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INTRODUZIONE
Le trasformazioni che caratterizzarono le società dei paesi avanzati, dal
dopoguerra agli anni ‘70, furono molto profonde. Alcuni, come l’Italia,
divennero vere e proprie nazioni industriali, riuscendo in pochi anni a colmare
il divario che da sempre li divideva da quelli più sviluppati. Con il boom degli
anni ‘60, il nostro paese riuscì ad emergere, per la prima volta nel novecento,
come protagonista sia in Europa che nel mondo. La fase di crescita per i paesi
occidentali, la così detta età dell’oro, terminò verso la metà degli anni ‘70, a
causa dell’incremento delle richieste sindacali, dell’aumento dei prezzi
internazionali dei manufatti e delle difficoltà, generalizzate, del modello di
accumulazione che aveva generato il boom economico. Gli anni ‘70 furono
caratterizzati dalla crisi del sistema monetario internazionale, con l’abbandono
delle regolamentazioni di Bretton Woods a favore di cambi flessibili, e dalla
crisi petrolifera del 1973 che determinò una recessione mondiale senza
precedenti, che fu risolta con difficili aggiustamenti e trasformazioni
economiche ed un ripensamento di quelle che erano state le politiche
energetiche prevalenti, al fine di limitare l’uso del petrolio.
In Italia, lo sviluppo economico, fu trainato da alcune caratteristiche
particolari che assunse la nostra economia alla fine del conflitto bellico.
L’apertura dei mercati e la partecipazione alle nuove istituzioni internazionali
che stavano nascendo sia in Europa che nel mondo, come il GATT, la Banca
Mondiale, il FMI e la CECA furono un primo passo decisivo. Questo perché il
nostro paese era caratterizzato, da sempre, da una cronica assenza di
concorrenza, soprattutto in alcuni settori strategici, che riduceva fortemente le
possibilità di sviluppo. La grande industria, soprattutto nel periodo fascista,
aveva occupato i mercati più profittevoli, realizzando oligopoli e monopoli
che assicuravano elevati profitti. L’apertura dei mercati e le enormi possibilità
che si aprirono nel dopoguerra, consentirono all’imprenditorialità e al genio di
alcuni italiani di essere definitivamente liberati.
L’altra caratteristica dell’economia italiana era la presenza dello Stato,
attraverso le Partecipazioni Statali. Esse, nel dopoguerra, non vennero
smantellate ed anzi furono protagoniste dello sviluppo economico, grazie al
loro duplice e contemporaneo ruolo di supplenza al capitale privato e di
stimolo nei suoi confronti. L’IRI, e dal 1953 l’ENI di Mattei, fornirono infatti
all’industria italiana quei necessari prodotti di base a basso costo, nei settori in
cui avevano operato, inefficientemente, le grandi imprese private protagoniste
dell’autarchia fascista.
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Importanti opportunità furono colte dall’Italia in questo periodo, sfruttando la
personalità, il talento e le abilità manageriali dei dirigenti delle imprese
pubbliche, che ben interpretarono i loro compiti di sostegno allo sviluppo
industriale del nostro paese, grazie ad una certa dose d’indipendenza dalla
politica. Inoltre, uno stuolo di piccoli imprenditori, sfruttando le opportunità
aperte dalla nuova evoluzione dei mercati, realizzarono importanti successi,
trasformando le proprie attività familiari in imprese di medie-grandi
dimensioni, leader mondiali in molte produzioni.
Il settore energetico fu uno di quelli maggiormente interessato da questo
processo di crescita, ed è per questo che ho ritenuto utile approfondire la sua
evoluzione, che ovviamente si legò alle vicende economiche e politiche del
nostro paese ed a quelle internazionali.
Lo sviluppo e l’ammodernamento della produzione elettrica, la nascita delle
prime centrali nucleari grazie all’azione di Ippolito, l’avventura petrolifera
internazionale di Mattei nell’ENI ed altre occasioni importanti furono
efficacemente sfruttate negli anni ’50, consentendo al settore energetico
italiano di poter dare al nostro paese quelle risorse, a basso prezzo e in
continuo aumento, necessarie per completare e per realizzare
l’industrializzazione, nonostante la cronica assenza di materie prime nel nostro
territorio.
