuto di assenza di malattia ad attribuirgli significati più ampi con risvolti
sociali e storici, ad altri con connotazioni comportamentali, politiche ed economiche.
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Oggi il
concetto è quello dell’Organizzazione Mondiale di Sanità che lo definisce come “uno stato di
completo benessere fisico, mentale e sociale che non coincide con una condizione di assenza di
malattia o infermità” (1948).
Nel 1998, sempre l’O.M.S., ha ampliato questa definizione considerando la salute uno stato
dinamico di completo benessere fisico, mentale, sociale e spirituale non mera assenza di
malattia. Dalla definizione si capisce che la salute mentale rappresenta parte integrante della
sanità e del benessere e che non è possibile una vera salute senza benessere psichico.
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Il concetto di malattia non ha un significato univoco e definire tale termine è più complesso.
Ciò che è malattia a certe latitudini o in certi periodi, può non esserlo in altre o in altri periodi.
Se, infatti, nei paesi in via di sviluppo essere malato significa, principalmente, essere denutrito,
nei paesi industrializzati significa, principalmente, essere colpiti da tumore, AIDS, avere
disturbi psichici o cardiopatie. Associato al concetto di malattia c’è quello di
normalità/anormalità, fortemente legato al contesto culturale e di relazioni sociali in cui il
soggetto vive.
Una normalità biologica è oggettivamente più semplice da definire, poiché si basa su parametri
oltre i quali si sconfina nella patologia, la normalità culturale e/o sociale, possedendo parametri
e valutazioni etici e morali del comportamento, varia a seconda del gruppo culturale di
appartenenza. Poiché i due punti di vista sono fortemente intrecciati, risulta difficoltoso
giungere ad una obiettiva opinione del e sul disturbo. Questo porta a far rientrare la salute nella
norma ed il disagio come devianza dalla norma stessa.
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Dendasck C. Neto D.C. Oliveira E. L’evoluzione storica della salute pubblica,
www.nucleodoconhecimento.com, 03.05.2016, consultato 18.19.2021
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Canero Medici R. I cancelli si aprono. Dai manicomi di ieri ai TSO di oggi, Edizioni
Psiconline, Francavilla al Mare 2021, pag.31
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Così non è, infatti, sia la salute che il disagio, fanno parte dello stesso processo fisiobiopsichico
e determinano specifiche conseguenze nel quotidiano.
Il disagio, nel momento in cui si manifesta, rappresenta una diversità, più che una devianza, e
l’esclusione del disagiato, può portare all’aggravamento della patologia, mentre una sua
accettazione può portare ad una attenuazione del disturbo in atto.
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Questo è vero anche per il
disagio psichico.
In questi ultimi due anni l’impatto della pandemia sul disagio psichico è stato sicuramente
notevole e diversi studi ed alcune statistiche, anche se non complete, lo confermano.
Dall’entrata in vigore della legge 180/78, erroneamente etichettata come legge Basaglia, o
legge sui manicomi, sono passati oltre 40 anni. Tale legislazione prevedeva la chiusura dei
manicomi e dava dignità a persone che non ne avevano nessuna. Lasciava però aperte delle
crepe e conteneva, come già evidenziava Franco Basaglia dei difetti, come gli articoli sui
Trattamenti Sanitari Obbligatori. La cattiva applicazione della stessa e le lacune già insite in
questa, hanno portato a distanza di molti anni ad utilizzare sempre di più metodi di
contenzione, come un tempo, ed a mettere da parte non solo la cura del disagiato ma soprattutto
la risocializzazione. Mi sono chiesto quale sia la situazione dopo due anni di pandemia
relativamente al disagio mentale e, per fare questo, sono ripartito da un esame dell’iter
legislativo e degli aspetti di cura e di risocializzazione del disagiato dalla legge 36, legge
Giolitti, del 1904 ai giorni nostri.
