Il disagio lavorativo contemporaneo: contesti strutturali e relazionali.
Possibilità di azione e cambiamento
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sono limitate, e per permettere a tutti di avere un tenore di vita
umano, e contemporaneamente la riduzione del tempo dedicato al
lavoro, molti dovrebbero rinunciare ai loro agi. Ma la società
opulenta non è disposta a questo sacrificio, e si regge invece
sempre più sulla continua produzione e consumo di beni inutili. Con
quali conseguenze?
Forse oggi il lavoro non può più essere definito alienato,
almeno non nella concezione marxista del termine, ma le forme che
ha assunto sono ancora molto lontane dalla liberazione da
repressione e nevrosi, nonostante si sia più vicini ai parametri di
flessibilità e intercambiabilità delle funzioni che Marcuse indicava
come necessarie.
Oggi, come mai prima d’ora, il mercato è guidato dai
consumatori, e i consumatori hanno fame di cambiamenti; pertanto
il mercato, e conseguentemente il mondo del lavoro, è sempre più
dinamico, continuamente in movimento, al punto che la necessità di
figure professionali delle aziende si modificano continuamente. La
flessibilità, che alcuni chiamano precarietà, diventa sempre più un
imperativo. E l’intercambiabilità delle funzioni, che alcuni vedono
come perdita di professionalità, porta sempre più a sfumare i
confini tra i ruoli.
Personalmente non vedo solo aspetti negativi in questa
rivoluzione che il mercato del lavoro sta attraversando.
Credo che non sia mai stato facile come oggi, per chi ne ha
l’opportunità, scegliersi e costruirsi la propria professionalità. Ma
non tutti ne hanno l’opportunità.
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Credo che la mentalità del “lavoro a tempo indeterminato”
abbia fornito a molti lavoratori sicurezze economiche a scapito
dello sviluppo della personalità professionale, nonché personale.
Ma credo anche che la società non abbia fornito ai lavoratori i
mezzi necessari per inserirsi in maniera adeguata in questa nuova
realtà: ai lavoratori viene chiesto di essere pronti a continui
cambiamenti, di essere più versatili e aperti al nuovo, di essere più
creativi e meno attenti alle procedure formali. Ma chi gli insegna a
farlo? Chi gli insegna a costruirsi una propria personalità quando le
opportunità di lavoro a breve termine gli chiedono invece di
reinventarsi in ogni nuovo lavoro?
I giovani escono dalla scuola assolutamente impreparati a
questa realtà, incalzati dai genitori che li spingono a cercare un
lavoro sicuro, e non sanno destreggiarsi in questa realtà caotica che
il mondo del lavoro gli presenta.
E’ indubbiamente altrettanto difficile per chi nel mondo del
lavoro ci è già da anni, abituato a un idea di carriera che sta
sparendo, a una suddivisione dei compiti che si sta dissolvendo.
Individui che si trovano a dover affrontare cambiamenti che le
istituzioni gli impongono senza prepararli adeguatamente: le regole
sulle promozioni e i licenziamenti che conoscevano non esistono
più, le loro mansioni non sono più chiare e definite, e il nuovo
imperativo è imparare, formarsi, acquisire nuove conoscenze per
stare al passo col mondo che cambia velocemente. (Sennett, 1998)
Ma non è facile ricominciare ad imparare da soli quando non lo si è
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fatto per tanto tempo, e non tutti possono contare su un adeguato
supporto da parte delle aziende o del sistema sociale.
Oggi quindi ci troviamo ad affrontare una radicale
ristrutturazione del mondo del lavoro, che si è insinuata poco alla
volta, in maniera per lo più sotterranea, senza lasciare il tempo agli
individui di adattarsi.
Sono diversi i fattori che hanno determinato questi
cambiamenti. L'economia si smaterializza, spariscono le fabbriche e
cambia il modo di produrre, con il passaggio dalla produzione di
merci alla predominanza nella produzione di servizi. Altro fattore
con cui fare i conti è la personalizzazione del processo produttivo
che non produce più merci standard, ma prodotti personalizzati
sulla base delle esigenze individuali del consumatore.
E’ poi sempre più difficile misurare il risultato economico
dell'attività lavorativa. La maggior parte del lavoro prodotto
attualmente non permette la misurazione della produttività
giornaliera di un lavoratore, come avveniva invece nella produzione
di merci. La valutazione diventa in questo caso arbitraria, e quando
si inseriscono elementi di arbitrio nella valutazione economica della
prestazione lavorativa è facile immaginare quali problemi ne
possano conseguire.