La politica, che era stata ai margini delle discussioni sul tema dell’energia,
delegando, ai soggetti preposti, l’onere delle scelte da prendere, come con
Mattei per il petrolio e Ippolito per il nucleare, decise, finalmente, di
intervenire, attraverso la nazionalizzazione del settore elettrico, realizzata nel
1962 con la nascita dell’ENEL. Questa scelta, già compiuta da Francia e Gran
Bretagna ben 15 anni prima, fu presa per superare quelle distorsioni e quei
limiti causati dall’oligopolio che si era venuto a creare in ambito elettrico.
Anche in questo settore si volevano replicare i successi dell’ENI e dell’IRI.
Il 1962 e il 1963 furono anni cruciali per l’evolversi del settore energetico
italiano e segnarono un punto di discontinuità forte, rispetto al passato. Nel
1962, infatti, Enrico Mattei morì in un incidente aereo, che successivamente si
scoprì causato da un attentato: la sua attività incredibile al servizio del paese e
contro il cartello petrolifero internazionale e i suoi metodi, tutt’altro che
convenzionali, gli erano stati fatali. I suoi successori non riuscirono ad
eguagliarne lo spirito combattivo e i successi. Pochi mesi dopo anche Ippolito,
colui che era battuto più di tutti per bilanciare, con il nucleare, la monocultura
petrolifera, venne allontanato dal suo cruciale ruolo di direttore del CNEN, a
causa della condanna in un processo, più politico che mosso da reali
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implicazioni e reati giuridici, come risulta palese analizzando oggettivamente
l’intera vicenda. La destabilizzazione del sistema energetico italiano si
concluse, come detto, con la nascita dell’ENEL, che invece avrebbe dovuto
portare una ventata di coerente programmazione, condivisione delle scelte e
stabilità, caratteristiche fondamentali per un settore così dinamico e complesso
come questo. Comincerà infatti per l’Italia una fase negativa del proprio
sviluppo, causata proprio da quelli elementi che lo avevano, in precedenza,
favorito: le Partecipazioni Statali, infatti, ben presto degenerarono, schiacciate
sempre più dalla logica dei partiti che nel contesto di una grave crisi
economica, a poco a poco le occuparono, facendo prevalere i loro interessi
particolaristi alle logiche aziendali.
L’allontanamento dei soggetti che erano stati protagonisti dell’evoluzione del
sistema energetico, cercando di differenziare le fonti di approvvigionamento e
i fornitori stranieri, in modo da limitare l’inevitabile dipendenza dall’estero del
nostro paese, fu un colpo durissimo. I primi dirigenti dell’ENEL e i successori
di Ippolito e Mattei, optarono, come tutti i politici del tempo, per la scelta
petrolifera: in poco tempo questa fonte divenne dominante nell’offerta
energetica, grazie alle sue caratteristiche qualitative e al suo basso prezzo; le
prospettive di sviluppo del nucleare vennero, infine, fortemente
ridimensionate.
Il mercato petrolifero internazionale, però, stava attraversando una fase
evolutiva molto importante e cruciale. Le compagnie petrolifere, che lo
avevano dominato fino a quel momento, dovettero cedere alle richieste,
sempre più pressanti, dei paesi produttori che volevano ampliare il proprio
potere decisionale nella determinazione dei prezzi, dell’offerta e, quindi, dei
profitti.
Quando, nel 1973, a seguito delle vicende internazionali legate alla guerra
dello Yom Kippur, i paesi arabi, che ormai avevano la forza per decidere
unilateralmente il prezzo del petrolio, attuarono un embargo ai paesi
occidentali, generando un’esplosione del prezzo che quadruplicò nel giro di
pochi giorni, tutta la debolezza politica ed energetica dei paesi occidentali, in
particolare di Europa e Giappone, divenne palese.
