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dell’eutanasia. L’obiettivo, infatti, è di proporre e spiegare i sistemi
metodologici elaborati dai filosofi, che, con opportuni ragionamenti,
tentano di dare delle risposte e delle linee di soluzione per l’eutanasia.
Individuare, pertanto, il discorso tracciato da ciascuno dei filosofi
significa riuscire a comprendere il perché di talune scelte, di talune
adesioni a certi valori e principi anziché ad altri. L’analisi ha interessato sia
gli esponenti del versante laico della filosofia, sia quelli del versante
religioso. Il confronto tra i due tipi di ragionamento in apparenza presenta
differenze evidenti per quanto riguarda proprio le motivazioni che
giustificano il percorso del ragionamento ma, ad un attento esame, è
opportuno tenere conto anche delle profonde similitudini che caratterizzano
le due correnti, sebbene sulla base di fondamenti e punti di vista differenti.
Il che significa che espressioni quali “dignità del morire”, “rispetto della
vita del paziente”, “obbligo di assistenza” finiscono per essere l’oggetto
comune della discussione e i risultati a cui si mira in ogni caso
prescindendo dalle diverse spiegazioni addotte.
Ciascuna vicenda inquadrabile come eutanasia messa in risalto dalla
cronaca degli ultimi anni presenta sempre un complesso di problematiche,
veri e propri dilemmi, ai quali è difficile dare una risposta in termini di
univocità. Ancora una volta il metodo della filosofia può costituire una
3
linea guida da utilizzare prima di decidere la condanna o l’assoluzione nelle
aule dei tribunali. E, dunque, la parola “diritto”, che subentra tutte le volte
in cui si va a parlare di eutanasia, presenta anch’essa un complesso di dubbi
e di argomenti che ne sono direttamente connessi. “Si può parlare
realmente di un diritto alla ‘dolce morte’?”, “può essere questo considerato
un diritto fondamentale dell’individuo?”, “ma a chi spetta poi l’onere di
compiere il gesto estremo, di staccare la spina?, al medico?, ai familiari?”,
“è necessario o meno il consenso del paziente?”, “quando e come deve
essere manifestato tale consenso?”. Sono questi i grandi quesiti che
l’eutanasia pone e sui quali si interrogano davvero tutti, dagli esperti del
settore all’opinione pubblica, perché è difficile anche per lo stesso
Legislatore fissare dei confini, predeterminare delle sanzioni quando si
toccano le frontiere della vita e della morte.
Saranno presentate nel corso del lavoro delle sentenze emesse in
occasione di vicende di eutanasia registrate negli ultimi anni. Anche questa
volta si è teso a considerare le motivazioni e i ragionamenti utilizzati dai
magistrati delle corti italiane e straniere, cercando di comprendere il perché
della decisione adottata.
4
Uno dei più importanti riferimenti legislativi sull’eutanasia è oggi
dato dal modello olandese, lì dove è ammessa la ‘dolce morte’ sulla base di
un apposito iter mediante il quale si accerta la legittimazione a procedere o
meno all’eutanasia. Ugualmente l’adozione di tale sistema, preceduta
anch’essa da un serrato dibattito dottrinario, presenta delle difficoltà e dei
dubbi etici di grosso spessore. Lo stesso, peraltro, è accaduto, sempre in
Olanda, a seguito della recente innovazione che ha comportato l’estensione
dell’eutanasia anche ai bambini.
In Italia, invece, la discussione resta aperta. Ci si chiede, quindi, se è
possibile legiferare sull’eutanasia e in che termini. Per ora bisogna
soffermarsi sulle proposte e sui suggerimenti su come potrebbe essere
elaborata una disciplina giuridica sulla dolce morte’, tenendo conto anche
delle indicazioni della nostra Costituzione e dei riferimenti ai codici
esistenti.
Infine, l’eutanasia trascina con sé anche la problematica relativa alle
cure alternative. In particolare l’analisi ha riguardato il sistema della terapia
palliativa, considerata come opportunità per i pazienti anche per evitare che
essi richiedano la morte. Ma, se le cure palliative fungono da alternativa
rispetto all’eutanasia e alla sua applicazione, d’altro canto esse stesse
pongono interrogativi etici.
5
Non a caso, spesso, questo genere di terapia comporta un
abbreviamento della vita del paziente, per cui, sul piano degli effetti
concreti, esse risultano assimilabili all’eutanasia stessa.
Saranno esposte, quindi, le diverse opinioni che si sono susseguite in
merito all’utilizzo della terapia alternativa, individuando le singole
giustificazioni portate avanti.
