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e morfosintattica, ma allora non ero consapevole di ciò che stavo facendo). Nei
miei progetti avrei voluto fare uso di tale ricerca nei romanzi fantastici che
vagheggiavo allora, e che non riuscii mai a scrivere. Tuttavia quello sforzo, per
quanto ingenuo, non fu invano: mi resi conto che nell’invenzione linguistica non
è tanto importante il vocabolario bensì la grammatica (oggi direi: la
morfosintassi). Allora non sapevo che questa idea fosse tutt’altro che acclimatata
nella nostra cultura occidentale e perciò, da un punto di vista cognitivo,
profondamente sovversiva. Una prova l’ebbi qualche anno più tardi, quando vidi
un segno rossoblù sotto la parola uncold, che usai in una traduzione in inglese
(non ricordavo warm, ‘caldo’, e così me la cavai con ‘non freddo’). Inutili furono
le mie rimostranze all’insegnante: se lo scriveva Orwell, perché non io? «Perché
si dice così» mi fu risposto «quando sarai uno scrittore, scriverai come ti pare:
finché sei a scuola, scrivi come dico io». I lettori perdonino il narcisismo sotteso
al raccontare questo aneddoto: tuttavia il suo valore va ben al di là
dell’aneddotica, e il suo significato diverrà chiaro nel corso della lettura di questo
testo.
Visti i miei interessi adolescenziali, non c’è da stupirsi troppo se qualche anno
più tardi, appresi i rudimenti della linguistica, mi sia occupato di esperanto. Per
rispondere alla domanda «da dove viene l’esperanto?» basta avere una
competenza di lettura di tale lingua, ma per rispondere che cos’è oggi e quali
sono le sue prospettive non si può rimanere seduti in poltrona: bisogna imparare
attivamente la lingua, e per farlo è necessario partecipare ad almeno un incontro
internazionale di esperantisti. È ciò che ho fatto. In altri termini, per fare della
buona esperantologia non si può e non si deve prescindere dall’esperienza
esperantistica. La puntualizzazione non sembri scontata. Nel leggere la
letteratura, quel che è veramente sconcertante non è tanto l’ignoranza che si
3
ritrova nelle discussioni filosofesche di certi linguisti sulla fenomenologia
dell’esperanto, a torto considerato solo un mondo possibile, quanto la loro
incapacità (o riluttanza) di seguire Socrate e ammettere la vastità della loro
ignoranza. Nessun linguista si sognerebbe di disquisire sull’effabilità dello
swahili o del malese-indonesiano senza essersi debitamente documentato: nel
caso dell’esperanto, sorprendentemente, questo comportamento è la regola.
Il terzo capitolo presenta le lingue inventate che hanno avuto più successo, vale
a dire, in ordine cronologico: l’esperanto, l’ido, l’interlingua e il recentissimo
klingon. Il capitolo si basa in parte su fonti a stampa, in parte sulle numerose
fonti reperibili in rete riguardanti le constructed languages, nonché su diverse
conversazioni informali, via posta elettronica o faccia-a-faccia, con esperantisti,
esperantologi ed interlinguisti. Il terzo capitolo apre la seconda parte, intitolata
l’esperanto comunicante: si tratta di una panoramica della realtà esperantistica di
ieri e di oggi, comprese le sue diramazioni impreviste. Chi sono gli esperantisti?
Da dove vengono? Quanti sono? Che cosa fanno?
La terza parte e ultima parte ha per titolo l’esperanto comunicabile. Il capitolo
quinto è un po’ a sé: si tratta di un lavoro di ricerca sulle radici profonde
dell’esperanto, che sono religiose, poco note alla maggioranza degli esperantisti
stessi. Queste radici sono importanti per rispondere all’ultima domanda –
probabilmente la più interessante – di quelle poste in apertura: quali sono le
prospettive dell’esperanto? Dalle radici profonde ricaviamo la risposta sul lungo
termine – quello in cui, secondo la celebre battuta attribuita a Keynes, siamo
ormai tutti morti – mentre dallo studio dell’ultima generazione di esperantisti
possiamo rispondere nel breve e nel medio termine. L’esplorazione per così dire
antropologica della subcultura giovanile esperantistica è necessariamente basata
sull’osservazione partecipante: si tratta di descrivere una realtà in divenire, sia
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dal punto di vista dei prodotti culturali, sia dal punto di vista delle tendenze
linguistiche in atto. Particolarmente interessante è il ciberesperanto, la varietà in
uso su internet.