All’indomani della crisi, però, tutti i paesi dovettero affrontare dolorosi e
difficili aggiustamenti delle proprie economie e delle proprie politiche
energetiche, intesi a limitare l’uso del petrolio, diventato ormai un’arma di
ricatto internazionale, a favore dello sviluppo del nucleare e di altre fonti
alternative. La vicenda energetica italiana, appare per certi versi paradossale,
in quanto le decisione e le scelte programmatiche realizzate all’indomani della
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crisi, non furono mai attuate a causa dell’inefficienza della pubblica
amministrazione e della politica, del peso della lobby petrolifera e per la
cronica lentezza della burocrazia, incapace di intervenire prontamente in un
settore così dinamico e complesso come quello energetico.
In questi stessi anni, intanto, l’accumulazione capitalistica che aveva generato
il boom economico, quella tipicamente fordista-keynesiana, cominciò a non
essere più all’altezza per affrontare la nuova situazione internazionale. La fine
degli accordi di Bretton Woods, la crescita dei prezzi del petrolio e il balzo dei
salari nei paesi occidentali, furono elementi che non poterono essere affrontati
con quel tipo di regolamentazione, troppo rigida ed inadeguata, sia a livello
d’impresa che a livello di politica economica. La politica keynesiana,
soprattutto, non fu in grado di comprendere ed affrontare con adeguati
interventi il minaccioso problema dell’inflazione, dimostrando, come già a suo
tempo aveva fatto la vecchia e criticata ortodossia neoclassica, di essere
incapace di interpretare i fenomeni economici del suo tempo.
I drastici aggiustamenti e le trasformazioni che tutti i paesi dovettero
affrontare, portarono a scelte e risultati ben diversi. Alcuni, come Giappone e
Germania, attuarono politiche restrittive forti, che prevedevano tagli salariali,
aumento della disoccupazione, almeno inizialmente, rivalutazione della
propria moneta e lotta all’inflazione. Nonostante le iniziali difficoltà questi
paesi uscirono rafforzati dalla crisi, in quanto furono capaci di modificare la
propria struttura produttiva per tenere conto della nuova situazione dei
mercati, focalizzando la propria attività in quei settori a basso contenuto
energetico e ad alta tecnologia e innovazione, che saranno alla base della
competizione internazionale del futuro.
L’Italia che, data la sua maggiore dipendenza dal petrolio più di altri dovette
subire i contraccolpi dello shock, al contrario, rinviò al futuro i necessari
aggiustamenti della propria economia. Inflazione, disoccupazione ed
esplosione del debito pubblico furono le conseguenze di una politica che puntò
tutto sulla svalutazione monetaria, allo scopo di mantenere la competitività
internazionale della propria industria, sempre più in crisi nel contesto globale.
Per analizzare la dinamica di questi eventi, ho suddiviso il mio lavoro in tre
parti. Nella prima mi sono concentrato sull’evoluzione del settore energetico,
sulla vicenda del nucleare nel nostro paese e in Europa, e sull’azione di
Mattei, anche alla luce del contesto internazionale del mercato petrolifero. Il
periodo che ho preso in esame è quello che va dal dopoguerra a metà degli
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anni ’60, quando alcuni eventi straordinari, determinarono la rottura del
quadro che si era formato precedentemente.
La seconda parte è stata incentrata sull’evoluzione del mercato petrolifero
internazionale e italiano dopo gli anni ‘60, considerando in particolare il ruolo
fondamentale degli Stati Uniti, e sulle vicende che determinarono la crisi del
1973. Successivamente ho analizzato le trasformazione e i cambiamenti delle
politiche energetiche che vennero attuate all’indomani dello shock, per tenere
conto della nuova dinamica dei prezzi del petrolio. Mi sono concentrato sia
sulla vicenda italiana, tentando di sottolineare le ragioni e i motivi che
portarono al fallimento delle scelte programmate, sia sugli altri paesi avanzati,
mostrando quanto da loro realizzato, anche rispetto alla diversa situazione
iniziale.