Gli studi del fenomeno nei tempi della pandemia sono parziali e le statistiche sono incomplete,
ma tutto questo mi ha portato a comprendere che c’è ancora molto da fare e che spesso in
questo campo la risocializzazione è più importante della cura, non sempre possibile.
3
Lacerenza A. Malattia come disagio o disagio come malattia? www.psicologoroma-
desantis.it, 05.09.2019, consultato 02.12.2021
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Capitolo I
Gli uomini saranno sempre pazzi, e
coloro che credono di poterli curare sono i
più pazzi di tutti Voltaire
Il disturbo mentale nella storia
Il disturbo mentale è descritto già nell’antichità. Per la prima volta si trova rappresentato,
tramite antichi geroglifici, sin dal 1550 A.C. In un papiro del’antico Egitto compare una
sezione dedicata alla follia attribuendogli una eziologia legata a sintomi di avvelenamento
dovuti anche a possessioni demoniache. Nei secoli ai malati mentali sono stati attribuiti poteri
demoniaci e mistici. Sono stati isolati, considerati pericolosi per la società e spesso isolati e
stigmatizzati. Alla malattia mentale sono state attribuite cause fisiologiche, basate sul
determinismo biologico in linea con il pensiero di Charles Darwin. Verso la fine del XVIII
secolo un medico chirurgo Jacques René Tenon rivoluzionò la mentalità medica dell’epoca
introducendo il concetto di inviolabilità della persona e di libertà anche per i malati mentali
asserendo che: “Il primo rimedio per la guarigione consiste nell’offrire ai folli una certa
libertà, in modo che essi possano abbandonarsi misuratamente agli impulsi naturali.”
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Successivamente Pinel, in contrasto con le cause deterministiche, attribuì la malattia mentale a
eventi specifici e propone un ‘trattamento morale’. La vera rivoluzione relativamente alla follia
e alla sua cura è rappresentata dalla distruzione degli ospedali psichiatrici come luoghi di
istituzionalizzazione, rappresentata dalla Antipsichiatria e in Italia dal medico Franco Basaglia.
Spesso i disagiati mentali sono stati stigmatizzati e quindi allontanati al livello sociale, come lo
sono state altri gruppi umani, come per esempio i lebbrosi e gli ebrei. E lo stigma è molto più
forte di un numero di matricola tatuato sulla pelle, spesso, più di tatuaggio, è impossibile
levarselo. Per comprendere la situazione attuale relativa alla malattia mentale e al processo di
risocializzazione dei disagiati mentali, che presenta ancora grosse crepe, occorre considerare,
anche se in maniera sintetica, l’excursus del concetto e delle modalità di cura della stessa.
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Foucault M. Storia della follia nell’età classica, BUR, Milano, 2010, pag.369
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1.1 Il disturbo mentale nell’antichità
Un riferimento del disturbo mentale ante litteram si trova espresso in un papiro dell’antico
Egitto intorno al 1550 a. C., questa risulta la più antica datazione di un tentativo
d’interpretazione delle alterazioni psichiche in chiave di malattia, questa viene trattata come
vengono trattate le malattie fisiche. Vengono descritti dei quadri psichici che possono
ricollegarsi alla depressione ed alla demenza. L’eziologia della stessa viene attribuita ad
avvelenamenti spesso di natura demoniaca.
La Scuola greca fondata da Ippocrate (460-370 a.C.) formula una concezione non più statica,
come lo era stata quella egizia, ma dinamica, della malattia mentale e di questa descrive lo
sviluppo e il decorso durante le diverse fasi.
Proseguendo in un esame della follia nell’antichità un riferimento filosofico alla follia/pazzia
si ha in Platone che nel Fedro definì quattro forme di follia: delirio mantico o divinazione,
delirio telestico, delirio poetico e quello che scatena l’amore e tutto il pensiero medico-
filosofico precristiano che scinde la follia in psicologica ed organica.
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Successivamente Galeno, nel II secolo d.C., introduce la nozione di pneuma psichico, visto
come sostanza gassosa che circola nei ventricoli cerebrali. A suo avviso la malattia è nel lo
pneuma e non in una possessione demoniaca.