Il mio primo contatto concreto con la lingua avvenne nel 1995 tramite un corso
via posta elettronica, dall’inglese. Concluso il corso, ho verificato sul campo la
mia competenza, partecipando al mio primo incontro giovanile, alla fine di
quell’anno. Da allora ho partecipato in tutto a quattro incontri internazionali:
circa un mese di vita in ambiente esperantico internazionale, sufficiente per
raggiungere una competenza decisamente superiore alle lingue straniere studiate
in precedenza, l’inglese, il tedesco e il latino. Grazie all’esperanto, inoltre, ho
acquisito una capacità di lettura silenziosa del francese. Per completare il quadro,
si sappia che sono in grado di leggere ad alta voce le seguenti lingue inventate,
oltre all’esperanto: ido, interlingua, volapük, klingon e il markuska, la lingua
inventata da Alessandro Bausani. Questo perché sia chiaro che tutti i paragoni
con le altre lingue sono, per così dire, di seconda mano.
Nonostante sia un fenomeno indubbiamente marginale da un punto di vista
quantitativo, è sorprendente la quantità di dissertazioni, anche recenti,
sull’argomento. Tali studi sono raggruppabili in tre gruppi: linguistici, politico-
legislativi, storici. Gli studi linguistici, hanno di solito un’impostazione
comparativa e mettono a confronto progetti di lingue ausiliarie inventate, tra loro
o in opposizione alle lingue storico-naturali. Gli studi politico-legislativi mettono
a fuoco invece il principio della parità delle lingue nel diritto internazionale e i
ruoli possibili di una lingua come l’esperanto. Gli studi del terzo gruppo, infine,
mettono in relazione l’esperanto con il fenomeno più generale dell’invenzione
linguistica, dandone un inquadramento sia storico che filosofico, oppure si
focalizzano sul periodo delle origini e sulla figura del fondatore. Tutti e tre i
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filoni sono stati tenuti presenti nel redigere questa tesi, ma nessuno sembra
rispondere alla domanda fondamentale: è teoricamente possibile che l’esperanto
diventi una lingua ausiliaria ad ampia diffusione? Troppo pochi sono a tutt’oggi
gli studi sullo sviluppo linguistico della lingua per descrivere che cosa
succederebbe nel dettaglio. In particolare, mancano analisi esaustive
dell’esperanto parlato in conversazioni quotidiane informali. Ciononostante, lo
sviluppo sociolinguistico dell’esperanto è arrivato ad un punto tale per cui non ci
sono problemi teorici rilevanti alla sua diffusione. Per poter affrontare seriamente
questa domanda è necessario adottare una metodologia programmaticamente
eclettica: oltre alla linguistica, il discorso di avvalerà degli strumenti critici usati
in psicologia, storia, retorica, semiotica, critica letteraria, sociologia e
mediologia. In altri termini, l’esperantologia può essere considerata un ramo
eterodosso della linguistica, come vuole Schubert, solo a patto di intendere la
linguistica in senso largo, dando risalto in particolare alla sociolinguistica. Per
usare una felice espressione di J.A. Fishman, non è concepibile una «linguistica
immacolata, che non si sporca.»
Sarà ormai chiaro al lettore che posso dissertare di esperanto con la stessa
obbiettività con cui un innamorato descrive la propria amata (a scanso di
equivoci, comunque, l’italiano rimane il mio primo e più grande amore
linguistico). Cionostante, almeno a livello di intenti, il coinvolgimento emotivo
non mi ha impedito di mettere in luce i punti più delicati e controversi della
lingua e dell’esperantistica. Anzi, forse l’esserne io parte integrante li ha resi
ancora più nitidi; ma questo lo lascio al giudizio dei lettori. Per evitare ogni
possibile equivoco, è bene chiarire fin da subito i due principi linguistici in cui io
credo fermamente, l’uno complementare all’altro. Qualcuno potrebbe notare che
sono analoghi ma non identici a quelli espressi recentemente da David Crystal.