Nella terza parte, infine, ho analizzato i difficili aggiustamenti economici che
tutti i paesi dovettero affrontare all’indomani della crisi petrolifera. Ho inoltre
descritto le trasformazioni che caratterizzarono le imprese durante questo
periodo. Per concludere ho cercato di sintetizzare la vicenda italiana,
analizzando le circostanze che portarono al boom economico e quelle che
generarono i mancati aggiustamenti degli anni ’70 e la crisi del modello
italiano.
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1. UNA RINASCITA PIENA DI
OPPORTUNITA’ DI ESPANSIONE
L’Italia, dopo i difficili anni della ricostruzione dalle macerie causate dalla
Seconda guerra Mondiale, riuscì, in poco tempo, a risollevarsi e a realizzare
quell’incredibile crescita economica che la fece diventare una nazione
protagonista in Europa e nel Mondo. Fu capace, in questi anni, di cogliere
quelle opportunità di espansione e di sviluppo che in passato, e purtroppo
anche in futuro, non era riuscita a raggiungere.
Vari elementi concorsero a determinare il boom economico, che durò fino a
circa la metà degli anni ’60, consentendo al nostro paese di raggiungere livelli
di reddito, ricchezza, qualità della vita ecc. simili a quelli dei paesi più
avanzati. Da un punto di vista economico, la spinta decisiva per la
trasformazione del paese, da prevalentemente agricolo ad industriale, derivò
sia dall’apertura dei commerci esteri, che consentì di eliminare quelle
strozzature alla concorrenza che avevano caratterizzato il periodo fascista,
aprendo nuove possibilità di profitto per la fervida imprenditoria italiana, sia
dalla ridefinizione del ruolo dello Stato in economia. Le Partecipazioni Statali,
un retaggio del periodo precedente, non vennero smantellate sia per
l’indisponibilità di capitale privato sufficiente a rilevarle, sia perché si affermò
l’idea che esse potessero offrire, come successe realmente, un importante
contributo allo sviluppo industriale in due direzioni: supplivano all’assenza di
capitali privati e, al contempo, fungevano da stimolo nei suoi confronti.
Il settore energetico italiano si trovò al centro di queste trasformazioni
profonde. L’industria elettrica privata, nata all’inizi del secolo, si sviluppò
tantissimo nel periodo fascista, sfruttando l’unica fonte presente
abbondantemente nel nostro paese, l’idroelettrico, e la particolare
composizione oligopolistica del mercato, dominato da poche società, tra le
quali era presente anche l’IRI. Grazie agli aiuti americani del Piano Marshall,
queste società cominciarono a diversificare le proprie fonti di produzione
attraverso la costruzione di numerose e innovative centrali termoelettriche,
alimentate a petrolio e carbone, che consentirono di ampliare la produzione
per renderla adeguata all’esplosione della domanda energetica, causata dal
boom economico. Il dibattito sulla nazionalizzazione di un settore strategico
come quello energetico, iniziato alla fine del conflitto bellico, si trascinò, con
alterne vicende, fino al 1962, anno della nascita dell’ENEL, un nuovo ente
12
pubblico che avrebbe dovuto superare, nelle intenzioni, quei limiti e quelle
distorsioni causate dal monopolio delle società private.