Nell’antica Roma, in applicazione della dottrina di Ippocrate (IV-V secolo a.C.), i folli erano
ritenuti malati e non erano punibili se commettevano un reato. La legislazione romana
equiparava l’irresponsabilità del pazzo (demens) a quella del fanciullo (infans). Il diritto
ecclesiastico accolse i principi di quello romano escludendo l’imputabilità dei fanciulli e in
mancanza di volontà criminosa.
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Nel Medio Evo la pazzia fu considerata una forma di possessione dell’essere umano da parte di
spiriti maligni, i sintomi furono visti come manifestazioni associate al concetto di peccato o a
pratiche di stregoneria. L’ammalato/a era ritenuto succube del demonio e, specialmente se
donna, passibile di essere bruciato sul rogo.
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In questo periodo la concezione di follia fu
compresa nella contrapposizione dualistica cristiana di Bene/Male parte inscindibile
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Ligioni A. Breve storia della follia, www. Quaderni contemporanei.it 12.02.2021, consultato
19.11.2021
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Languasco S. Crimine e follia. La costruzione sociale della devianza tra diritto, neuroscienze
e psichiatria,Tesi di Laurea, Università degli Studi di Venezia Ca’ Foscari, A.A. 2012-2013
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Proietti G. Storia della follia, www.psicolinea.it, 17.06.2020, consultato 19.11.2021
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dell’umana condizione. Il malato mentale era comunque ammesso nella società come parte
costitutiva. L’isolamento non gli precludeva un ruolo sociale e simbolico, che l’arte e la cultura
dell’epoca non mancheranno di rappresentare. Il folle viene visto come un personaggio oggetto
di rappresentazione artistica e di allegoria, ancor più che un uomo in carne e ossa, stereotipo
dell’insensatezza umana e nascondiglio delle paure dei suoi contemporanei.
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Indicativa di questa svolta è la rappresentazione della follia che andava diffondendosi nei primi
secoli dell’anno mille da parte di pittori come Durer, Brueghel e soprattutto Bosch che, con il
dipinto La nave dei folli, rappresenta il folle come stereotipo della sregolatezza e
dell’insensatezza della condizione umana, protagonista di un viaggio insulso alla volta del nulla
o forse del sapere universale.
Il dipinto prende spunto dall’opera satirica “Das Narren Schiff” scritta da Sebastian Brant nel
1494 raffigurante un battello che trasportava, da una città all’altra, un carico di folli guidato
esso stesso da folli. Era prassi comune infatti allontanare i “matti”, che spesso conducevano una
vita vagabonda, dalla comunità dei “normali” affidandoli a gente di mare:
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«Accadeva spesso che venissero affidati a battellieri: a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai
vengono incaricati di sbarazzare la città di un folle che passeggiava nudo […]. Talvolta i
marinai gettano a terra questi passeggeri scomodi ancor prima di quanto avevano promesso
[…]. Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli››
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La
navigazione è simbolo di isolamento e purificazione, preludio di internamento e rito misterioso
che si riconduce ad antiche magie e cabale che nel Medio Evo affiancavano l’immagine del
folle.
1.2 Il disturbo mentale tra Rinascimento e mondo moderno
La nascita della razionalità moderna tra Rinascimento e Seicento, e il progressivo sviluppo di
una civiltà sempre più efficiente dal punto di vista tecnologico, portò a classificare la
follia/pazzia come malattia mentale. Ciò favorì una nuova considerazione del folle visto come
isolato sociale così come lo erano stati i lebbrosi durante il Medio Evo portando, all’inizio del
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Foucault M. Storia della follia nell’età classica, BUR, Milano 2010, pp. 20-21
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Languasco S. Crimine e follia. La costruzione sociale della devianza tra diritto, neuroscienze
e psichiatria, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Venezia Ca’ Foscari, A.A. 2012-2013
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Foucault M. Storia della follia nell’età classica, BUR, Milano 2010 pp.16-17