Tale discorso, peraltro, si coniuga con i diritti e i doveri che
scaturiscono dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche nel settore della
medicina e che ci portano sempre più spesso a chiederci dove sia il confine
tra la consapevolezza e la libertà di scelta dell’assistito e la necessità di
dare corso alla ricerca per il miglioramento delle prospettive della qualità
della vita, con il rischio evidente dell’utilizzo strumentale della vita stessa
del paziente.
6
CAPITOLO I
L’EUTANASIA. DIRITTI E SCELTE
1. La casistica
L’eutanasia nella sua complessa problematicità pone innanzitutto
interrogativi di natura etica, che precedono o, in qualche caso, seguono le
scelte che vengono compiute sia per quanto riguarda gli aspetti legislativi,
sia nel caso di pronunce giudiziarie dinanzi a casi concreti. Ragionare,
quindi, su quanto si è deciso o su quanto si dovrà decidere è proprio il
compito della filosofia. Un contributo imprescindibile, quest’ultimo,
quando si vanno ad affrontare i temi legati al “diritto” o meno di morire,
alla volontà cosciente e non del paziente, al criterio di “bene” che può
derivare dalla scelta effettuata.
Presenteremo di seguito un’analisi che prende spunto da diversi casi
che si sono verificati negli anni, riconducibili tutti al discorso
dell’eutanasia. Come si potrà notare, tra l’altro, le stesse sentenze dei
tribunali risultano spesso contrastanti tra di loro, segno questo che il
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ragionamento che giustifica una data decisione risulta fondamentale per
capire le conseguenze stesse della pronuncia emessa.
Partiamo dalla triste vicenda di Eluana Englaro, una giovane donna,
oggi trentenne, che dal 1992 si trova in stato vegetativo permanente in
seguito ad un incidente stradale. Tale condizione è stata definita di stato
vegetativo permanente dal momento che la paziente si trova
nell’impossibilità di vivere una qualunque esperienza cognitiva ed emotiva.
Dopo la pronuncia di interdizione per la giovane donna è seguita la nomina
in suo favore di un tutore, che nel caso specifico è stato individuato nella
persona del padre. Compiti del tutore, in pratica, sono la cura della paziente
e l’ assistenza rispetto a certi atti giuridici. Ne è derivata, pertanto, da parte
del padre di Eluana, la richiesta di essere autorizzato a manifestare la
volontà contraria alla prosecuzione dei trattamenti sanitari a carico della
figlia, costituiti sostanzialmente solo dall’alimentazione e dall’idratazione
artificiale. Tali trattamenti, in effetti, risultano assolutamente inidonei a
curare o migliorare la condizione patologica di Eluana.
Il padre della ragazza, quindi, non avendo ricevuto alcuna speranza
di guarigione o miglioramento, riteneva tale terapia medica un sostanziale
accanimento terapeutico a carico della giovane donna. Il Tribunale di
8
Lecco, interpellato della questione, ha negato tale autorizzazione e ha
negato che il tutore potesse esprimersi a riguardo
1
.
Una pronuncia emessa in questi termini ci spinge a credere che i
giudici del Tribunale di Lecco non hanno ritenuto l’alimentazione e
l’idratazione artificiale delle forme di accanimento terapeutico, quanto
piuttosto delle forme di assistenza verso la paziente. Ovvero, in tal caso, il
cosiddetto stato vegetativo permanente, consistente nell’impossibilità di
vivere qualunque esperienza cognitiva e emotiva, non è stato ritenuto
motivo sufficiente per porre fine ad un trattamento di sostegno vitale la cui
interruzione determinerebbe la morte immediata della paziente.
In realtà, gli stessi filosofi del diritto si sono spesso interrogati
proprio sul concetto di stato vegetativo permanente, che non può avere di
certo un’accezione univoca. E’ pur vero che nel caso di Eluana,
diversamente da altri casi, l’incidente ha sottratto alla giovane qualunque
capacità intellettiva e, dunque, l’impossibilità di manifestare qualsiasi tipo
di volontà.
Eppure, come si racconta nel testo a cura di Luigi Manconi
2
, a
proposito di Eluana era possibile valutare un certo grado di consenso da
1
“Dignità del morire”, Luigi Manconi e Roberta Dameno, Guerini, Milano, 2003, pp. 115 - 117
2
Ibidem, p. 117 - 118
9
parte della ragazza, dal momento che in passato ella era stata trovata a
riflettere e a pronunciarsi su questi temi in occasione di un incidente
accaduto ad un amico in conseguenza del quale lo stesso si trovava in stato
vegetativo: in quell’occasione Eluana aveva affermato che mai avrebbe
voluto essere lasciata in una condizione che definiva poco dignitosa. Tale
elemento potrebbe costituire una giusta motivazione per l’interruzione dei
trattamenti per quanti ritengono necessario che un consenso o una
manifestazione di volontà comunque c’è stata, presente o passata che sia.