Parallelamente alla crescita dell’industria elettrica si diffuse, anche nel nostro
paese, il rivoluzionario settore nucleare. Nonostante i ritardi iniziali e i
paradossi che caratterizzarono l’avventura nucleare nel nostro paese, in poco
meno di cinque anni l’Italia costruì ben 3 centrali, diventando il terzo paese al
mondo per produzione nucleare. Un risultato incredibile considerando la
complessa situazione che dovette affrontare il nucleare nel nostro paese. Era
privo di una legislazione adeguata e di una politica che assecondasse il suo
sviluppo e si trovò al centro del dibatto e dello scontro tra industria elettrica
privata, interessata ovviamente a questo settore così stimolante, l’ENI di
Mattei, che voleva ampliare le proprie competenze e attività, e il CNEN,
ovvero il Comitato nazionale energia nucleare, l’ente pubblico, guidato da
Ippolito, preposto alla ricerca e agli sviluppi nel settore nucleare. Questo
scontro, reso ancora più aspro dal dibattito sulla nazionalizzazione elettrica, e
la concorrenza tra le diverse fazioni in campo, consentì comunque di realizzare
le prime centrali nucleari, aprendo la strada per lo sviluppo, nel nostro paese,
di un settore tecnologicamente avanzato e innovativo, che avrebbe non solo
ridotto la cronica dipendenza energetica dall’estero, ma anche dato un forte
impulso all’industria nazionale. Con l’uscita di scena di Ippolito, ovvero di
colui che più si era battuto non solo a favore del nucleare, ma anche per
evitare la monocultura petrolifera, le speranze e le opportunità aperte dal
nuovo settore furono stroncate.
Intanto nel settore petrolifero, un nuovo ente statale, l’ENI, e il suo primo e
più importante presidente, Mattei, cominciarono a muovere i primi passi nel
mercato internazionale, chiuso e dominato da un cartello di grandi compagnie,
quasi tutte americane, le famigerate 7 sorelle. La compagnia italiana, priva di
importanti risorse nel proprio territorio, riuscì, grazie all’opera straordinaria di
Mattei, a rompere questo predominio ed inserirsi nel ricco mercato petrolifero
internazionale, stringendo accordi, realmente rivoluzionari, direttamente con i
paesi produttori, anche con la nemica URSS. La sua politica aggressiva e
l’influenza nei confronti della classe dirigente italiana, consentì a Mattei di
realizzare obbiettivi e traguardi impensabili. Il suo scopo ultimo era quello di
dotare il nostro paese di quelle risorse energetiche, a basso costo, necessarie
per lo sviluppo industriale: l’indipendenza energetica e la differenziazione
delle fonti di approvvigionamento erano quindi elementi fondamentali della
sua strategia. La sua morte, nel 1962, pose fine a questa politica, che non
venne perseguita dai suoi successori con la stessa combattività, anche se l’ENI
divenne, comunque, una delle società più importati nel mondo. Mattei entrerà
13
nella storia del nostro paese come una delle figure più autorevoli e
fondamentali per lo sviluppo economico di quegli anni.
14
1.1 GLI SVILUPPI DELL’INDUSTRIA
ELETTRICA
LA NAZIONALIZZAZIONE FERROVIARIA E IL SORGERE
DELL’INDUSTRIA ELETTRICA
L’industria elettrica italiana nacque all’inizio del ‘900 dalla nazionalizzazione
delle ferrovie, le società ferroviarie private ricevettero infatti un cospicuo
indennizzo dallo stato italiano e lo investirono nel nuovo settore dell’energia
elettrica, che muoveva allora i primi passi. Vanno evidenziati principalmente
due aspetti del settore elettrico che furono alla base delle successive pretese e
dell’influenza che queste aziende private ebbero soprattutto nel dopoguerra:
gli enormi utili che furono in grado di realizzare in occasioni di massicce
ondate inflazionistiche, generate soprattutto durante le guerre mondiali, che
riuscirono a coprire i forti debiti contratti per la costruzione di impianti e dighe
di grandi dimensioni; la così detta garanzia di cambio, che fu data dal
governo fascista agli elettrici, secondo la quale lo Stato si addossava il
maggior onore dei debitori italiani verso l’estero, derivante dallo slittamento
del cambio della lira rispetto al dollaro e alla sterlina
1
.