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• Io credo che gli esseri umani siano tutti polilingui. Almeno in linea di
principio, il monolinguismo assoluto non esiste. Anche l’uomo più isolato viene
a contatto almeno una volta nella vita con una lingua altra e ne rimane
influenzato. La vicenda biblica di Babele è da leggersi come un atto divino
contro la pretesa di una cultura di imporsi sulle altre: la confusio linguarum non è
una punizione divina, bensì una delle ricchezze principali dell’ umanità. Dio
punisce quegli uomini che ardiscono imporre nomi agli altri uomini, prerogativa
di Dio soltanto. Esistono tante lingue quanti sono gli ambienti sociali creati dalle
collettività umane (com’è noto, la madrelingua non è la lingua della madre, ma la
lingua dell’ambiente): ciò significa anche che le lingue sono tutte, almeno in
parte, ibride. Dietro il purismo, troppo spesso si nasconde la volontà di censurare
le parole cattive, una forma singolare di apartaid del pensiero (sì, lo so che si
scrive apartheid in inglese, ma non si tratta di una svista dello scrivente): il
proibizionismo è uno strumento sempre inefficace, anche in campo linguistico. I
contatti tra le lingue, fecondi di arricchimenti culturali reciproci, sono sempre
auspicabili: le culture non sono specie animali a rischio, da mettere in cattività.
Eliminare per decreto i contatti non è solo dannoso, è anche stupido: quel che si
può fare, invece, è di esaltare al massimo la produttività dei nuovi arrivi. Ecco
perché ho deciso di scrivere le parole acclimatate nell’italiano con la grafia
italiana. Ma su questo punto si tornerà in sede di conclusione.
• Io credo nel valore fondamentale di una lingua comune mondiale che
permetta al pensiero selvaggio, prealfabeta, di esprimere tutte le sue potenzialità.
Da un certo punto di vista, è paradossale che le lingue preletterate abbiano pochi
paradigmi e conseguentemente un alto grado di supplettività, mentre, al
contrario, siano le lingue che vengono scritte bene quelle che rispettano di più il
pensiero selvaggio e preletterato, foriero di idee nuove, tipico dei bambini. Nel
7
mio mondo ideale, ciascuno è in grado di esprimersi in questa lingua comune
ausiliaria, massimamente scritta e profondamente loquente al contempo,
sentendosi a suo agio come nella sua lingua natìa. Tra tutte le lingue di cui sono a
conoscenza, l’esperanto è quella che più si avvicina al mio ideale, e questa tesi
intende spiegare perché. Ciononostante, l’idealità non mi fa chiudere gli occhi di
fronte alla realtà. È un fatto che tale ruolo di lingua ausiliaria mondiale sia svolto
attualmente dall’inglese. Dalla rivoluzione industriale in avanti, le principali
tecnologie vengono prodotte in paesi anglofoni, e, ogniqualvolta si assiste alla
diffusione di dette tecnologie, schiere di luddisti apocalittici profetizzano la
scomparsa di tutte le culture diverse dall’inglese nel momento in cui le nuove
tecnologie avanzano. I luddisti vengono puntualmente smentiti, ma, poiché
hanno scarsissima memoria storica, ogni volta ripropongono le stesse paure
irrazionali e umane, troppo umane. Come notava Bausani, l’automobile è una
tecnologia molto occidentale, eppure nessun asiatico rinuncia a guidare in nome
della cocacolonizzazione. Tutto questo per dire che essere esperantisti non
significa necessariamente credere nel luddismo ed essere anglofobici. Non credo
nemmeno in un imperalismo culturale americano «Big McBrother’s». Anzi,
l’idea «made in Usa» che il mondo è una frontiera da conquistare e che le proprie
origini e le proprie tradizioni non devono impedirci di sentirci tutti uguali
dovrebbe piacere molto agli esperantisti, perché in ultima analisi è un’identità
postnazionale molto vicina all’identità esperantica. Per me è assolutamente
evidente che, finché il potere geopolitico, di cui l’innovazione tecnologica è
sintomo evidente, rimarrà in paesi di cultura anglofona, l’inglese rimarrà la
lingua dominante a livello internazionale. Questo non implica che, a mio parere,
non ci sia spazio per un uso diffuso dell’esperanto nel breve termine, come si
vedrà nel capitolo settimo. Sono anche molto scettico che esista una relazione
8
significativa tra la diversità delle lingue e l’esistenza delle guerre. Molti
esperantisti ritengono che la lingua comune porti necessariamente la pace, o
perlomeno la favorisca decisamente. Eppure la questione irlandese e le recenti
vicende dell’ex-Jugoslavia dovrebbero averci insegnato che una lingua comune
non è garanzia di pace. Le differenze etniche o religiose, nei Balcani come in
Algeria, a cui si imputano le cause delle guerre, sono in fin dei conti solo
maschere di banali interessi economici di gruppi organizzati senza scrupoli, che
si giustificano dietro a paraventi ideologici. Né le tecnologie né le lingue sono
dotate di particolari effetti taumaturgici.