Un altro fattore di trasformazione è il fatto che non esistono
più elementi di garanzia del lavoro, non soltanto del posto fisso ma
neppure del lavoro in sé. La maggior parte dei contratti oggi a
disposizione sono atipici: lavoro temporaneo, contratti a progetto,
contratti occasionali, stage. Il contratto standard di lavoro sta
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sparendo, e cresce ovunque la contrattazione individuale. Questo
non è necessariamente un cambiamento negativo, ma indubbiamente
crea confusione, disagio, perdita di sicurezze, soprattutto se si
considera che i lavoratori poco conoscono di questi nuovi contratti.
In seguito a questi cambiamenti, è inevitabilmente aumentato
il peso dell’identità lavorativa sull’identità personale, e ciò ha
portato, negli ultimi anni, a dedicare al lavoro sempre maggiori
spazi che, spinti all’eccesso, hanno generato ricadute negative sulla
vita psico-sociale e sulla salute fisica.
Il malessere sociale che nasce dall’eccessivo tempo riservato
al lavoro e dalla confusione dovuta a tutti questi cambiamenti è
stato descritto, negli ultimi anni, nei termini di “burn-out”, di
“sindrome da stress lavorativo”, ma anche di “lavoro-dipendenza” o
“work addiction”. Per non parlare del fenomeno del “mobbing”, oggi
come mai argomento di attualità.
E mentre per i giovani è sempre più difficile costruirsi
un’identità lavorativa, per i lavoratori vicini alla pensione è sempre
più problematico costruirsi un’identità diversa da quella lavorativa,
che per quasi tutta la vita li ha caratterizzati in maniera pregnante.
Senza contare che la vita media si è notevolmente allungata, e spesso
gli individui alle soglie della pensione si sentono e sono ancora attivi
e produttivi, mentre il mercato del lavoro considera le loro
professionalità obsolete, superate.
Questa tesi intende affrontare il problema dei lavori atipici e
della loro diffusione nel mercato del lavoro, delle conseguenze sulla
salute psico-fisica dei lavoratori e, infine, cerca di individuare
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possibili scenari formativi che potranno aiutare ad arginare questo
diffuso disagio legato alla vita lavorativa degli individui.
Il primo capitolo cerca di indagare come il mercato del lavoro
sta evolvendo, quali sono i nuovi contratti con cui i lavoratori si
trovano oggi faccia a faccia, cercando di far luce sui vantaggi e
svantaggi di ognuno, e sulle motivazioni razionali che spingono da un
lato l’imprenditore a creare occupazione atipica, dall’altro il
lavoratore ad accettare o meno occupazioni che potrebbero non
assicuragli, nel lungo periodo, un tenore di vita sufficiente.
L’esperienza americana, dove il lavoro in affitto è una realtà in
costante crescita e le agenzie private di lavoro interinale si
moltiplicano, è una prova che i lavori atipici possono essere un valido
strumento non solo per creare occupazione, ma anche per introdurre i
giovani nel mondo del lavoro. D’altro canto il mercato del lavoro
americano è noto per le sue caratteristiche di spiccato liberismo: non
vi sono enti pubblici di collocamento, non vi sono enti di previdenza
pubblica... Proprio la precarietà del lavoro atipico è il maggior
svantaggio di tali forme di occupazione: se è vero che, in teoria,
possono dare una mano a creare nuova occupazione, è anche vero che
non si tratta di lavori sicuri, protetti socialmente e retribuiti a
sufficienza.
Il secondo capitolo tratterà le principali conseguenze
psicologiche e sociali che la trasformazione del lavoro provoca e
provocherà negli individui. Si parlerà quindi di fenomeni come il
mobbing, termine usato per definire il complesso di azioni e
reazioni che ha luogo in una situazione di terrorismo psicologico
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esercitato sul posto di lavoro; di burn-out, la cui definizione più
diffusa è quella di sindrome caratterizzata da esaurimento
emozionale, depersonalizzazione e riduzione delle capacità
personali.
Le cause del fenomeno più frequenti sono il lavoro in
strutture mal gestite, la scarsa o inadeguata retribuzione,
l’organizzazione del lavoro disfunzionale o patologica, lo
svolgimento di mansioni frustranti o inadeguate alle proprie
aspettative oltre all’insufficiente autonomia decisionale e a
sovraccarichi di lavoro. Si parlerà poi di work-addiction,
contraddistinta psicologicamente da mancanza di volontà nel trovare
momenti di stacco dal lavoro, da mancanza di segni di sofferenza
nel sacrificio al lavoro e la conseguente presenza di un’idea del
“vivere per lavorare” che, per una o più ragioni, ha sostituito quella
del “lavorare per vivere”. Si parlerà inoltre dei notevoli disagi e
difficoltà che incontrano i giovani che nel mondo del lavoro entrano
per la prima volta.