Durante il periodo fascista, addirittura prima della grande ondata statalista del
regime, si era già parlato ampliamente dell’idea di nazionalizzare il settore
elettrico. I motivi erano legati in primis all’enorme crescita realizzata nel
decennio 1921-1931, con una potenza istallata che passò da 1.840.000 kW a
5.180.000 kW, grazie anche a capitali americani ed a ingenti contributi statali,
ma anche e soprattutto perché l’influenza economica e politica dei gruppi
elettrici sembrava non avere limiti, già a quel tempo, ed era vista con
preoccupazione. Emblematica, a questo riguardo, fu la gestione delle tariffe
elettriche all’indomani della rivalutazione monetaria, la famosa quota 90: i
prezzi dell’energia elettrica furono gli unici a non subire ritocchi verso il
basso. Tuttavia la presa di posizione di alcuni esponenti industriali di primo
piano, come Giovanni Agnelli, e anche di alcuni gerarchi fascisti a favore
della nazionalizzazione, non mutò il quadro fortemente influenzato dai
rapporti già instaurati tra settore elettrico, alta finanza e politica
2
.
1
Felice Ippolito e Folco Simen, La questione energetica. Dieci anni perduti (1963-
1973), Feltrinelli Editore, Milano, 1974, p. 12.
2
Storia industria elettrica in Italia vol.5, serie diretta da Valerio Castronovo,
Giuseppe Galasso, Giorgio Mori, Giovanni Zanetti, Editori Laterza, 1994, pp.154-
155.
15
In pratica durante il ventennio, le imprese elettriche, sfruttando i legami con il
regime e l’economia corporativistica portata avanti da Mussolini, riuscirono ad
espandersi moltissimo e a realizzare un vero e proprio oligopolio.
A metà degli anni ’20 si erano infatti formati in Italia quattro importanti
gruppi elettrici (Edison, Sip, Sade e Sme) che dominarono fin da subito
l’industria del settore, controllando in maniera determinante anche tutte le
industrie minori e quelle locali. La struttura oligopolistica, che si formò a quel
tempo, rimase sostanzialmente la stessa ed anzi i legami esistenti tra queste
imprese si rafforzarono col passare degli anni. La conferma si ebbe anche
all’indomani della nascita dell’IRI
3
, cioè di una forma nuova e rilevante di
proprietà pubblica, che in pratica rafforzò tale processo: lo stretto rapporto tra
logica industriale di settore, finanza, banche e politica subì un’accelerazione
proprio attraverso l’estensione della mano pubblica; questo perché l’IRI in
pratica si sostituì alle grandi banche e agli investitori stranieri, attraverso il
controllo della Sip
4
e di altre industrie strategiche, ponendo le basi per
l’espansione del settore elettrico, allora già in forte sviluppo.
Le ragioni della sempre maggiore attenzione verso questo settore, sia dell’alta
finanza, sia dello Stato, non furono poche. Innanzitutto andavano considerati
gli enormi profitti che queste imprese stavano realizzando, anche grazie alla
struttura oligopolistica che aveva assunto il settore, in anni caratterizzati dalla
crisi del 1929 e dalla recessione. In campo tecnologico inoltre l’energia
rappresentava, già allora, un elemento trainante per la crescita industriale e
decisivo per la competitività internazionale, soprattutto in un’ ottica militare:
3
L’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) fu un ente pubblico italiano, istituito
nel 1933 per iniziativa di Alberto Beneduce, con il consenso di Benito Mussolini, al
fine di evitare il fallimento delle principali banche italiane (Commerciale, Credito
Italiano e Banco di Roma) e con esse il crollo dell’economia, già provata dalla crisi
economica mondiale iniziata nel 1929. Dal 1937 in poi si trasformò da un ente
finanziario di smobilizzo, ad un “efficiente strumento per la gestione delle
partecipazioni industriali allo scopo di indirizzarne l’azione ai fini autarchici”.
Soprattutto nel dopoguerra aumentò la sua sfera d’azione diventando una vera e
propria holding di stato in vari settori, soprattutto industriale, elettrico e siderurgico;
fu uno dei motori dello sviluppo economico italiano e per molti anni fu la più grande
società italiana per fatturato, settima nel mondo nel 1992, prima della sua
trasformazione in società per azioni.
M.Pini, I giorni dell'IRI, Mondadori, 2004.