In Qoèlet (12, 11) è scritto che le parole dei savi sono come pungoli, durature
come chiodi piantati. La mia speranza è che questo scritto venga letto con pari
interesse dagli esperantisti, per capire chi sono, e da tutti gli altri, se interessati a
capire qual è il dilemma che sottostà a questa interessantissima lingua, la cui
genesi e storia è davvero inconsueta.
Nota di lettura dei testi esperantici
L’accento di parola è fisso sulla penultima vocale. Per la pronuncia delle consonanti, si
noti: c = [ts], = [t]; = [d]; = [x]; =[]; = []; = [w]; tutto il resto è come in
Ipa. Le vocali medie italiane medie sono più che accettabili. Ove non indicato
diversamente, le traduzioni sono di F.G. L’uso delle maiuscole è stato ridotto al
minimo, in esperanto come in italiano.
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parte prima
L’esperanto comunicato
L’esperanto è un hobby intelligente. Ma di qui a considerarlo
«lingua internazionale», ne corre... L’esperanto non è stato un
fallimento – se lo consideriamo un passatempo intellettuale.
Come «lingua del mondo» invece, ha fatto la fine malinconica
di tutte le lingue imposte dall’alto… Umberto Eco – la cui
ammirazione per l’esperanto conferma la mia convinzione che
si tratti di un raffinato gioco intellettuale – ha ricordato, se non
sbaglio, che negli ultimi 400 anni sono stati almeno 200 i
tentativi di trovare una lingua che potesse unire il pianeta.
Rispetto ad altre grottesche neolingue, l’invenzione
dell’oculista polacco Zamenhof – l’esperanto, appunto – è
magnifica. Ma non mi sembra possa reggere il confronto con
le lingue vere, prodotto di storia e di passioni, come l’inglese,
il tedesco o l’italiano. So che molti esperantisti credono ad un
complotto mondiale per impedire il diffondersi della lingua
che amano. Spero, dopo questa risposta, di non venire incluso
tra gli agenti delle oscure forze anglofone (proprio io cresciuto
a francese e tedesco, e quindi inserito a pieno titolo tra i
perdenti).
Indro Montanelli, 1997
Secondo Umberto Eco, negli ultimi quattrocento anni sono
stati almeno duecento i tentativi di trovare una lingua che
potesse unire il mondo e, se il mondo si rivelava troppo
grande, riuscisse almeno a far parlare l’Europa. Alcuni
dovevano essere piuttosto divertenti… Una menzione
particolare va all’esperanto, se non altro per il numero di
zeloti che ancora oggi vogliono insegnarlo a chi non ne vuol
sapere. Creato nel 1887 da Ludwick Zamenhof, un oculista
polacco di Bialystock, viene parlato da centomila persone di
ottantatré paesi, e riempie cento periodici e trentamila libri.