Nel terzo capitolo verranno invece presi in considerazione gli
strumenti di cui dispongono il mondo della formazione e le
organizzazioni per occuparsi di questi disagi sempre più frequenti
nella vita lavorativa degli individui. Verrà in particolare indagato
come sia possibile, all’interno di percorsi e strategie aziendali,
conservare e ampliare spazi per l’arricchimento degli individui.
Nell’analizzare due importanti teorie organizzative, l’approccio
psicosocioanalitico e l’empowerment, si cercheranno di analizzare
primariamente le possibilità di sviluppo individuale insite in queste
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teorie. Vedremo quindi quali sono le cause riconosciute
dall’approccio psicosocioanlitico del disagio organizzativo: esse
risiedono nello scarto tra compito primario organizzativo, ovvero
gli obiettivi aziendali, e compito primario individuale,
caratterizzato da quelli che sono gli obiettivi e aspirazioni degli
individui che all’interno dell’organizzazione lavorano. Partendo
quindi dal presupposto che il disagio organizzativo può essere
arginato solo tramite l’integrazione e fusione dei compiti primari
individuali e istituzionali, vedremo quali strumenti formativi
l’approccio psicosocioanalitico propone a questo scopo, nel
tentativo di portare gli individui a una nuova assunzione di
responsabilità nei confronti di quello che nell’esperienza
organizzativa può loro accadere. L’importanza dell’empowerment
invece, sempre in un’ottica di sviluppo del controllo sulla
situazione di lavoro da parte degli individui, è data dal fatto che
esso consiste in un processo attraverso il quale le persone, a partire
da qualche condizione di svantaggio e di dipendenza, arrivano a
rafforzare la propria capacità di scelta, autodeterminazione e
autoregolazione, sviluppando parallelamente il sentimento del
proprio valore, la propria autostima ed autoefficacia, riducendo
parimenti i sentimenti di impotenza, sfiducia e ansietà. Il quarto
capitolo è infine dedicato alla trattazione di quattro storie di
disagio caratterizzate dalla presenza di quelli che sono gli elementi
più diffusi e più invasivi del disagio lavorativo contemporaneo: la
rapida obsolescenza delle conoscenze; la mancanza di tutele
previdenziali ed economiche caratteristiche di molti contratti di
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lavoro atipici; l’impossibilità di disporre del proprio tempo e di
organizzare il proprio futuro, nel breve e nel lungo termine; la
perdita di un senso di identità professionale che si riverbera in una
parallela perdita di senso d’identità personale. I protagonisti di
queste storie pagheranno sul piano personale i costi della
flessibilità del lavoro, con la perdita della salute fisica e psichica,
della serenità familiare e con l’abbandono, o il rinvio a un tempo
indefinito, dei propri progetti di vita.
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CAPITOLO PRIMO
IL LAVORO OGGI
Sommario: 1. Il nuovo mercato del lavoro - 2. La fine del posto fisso - 3. Il
concetto di flessibilità oggi - 4. Il lavoro atipico - 4.1 Le forme di flessibilità del
lavoro - 4.2 I nuovi contratti di lavoro - 4.3 La somministrazione di lavoro
1. Il nuovo mercato del lavoro
La concezione del lavoro e la sua collocazione all’interno della
vita di una persona e delle sue abitudini quotidiane risentono del
pensiero sociale sul lavoro, che si è trasformato radicalmente dal
passato ad oggi. (Accornero, 1999) Il lavoro, infatti, è stato per secoli
ritenuto un’attività ignobile, da assegnare principalmente a schiavi e
prigionieri mentre solo le attività di coordinamento e supervisione
venivano esercitate dai rappresentanti delle classi sociali più elevate.
In alcune culture, come in quella spagnola, la stessa etimologia della
parola “trabajo” nasceva dal termine latino “tripalium”, con cui
veniva designato uno strumento di tortura destinato agli schiavi che
non producevano.
Nel XVIII° secolo il lavoro cominciò a diventare un’attività
sempre più diffusa tra i rappresentanti di tutte le classi sociali e
gradualmente si avviò un cambiamento nell’immaginario sociale,
rappresentando il lavoro come un’attività dignitosa e orientata al
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raggiungimento di un obiettivo, che può essere la realizzazione di un
bene o la creazione di un servizio.