4
Uno dei primi affari realizzati dal nuovo ente pubblico, l’IRI, fu proprio il mancato
smobilizzo della Sip e l’acquisto della società,che tra l’altro deteneva il controllo
anche delle maggiori aziende telefoniche e radiofoniche. Questo venne realizzato
grazie all’azione del presidente dell’Iri, Beneduce, che assunse il ruolo di garante ed
arbitro del sistema industriale e finanziario italiano: la sua azione fu volta
essenzialmente a non turbare gli equilibri stabiliti tra i grandi produttori elettrici.
16
la presenza delle stato diventava quindi necessaria
5
. Va detto però che il
contesto politico in cui dovette muoversi la ricerca scientifica e tecnologica
italiana, fu ovviamente caratterizzato negativamente dall’intento del regime di
controllare la vita e gli istituti culturali e questo certamente non rappresentò
un vantaggio
6
.
In Italia quindi lo sviluppo delle industrie elettriche, a cavallo tra i due conflitti
mondiali, sia tecnico che dimensionale, si realizzò all’interno di un mercato
oligopolizzato, nonostante la massiccia presenza dello Stato che anzi rafforzò
questa dinamica: in pratica l’Iri si comportò più come una società privata che
pubblica; la politica dei controlli e delle partecipazioni incrociate continuarono
ad essere perseguite. Mentre l’orientamento di molti paesi alla fine degli anni
’30 fu quello di una gestione sempre più nazionale e pubblica del settore
elettrico, soprattutto perché veniva considerato, a ragione, il volano della
crescita economica, in Italia si osservò una certa sfasatura temporale
nell’orientamento verso questa scelta, nonostante la presenza dell’IRI. I motivi
di ciò andavano ricercati sia nella complessa dinamica degli intrecci tra società
elettriche, finanza e politica del tempo, sia nell’enorme potere di cartello
ottenuto dalle stesse, che la politica corporativistica portata avanti dal
fascismo, di certo non mitigò.
Per le caratteristiche peculiari del territorio italiano, soprattutto quello alpino,
le varie società indirizzarono la loro attività verso un settore particolare, quello
dell’energia idroelettrica che prese ben presto il sopravvento, tanto che nel
1940 su un totale di 22,5 miliardi di kWh prodotti, ben 18,5 erano di
produzione idroelettrica. Nel 1962, al momento della nazionalizzazione
dell’elettricità, su un totale di 65 miliardi di kWh prodotti, ben 50 erano
idroelettrici (70%)
7
.
Lo sviluppo l’idroelettrico consentì a industrie, tecnici e impianti italiani di
assumere una indiscussa posizione di prestigio a livello internazionale, non a
caso per opere di questo tipo,anche successivamente, si ricorreva a progettisti
e costruttori italiani. La costruzione di impianti e dighe per le centrali
idroelettriche aveva anche il vantaggio di utilizzare una grande quantità di
manodopera e tecnici specializzati; in una fase economica recessiva come
quella degli anni ’30 questo rappresentava certo un vantaggio che aumentava
l’influenza e il potere delle imprese elettriche.
5
Si pensi alla storica iniziativa di Roosevelt della Tennessee Valley Authority.
6
Storia dell’industria elettrica in Italia vol. 3**, op. cit., pp. 1047-1062.
7
Non a caso a quel tempo l’idroelettrico veniva definito il carbone bianco, che si
contrapponeva alla nuova fonte emergente, il petrolio, chiamato oro nero.
17
TAB 1. Numero delle centrali e potenza istallata in Italia, 1926-1940..
Anno
Numero centrali
idroelettriche
Numero
centrali
termiche
Potenza
idroelettrica
(in Kw)
Potenza
termica
(in Kw)
1926 710 162 2.116.932 555.268
1930 914 240 3.716.871 750.092
1933 987 225 4.224.645 809.092
1938 1.103 189 4.685.081 876.464
1940 1.150 182 5.198.085 921.603
Fonte: Ministero dei lavori pubblici, Consiglio superiore, La produzione di
energia in Italia nel 1940, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1941, in
Storia dell’industria elettrica in Italia vol.3** a cura di Valerio Castronovo,
op. cit., p. 1173.