Diversamente, però, altri pensatori fanno riferimento al rischio di una
mutazione della volontà del paziente, che dovrebbe essere al massimo
contestuale rispetto alla situazione in corso.
Ed ancora la decisione del Tribunale di Lecco ci porta, quindi, ad
interrogarci in merito al ruolo dei familiari e in questo caso specifico, del
tutore, il quale, stando alle disposizioni del codice civile, deve avere cura
della persona dell’incapace. Il Tribunale, dunque, non ha ritenuto di poter
inserire l’interruzione del trattamento nel concetto di cura. Anche a tal
proposito, in realtà, ci si potrebbe chiedere cosa significhi cura, se essa
debba intendersi unicamente cura in senso positivo, quindi esplicazione di
talune attività a favore dell’assistito, oppure se debba essere anche
compresa l’attività cosiddetta negativa, quindi l’interruzione dei
10
trattamenti. Evidentemente il Tribunale di Lecco ha optato per la prima
soluzione.
Ma ancora la vicenda di Eluana Englaro ci mette dinanzi ad altri
terribili dilemmi. Il padre della ragazza, infatti, a seguito della prima
pronuncia, procede all’impugnazione del provvedimento, proponendo
reclamo alla Corte d’Appello di Milano. In appello i giudici stabiliscono
che il tutore ha il diritto di manifestare il consenso informato per
l’incapace, nell’esercizio del suo potere/dovere di cura della persona, anche
in assenza di precedenti manifestazioni di volontà specifica espresse dalla
paziente quando era in stato di piena capacità. Ma, nello stesso tempo, la
Corte d’Appello non ha autorizzato il tutore al rifiuto dei trattamenti per
conto dell’incapace. In quest’ultimo caso, la Corte ha giustificato la
decisione partendo dal presupposto della non sussistenza di una posizione
univoca, in ambito medico, in ordine alla qualificazione dell’alimentazione
e dell’idratazione artificiale, ovvero se essi vanno considerati come atto
terapeutico o come atto di sostentamento e, in quanto tale, sempre dovuto
ed essendo questi trattamenti, peraltro, gli unici praticabili sulla giovane
donna
3
.
3
Ibidem, p. 118
11
Tale pronuncia, inoltre, prende spunto dalla posizione espressa da
una parte della scuola neurologica italiana che, ritenendo i pazienti
vegetativi soggetti morti, aveva affermato che l’alimentazione artificiale
non fosse un atto terapeutico, proprio in quanto praticato a soggetti che non
essendo vivi non potevano essere curati.
Innanzitutto, la decisione della Corte d’Appello lascia chiaramente
intendere che la posizione di cui tenere conto è quella espressa dai medici,
che sono gli unici a poter stabilire dove finisce la vita e inizia la morte. Ma
soprattutto, ci si potrebbe chiedere fino a che punto sia giusto
somministrare cure ai malati terminali e se questo vuol dire semplicemente
mantenerli in vita, oppure preoccuparsi più a fondo della loro cura che,
potrebbe, ad esempio, anche non ridursi a mera alimentazione ed
idratazione. Nel concetto di cura, tra l’altro, come si tende oggi a notare
con sempre maggiore frequenza, possono essere compresi anche la qualità
del luogo in cui si trova il paziente, l’affetto dei familiari, la qualità
dell’assistenza di medici ed infermieri. Insomma quando si parla di cura ci
si potrebbe rifare a quella concezione espressa con insistenza dagli
esponenti più vicini alle concezioni religiose-cattoliche (dei riferimenti, tra
l’altro, si trovano anche nelle dottrine più vicine a concezioni di natura
laica), che parlano di accompagnamento del morente.
12
Ed inoltre quella posizione della scuola neurologica italiana, cui
peraltro la pronuncia della Corte milanese si ispira, sembrerebbe
propendere per una netta delimitazione del concetto di morte, includendovi
senza ombra di dubbio i pazienti definiti in stato vegetativo permanente
(come tale stato è inteso per la vicenda di Eluana Englaro), per i quali
addirittura, secondo questa parte della medicina, non si potrebbe parlare di
cura, in quanto non c’è nulla da curare e trattandosi di situazioni di assoluta
irreversibilità. In tal caso, per giunta, ci verrebbe da chiederci se sia giusto
o meno intervenire anche con il mero sostentamento e, comunque, a chi
spetti una decisione di questo tipo.