Le successive trasformazioni, osservate soprattutto nella
seconda metà del ‘900, hanno visto divenire il lavoro non solo
un’attività necessaria per vivere, in quanto consente l’indipendenza
economica, ma anche un mezzo di affermazione nel sociale, che
assegna uno status e che riveste il valore di un rituale che
contrassegna il vero passaggio all’età adulta. E tutta questa tensione e
attenzione sul lavoro, ha fatto si che sia notevolmente aumentato il
peso dell’identità lavorativa sull’identità personale e ciò ha portato,
negli ultimi anni, a dedicare al lavoro sempre maggiori spazi che,
spinti all’eccesso, hanno generato ricadute negative sulla vita
psico-sociale e sulla salute fisica. (De Masi,1999).
Inoltre oggi, se da una parte aumentano i disoccupati in cerca
di lavoro, dall’altra diminuiscono i posti disponibili. Le persone in
cerca di lavoro aumentano per tanti motivi: cresce la popolazione
complessiva del pianeta; aumenta il numero delle persone scolarizzate
che vogliono mettere a frutto i sacrifici fatti per studiare; vogliono
lavorare anche le sterminate masse del Terzo Mondo e, se non trovano
lavoro in patria, lo cercano dei paesi più industrializzati; vogliono
lavorare le donne, escluse in maggioranza fino a un recente passato;
vogliono lavorare anche gli anziani, che giustamente sono e si sentono
ancora attivi e produttivi, dal momento che la vita media si è
allungata. Tutte queste pretese di lavoro sono legittime e
meriterebbero di essere soddisfatte, ma i posti disponibili crescono a
un ritmo assai più lento dei postulanti, e i motivi sono chiari: le nuove
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tecnologie riescono sempre più a soppiantare il lavoro umano, non più
solamente nel lavoro manuale ma anche in quello intellettuale; i
progressi organizzativi riescono a combinare sempre meglio i fattori
produttivi in modo da creare un numero crescente in prodotti in
sempre meno tempo; la globalizzazione consente di delocalizzare le
fabbriche nel Terzo Mondo e di attingere beni e servizi in paesi anche
lontanissimi, evitando di produrli sul posto. E i rimedi che vengono
proposti sono chiaramente insufficienti: si può ritardare l’ingresso dei
giovani nel mercato del lavoro prolungando l’obbligo d’istruzione; si
può anticipare il ritiro degli occupati, col prepensionamento; si può
ridurre l’orario di lavoro ridistribuendo quello che resta; si può
incrementare il lavoro esistente attraverso nuovi investimenti
incentivati da sgravi fiscali, aiuti governativi e incoraggiamento ai
consumi; si possono inventare nuovi campi d’attività per soddisfare
bisogni emergenti, o, peggio ancora, inventare nuovi bisogni. (De
Masi, 1999)
E la situazione è resa ancor più complicata da una serie di
trasformazioni interne al mondo del lavoro che lentamente ma
inesorabilmente stanno modificando le abitudini dei lavoratori.
La limitata creazione di posti di lavoro durante gli ultimi
trent’anni (in particolare negli anni ´80 e ´90), anche in periodi di
relativa crescita economica, è un malessere ormai noto dell’economia
continentale Europea. L’allarme disoccupazione è andato via via
peggiorando dagli anni ´70 alla fine degli anni ´90 in paesi come la
Germania, la Francia, l’Italia e la Spagna. Parimenti è noto che paesi
di tipo “anglosassone” (in particolare USA, Regno Unito e Canada)
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non hanno sofferto questa protratta “malattia” pur essendo stati
colpiti, al principio di questo periodo (anni ´70), dagli stessi shock
petroliferi e da un marcato rallentamento nella crescita della
produttività almeno fino ai primi anni ´90.
La causa immediata di queste diverse performance nella
creazione di posti di lavoro è spesso individuata nella maggiore
"flessibilità" delle istituzioni del mercato del lavoro anglo-sassone.
La concezione della razionalizzazione fondata sulla produzione di
massa, affermatasi negli Stati Uniti e recepita in Europa nel secondo
dopoguerra, viene soppiantata da una nuova concezione basata sulla
flessibilità. Questa radicale trasformazione ha un duplice effetto sul
lavoro produttivo: la riduzione dei posti di lavoro e un diverso
utilizzo della forza di lavoro rimasta. (Maggi, 2001) La minori
limitazioni su assunzioni e licenziamenti, il più elevato "turnover" dei
lavoratori sono stati visti da molti economisti e politici come quel
grado di flessibilità in più che ha garantito alle istituzioni
anglosassoni un più rapido recupero dopo gli shock degli anni ´70.