Derivato dalle radici delle lingue europee, in particolare delle
lingue romanze, l’esperanto è relativamente facile da imparare
(si favoleggia che Leone Tolstoj ci riuscì in due ore): i verbi
sono tutti regolari; l’articolo determinativo è sempre la,
mentre quello indeterminativo non esiste; i sostantivi non
hanno genere e terminano in -o, i plurali in -oj; gli aggettivi in
-a. Il guaio dell’esperanto è che costituisce l'equivalente
linguistico dell’economia di piano socialista: là qualcuno
voleva imporre costi e prezzi; qui, parole. Quella non ha mai
funzionato; questo – l’esperanto – non funzionerà mai.
Beppe Severgnini, 1997
11
Capitolo primo
L’esperanto luogo comune: tracce nei quotidiani,
nella letteratura e in linguistica.
1. Facciamo finta di non sapere alcunché di esperanto e immaginiamo una
situazione in cui qualcuno ci domanda: «che cos’è l’esperanto»? Difficilmente
daremo un «non ne so nulla» come risposta. Pur non avendo alcuna esperienza
diretta di esperantistica, è verosimile ipotizzare che la maggior parte delle
persone darà una risposta positiva, un po’ indefinita, forse, eppure di solito
sicura, come quando si nomina qualcosa di talmente evidente a tutti che non c’è
nemmeno bisogno di spiegare. Questo dato esperenziale minimo mostra che
esiste un luogo comune dell’esperanto. Se provate a sfogliare un dizionario o
un’enciclopedia è molto probabile che un lemma ci sia. Sotto ‘esperanto’, per
esempio, il Devoto-Oli recita: «la più diffusa delle lingue artificiali
internazionali, basata su una grande semplicità fonetica, grammaticale e
lessicale.» Torneremo in dettaglio, nel capitolo secondo, sul nucleo di questa
definizione da dizionario, «lingua artificiale internazionale», per illustrarne i
limiti e offrire un’alternativa motivata. In questo primo capitolo, invece, si
intende analizzare, per quanto possibile, il luogo comune dell’esperanto. Nel
Medioevo il locus communis era un rimando sicuro ad un insieme di conoscenze
condivise da tutti e comunemente accettate, un luogo «dell’ars memoriae, spazio
immaginario che serve da rifugio mnemonico nel lavoro di esplicitazione del
pensiero (Zumthor 1998: 17-18)».
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È noto infatti che il significato delle parole non è racchiuso nelle definizioni dei
vocabolari: essi dànno conto del significato denotativo, ma prescindono – e non
possono fare altrimenti – dai significati connotativi, sempre varianti. Eppure,
sono proprio questi ultimi i più interessanti: i significati connotativi formano una
rete di rimandi che ci permettono di dare senso alle infinite varianze
dell’esperienza sensibile. Alcuni di questi rimandi nascono e muoiono con le
situazioni che li hanno creati; altri hanno vita più lunga, e talvolta risultano così
pertinenti da entrare nelle credenze condivise e divenire metafore lessicalizzate
(per esempio, la parte superiore di una bottiglia possiamo chiamarla in italiano
solo con la parola ‘collo’). La parola ‘esperanto’ è stata pubblicata nel 1887, e
dato che il suo referente concreto non si lascia incasellare facilmente nel
patrimonio conoscitivo dei più, ha sùbito dato vita a numerosi rimandi
connotativi, i quali poco a poco si sono sedimentati ai margini dello spazio del
senso. È questo il luogo comune dell’esperanto che andiamo ora ad analizzare.
Uno specchio del significato connotativo delle parole è dato dall’uso che ne
fanno i media di massa1, in particolare radio, televisione e stampa. Sovente si
dice che i media semplificano, volgarizzano i concetti fino a distorcerli; al di là
dei valori sottesi a tali giudizi, è vero che sono sono proprio i significati
connotativi sedimentati nel tempo che veicolano i pregiudizi più diffusi e più
tenaci nel resistere all’evidenza e all’argomentazione razionale. Quali sono
1
Per media, o mezzi di comunicazione di massa, intendo tutte le tecnologie in grado di produrre,
conservare e diffondere da una fonte unica uno o più messaggi in copie multiple identiche tra loro
(McLuhan 1995). Pertanto rientrano in questa definizione la radiotelevisione e la stampa e invece viene
esclusa la comunicazione via telefono, la quale tipicamente ha (i) due fonti emittenti paritetiche e (ii) un
flusso di messaggi sempre sempre differenti (v. almeno McLuhan 1995 e Ortoleva 1995).