Altri interrogativi vengono da una storia riportata nelle cronache dei
giornali nell’ottobre 2003. Si tratta del caso di una donna di 54 anni di
Monza, affetta da sclerosi laterale amiotrofica. Un dramma, questo, che si
consuma tra la donna e sua figlia, all’indomani della scoperta
dell’impossibilità di guarire la malattia, vista anche l’inefficacia della cura
con le cellule staminali. La donna, a seguito della malattia, non era più in
grado di muoversi, di parlare, immobilizzata a letto, perché tale malattia
colpisce i muscoli sino a depotenziarli man mano, ad eccezione degli occhi
e la morte quasi sempre arriva nel giro di due anni per soffocamento.
13
L’eutanasia sulla donna fu effettuata presso una clinica svizzera, con
la collaborazione della figlia Paola
4
. La paziente, in realtà, aveva qualche
tempo prima manifestato chiara intenzione di morire alla figlia, asserendo:
«Paola, voglio morire, uccidimi». Tale dichiarazione potrebbe essere un
elemento di indubbio consenso secondo quanti ritengono che il consenso
espresso e consapevole del paziente sia fondamentale se si vuole ammettere
la liceità dell’eutanasia. Ma anche in tal caso, ci si potrebbe chiedere fino a
che punto sia sufficiente il consenso, ed ancora, una volta manifestata la
volontà da parte del paziente, a chi spetta successivamente praticare
l’eutanasia e che ruolo hanno i familiari che sono vicini.
In realtà, come viene sottolineato nello stesso articolo di giornale
tratto da “La Repubblica”, la figlia della donna malata sembrava assolvere
a tutti i doveri di assistenza nei confronti della madre. Paola ha, infatti,
affermato: «Cercavo di fare tutto quanto possibile, trascorrevo con lei ore
ed ore, non le imponevo mai niente, ma cercavo spesso di convincerla a
curarsi e di coinvolgerla nella mia vita». Dichiarazioni, insomma, che
lasciano intendere innanzitutto affetto tra le due donne e poi la grande
dedizione della figlia nei confronti della madre.
4
Vedi quotidiano “La Repubblica”, giovedì 2 ottobre 2003
14
Sembrerebbe, pertanto, che il gesto compiuto dalla figlia non sia
altro che una espressione di affetto considerate le gravi sofferenze della
donna e la sua volontà di farla finita. D’altro canto, però, come emerge
dallo stesso articolo di giornale, la decisione della donna di morire era
dettata anche dal suo profondo stato di solitudine. Si racconta, infatti, che la
signora si sentiva abbandonata dalle persone vicine, anche dalle amiche più
care; stato, quest’ultimo, che la portava ad evitare di parlare ed uscire,
trovando soltanto nella figlia conforto e dialogo.
Ci si potrebbe chiedere, pertanto, quanto incidono le condizioni
sociali e contestuali in cui si trovano i pazienti rispetto a certe scelte
estreme. Pur ricevendo, quindi, in questa vicenda specifica, la paziente
assistenza da parte della figlia, il senso di solitudine finisce per prevalere.
Prendendo in esame tale aspetto, si potrebbe concludere affermando che
quel consenso, pur in apparenza libero, era in qualche modo stato forzato
anche dalle condizioni umane e sociali della donna. Intanto, per ora, sarà
compito dei magistrati stabilire se la figlia della signora debba o non essere
condannata per agevolazione al suicidio.
Nel settembre 2003, in Francia, la signora Marie Humbert tenta di
uccidere il figlio tetraplegico con un’iniezione di barbiturici nelle vene.
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Il fatto accade nel centro elioterapico di Berck- sur – mer, nel nord
della Francia, ma l’iniezione di barbiturici non riesce a provocare la morte
di Vincent, il figlio della signora. In realtà il ragazzo ventiduenne,
pompiere, a seguito di un incidente stradale era diventato tetraplegico,
cieco, muto, in grado di comunicare solo con la pressione del pollice,
sebbene egli avesse recuperato interamente l’intelligenza. Ed era proprio
grazie alle sopravvissute capacità intellettive che Vincent aveva
manifestato espressamente il desiderio di morire, di non voler più vivere in
quello stato. Egli, inoltre, è autore di un libro-testamento in cui asseriva di
essere morto la sera stessa dell’incidente e di lasciare questa vita in un
giorno prescelto insieme con la madre
5
.
I medici, come riportato dal “Corriere della Sera” si erano espressi
così: «Vincent ha l’attesa di vita di un ragazzo di vent’anni», dinanzi ad
una malattia che può portare la morte immediata oppure la sofferenza
giorno per giorno, senza nessun peggioramento o miglioramento specifico.
La vicenda qui narrata parte, dunque, dalla constatazione di una
diagnosi medica in cui non troviamo concetti quali irreversibilità, stato
vegetativo permanente, assoluta impossibilità di guarigione.
5
Vedi quotidiano “Corriere della Sera”, venerdì 26 settembre 2003