(Giovanetti, 2000) La principale conseguenza è stata che l’Europa
intera (e l’Italia al seguito) sta facendo sforzi per adeguarsi a questo
nuovo imperativo di flessibilità.
Con questo termine vengono oggi descritti il tono e senso di una
molteplicità di trasformazioni che stanno interessando il mondo del
lavoro. È un dato di fatto che i cicli produttivi, ovvero i modi per
produrre un certo bene in un certo periodo, sono sempre più corti:
oggi, come mai prima d’ora, il mercato è guidato dai consumatori, e i
consumatori hanno fame di cambiamenti; pertanto il mercato, e
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conseguentemente il mondo del lavoro, è sempre più dinamico,
continuamente in movimento, al punto che la necessità di figure
professionali delle aziende si modificano continuamente. Infatti,
quando cambia un ciclo produttivo, cambia tutto: organizzazione,
macchine, addetti. Se la rigidità ha come riferimento paradigmatico le
macchine automatiche e la configurazione della fabbrica fordista, la
tecnologia è invece flessibile quando consente passaggi veloci e non
costosi tra diversi prodotti e tra tipi di prodotto. (Maggi, 2001) I
vecchi lavoratori sono formati per il vecchio prodotto e la vecchia
organizzazione, e devono quindi essere sostituiti. In poche parole,
nuovo prodotto, professionalità nuove. E in assenza di una
riqualificazione, lunga e costosa per l’azienda, e di un aggiornamento
continuo per stare al passo, il lavoratore diventa obsoleto, un peso per
l’organizzazione. L’effettivo superamento del fordismo è infatti
segnato dalla concezione della produzione snella, che riassume un
insieme integrato di pratiche innovative, non tanto di natura
tecnologica, quanto piuttosto organizzativa e gestionale. E in questo
nuovo sistema l’apporto dell’operatore è ingrediente fondamentale:
gli operatori sono considerati i principali artefici del perseguimento di
costanti miglioramenti, per questo è necessario personale polivalente
e interfunzionale. In questo senso, il concetto di flessibilità appare
piuttosto ambiguo, se si considera che all’operatore non viene
“concessa” la flessibilità, bensì imposta. (Maggi, 2001)
Per vivere e svilupparsi in questo mercato in rapido mutamento,
le organizzazioni industriali e di servizi sono chiamate a misurarsi
con tassi di flessibilità molto elevati. Da un lato, esse esigono dai
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singoli la partecipazione attiva e la condivisione degli obiettivi, un
atteggiamento “flessibile” nel senso di “rivolto al cambiamento”,
“creativo”; dall’altro impongono la flessibilità dei rapporti di lavoro,
interruzioni nei contratti e nei legami che i singoli hanno con i propri
capi, i colleghi, e i gruppi presenti nell’organizzazione.
Diverse ideologie e diverse scuole di pensiero danno diverse
valutazioni e interpretazioni di questa nuova faccia che l’imperativo
di “flessibilità” impone al mercato del lavoro.
C’è chi sostiene che i costi dell’adattamento finiscono per
essere scaricati interamente sui singoli, per i quali la flessibilità
diventa sinonimo di “precarietà”, rischio di disoccupazione,
impoverimento professionale, perdita di identità e di appartenenza.
(Gallino, 2001)
Dall’altra parte della barricata invece i sostenitori del nuovo
mercato del lavoro sostengono che sempre più le imprese hanno
bisogno di organizzarsi in modo flessibile per competere. E sempre
più le persone hanno bisogno di conciliare il tempo di lavoro con il
tempo per la famiglia o lo studio, necessitando quindi di maggior
flessibilità di tempi e ruoli lavorativi. (De Masi, 1999)
Probabilmente c’è un po’ di verità in entrambe le visioni, ma
sicuramente questa fase di transazione tra “vecchio” e “nuovo”
mercato del lavoro, che l’Italia sta attraversando in pieno, crea
confusione e disagi per tutti i lavoratori.
Cercherò quindi in questo capitolo di descrivere le dinamiche di
queste trasformazioni che il mondo del lavoro sta vivendo,
cogliendone le potenzialità, ma anche i limiti e le precarietà.