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dunque le connotazioni, positive e negative, che il grande pubblico associa al
termine ‘esperanto’?
Claude Piron ha dedicato molti lavori a questo proposito, presentando una lista
delle obiezioni pregiudiziali (perché non fondate su prove fattuali ma sui
significati connotativi duraturi, come detto in precedenza) che un esterno pone ad
un esperantista entrando in argomento (Piron in Dasgupta 1987: 298):
1. L’esperanto esiste solo nelle farneticazioni dei suoi sostenitori, e solo dei sognatori
possono vederlo come una vera lingua mondiale (ci sono numerosi parlanti regolari di
esperanto).
2. L’esperanto è un’invenzione esclusivamente di Zamenhof (l’esperanto vive e si sviluppa;
Zamenhof ha solo fornito la piattaforma).
3. L’esperanto è basato su radici indoeuropee, e per questo è improbabile che raggiunga un
successo mondiale (l’esperanto non è una lingua solo per gli europei e dal punto di vista
strutturale non è particolarmente indoeuropea).
4. L’esperanto è una lingua rigida e poco flessibile (ha un’ottima flessibilità, esiste una
produzione poetica, etc.).
5. L’esperanto non riflette una cultura (l’esperanto ha una cultura e un’etica).
6. L’esperanto gradualmente sopprimerà le tradizioni antiche, le culture e le lingue (è una
lingua ausiliaria; non intende sostituirsi alle altre).
7. I problemi linguistici non possono essere risolti attraverso una lingua universale
(l’esperanto intende dare una mano, non risolvere qualsiasi problema linguistico).
Pur essendo una buona summa dell’andamento della maggior parte delle
conversazioni informali sull’argomento, questa lista presuppone che
l’interlocutore abbia un’idea abbastanza precisa di che cosa sia l’esperanto: si
noti che tutti e sette i punti presuppongono che l’interlocutore sappia che
l’esperanto è una lingua e non una pianta tropicale. La pur limitata esperienza di
chi scrive porta invece a pensare che nella maggior parte dei casi gli esterni non
sanno proprio dove collocare l’esperanto nelle loro tassonomie mentali, perché
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non sanno bene cosa sia una lingua. Detto altrimenti, secondo la nozione di senso
comune l’esperanto non è una lingua ma qualcosa d’altro. Per poter definire con
un po’ più di precisione che cosa sia questo ‘altro’, rivolgeremo la nostra
attenzione su tre ambiti, dal meno tecnico al più tecnico: i quotidiani, la
letteratura e la linguistica.
2. La varietà linguistica dei quotidiani vive di metafore nuove a poco a poco
logorate dall’uso. Secondo Piron, la maggior parte dei sette pregiudizi elencati
nei media sono frutto della semplificazione dei media, in particolare della stampa
(1987: 100-101):
L’esigenza di attrarre lo sguardo del lettore favorisce la compilazione di titoli sensazionali,
la necessità di adattare il messaggio a un pubblico che non vuole sfumature impongono lo
schematismo. Il primo contatto con l’Esperanto, dunque, è dato spesso dal titolo di un
articolo che orienta fin dall'inizio lo spirito del lettore e implica molti sottintesi [...] è
probabile che l’argomento non interessi affatto e che pochi siano coloro che leggono tutto
l’articolo. Il titolo sarà dunque il solo elemento che lascerà una traccia nella memoria di
quasi tutti i lettori del giornale. Al terzo o quarto incontro di un titolo del genere,
l'orientamento preso inconsciamente sarà ormai così rafforzato da opporre una resistenza
quasi insuperabile ad ogni giudizio contrario.
Sono tre i titoli di giornali forniti a sostegno di questa tesi: (i) L’esperanto lingua
universale a scuola? Meglio dell’Esperanto: l’inglese; (ii) L’esperanto, lingua
universale: un progetto filantropico e utopistico; (iii) Linguaggio universale o
stato d’animo, l’Esperanto ha ancora i suoi adepti (ibid.), pubblicati nell’arco di
sette anni, dal 1975 al 1983, su giornali di lingua francese. È un’ipotesi
esplorativa che ha una sua dignità; tuttavia, le prove addotte al suo sostegno sono
alquanto scarse. Se è vero che «i mass-media privilegiano il discontinuo,
15
l’istante, mentre il fenomeno “Esperanto” va visto nel continuo, nella durata
(ibid.)», è anche vero che un’analisi più circostanziata degli articoli di giornale
contenenti almeno una volta la radice esperant- può essere informativamente più
ricca di una generica lamentela del funzionamento Babau mediale.
Innanzitutto, prendere in considerazione solo i titoli è molto limitante. Se la
parola ‘esperanto’ appare nel titolo, è molto probabile che il testo riguardi lo
stesso. Ciò che ci interessa, tuttavia, non è con quanta proprietà si parli di
esperanto sui giornali, bensì quale sia la nozione di senso comune, che viene
rivelata quando il termine subisce una decisa ricontestualizzazione, cioè quando
si parla d’altro che di problemi linguistici internazionali, eppure compare il
lemma. Per compiere un’analisi rigorosa, pertanto, non è sufficiente limitarsi ai
titoli.
La digitalizzazione dei quotidiani italiani, condizione preliminare necessaria per
poter effettuare un’analisi agevole, è ancora insufficiente. Pertanto le aspettative
iniziali su questa parte della ricerca sono state pesantemente ridimensionate. Tra i
quotidiani a grande diffusione, solo il Corriere della Sera, La Stampa e il Sole
24Ore pubblicano su cidiròm gli articoli dell’anno, con increscioso ritardo2. Per
quanto riguarda le banche-dati telematiche, dal sito de il Sole 24Ore si può
accedere a pagamento all’archivio di tutti gli anni Novanta della testata, compresi
gli inserti, e all’archivio de La Stampa, comprese le pagine relative alle provincie
2
In data lunedì 11 maggio 1998 il cidirom relativo al Corriere nel 1997 non era ancora disponibile in
alcuna biblioteca del milanese. Tra le altre testate, solo la Repubblica ha annunciato la pubblicazione dei
prorpi archivi su cidirom.
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di Novara e Vercelli, oltre a numerosi periodici economici. Usufruendo di
un’offerta gratuita di prova, abbiamo effettuato una richiesta alla banca dati di
visualizzare tutti i titoli degli articoli pubblicati su il Sole 24Ore e La Stampa,
inserti e pagine provinciali comprese, in cui fosse comparsa almeno una volta la
radice esperant-. Il periodo in cui era permesso l’accesso alla banca-dati copriva
sei mesi, precisamente dal 2 giugno al 2 dicembre 1997. Il risultato della ricerca
ha visualizzato 267 articoli in titoli, per un media giornaliera di 1,3 articoli
(Appendice II). Ciò significa nella seconda metà del 1997 in media ogni giorno o
su La Stampa o su Il Sole 24Ore è stato pubblicato un articolo con dentro la
parola ‘esperanto’ o derivati. Sul sito de Il Manifesto sono consultabili
liberamente gli articoli degli inserti: lungo tutto il 1997 la parola ‘esperanto’ è
comparsa sei volte3. Questi sei articoli verranno utilizzati come corpus di
controllo dell’analisi compiuta su quello principale.
Perché, nonostante non sia più al centro del sistema dei media, si è dato tanta
importanza alla carta stampata? Sono intervenute innanzitutto considerazioni di
carattere pratico: nonostante le mancanze di cui sopra, era molto più agevole
procurarsi un corpus di dati proveniente dalla carta stampata piuttosto che dalla
radio o dalla televisione, anche perché l’argomento non è certo prioritario
nell’agenda nelle redazioni dei mezzi di informazione.
3
Gli inserti sono Alibabà, Talpa e Ultra, riguardanti rispettivamente i nuovi media, i libri e la musica. I
tre inserti vengono pubblicati a a frequenza settimanale. Tutti i testi sono riprodotti secondo la versione
negli archivi ufficiali in rete. I titoli sono stati differenziati tipograficamente dal corpo del testo.