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1. Introduzione
1.1. Ascesa e declino della Pax Americana
L’ordine economico internazionale del secondo dopoguerra
Il modello economico internazionale sviluppatosi nel secondo dopoguerra può essere
definito come un sistema multilaterale incentrato sullo stato nazione. Sue caratteristiche
fondamentali erano l’interventismo statale e la produzione di massa. Per il tramite di
politiche economiche e sociali gli organismi governativi garantivano i cittadini nei
confronti degli eventuali rischi scaturiti dalle liberalizzazioni economiche internazionali. A
differenza del gold standard, caratterizzato dal cosiddetto laissez-faire, il nuovo sistema
traeva la sua forza dalla capacità dei moderni stati capitalistici di porre in atto efficaci
politiche pubbliche.
1
L ’embedded liberalism (liberalismo incorporato) promosse
liberalizzazioni significative nell’ambito del commercio internazionale ma non mise mai in
secondo piano l’obiettivo di garantire il benessere dell’intera comunità nazionale. L’enfasi
posta nelle politiche orientate al mercato era bilanciata dagli sforzi per incrementare la
coesione sociale. Una forma di bilanciamento di interessi che venne ad assumere forme
diverse a seconda delle latitudini in cui venne applicata. Negli USA si adottò il New Deal
State mentre in Europa occidentale la socialdemocrazia.
2
La nuova forma di organizzazione politico-economica venne supportata dal
contemporaneo sviluppo della produzione e del consumo di massa. Il nuovo paradigma
produttivo di ispirazione fordista consentì, infatti, ai paesi occidentali di ottenere elevati
tassi di crescita economica e garantire di conseguenza la stabilità. Cardini del nuovo
modello produttivo erano: un efficiente sistema di regolazione, un insieme di istituzioni
nazionali che consentivano il buon funzionamento di un sistema di mercato oligopolistico,
un legame particolare tra salario e lavoro che garantiva un aumento generalizzato del
tenore di vita, le istituzioni tipiche dello stato sociale e una divisione del lavoro su scala
geografica. La divisione del lavoro ed una produzione di massa standardizzata erano
garantite dal progresso tecnologico che offriva la possibilità di impiegare macchinari
specializzati.
3
Al fine di garantire ulteriormente la stabilità politica ed economica venne
stipulato un patto sociale
4
interno a ciascun paese. Si trattava di un accordo tra manager e
lavoratori, o più in generale tra capitale e lavoro, questi ultimi avrebbero accettato
l’autorità dei dirigenti d’azienda e una divisione del lavoro maggiormente pronunciata, ma
in cambio avrebbero ottenuto salari adeguati che sarebbero stati adattati all’andamento
dell’inflazione e della produttività. Una cooperazione che funzionò grazie alla “presenza di
1
Michel Goyer, “Globalization and the Embedded Liberalism Compromise: The End of an Era?” MPIfG
Working Paper 97/1 pp. 7 - 8
2
David Held, Governare la globalizzazione, il Mulino, Bologna 2005 p. 39 (ed. orig. Global Covenant. The
social democratic alternative to the Washington Consensus, Polity Press, Cambridge 2004)
3
Jamie Peck, Nik Theodore, “Comparing capitalism: theorizing the persistence of institutional variation”
Paper for the second DEMOLOGOS meeting, Vienna, 16 – 18 June 2005 p. 14
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una fitta e complessa rete di istituzioni interdipendenti”
5
tra le quali il welfare state, la
contrattazione collettiva, una politica monetaria accomodante e l’intervento diretto dello
stato in ambiti di importanza primaria per la comunità quali ad esempio l’istruzione e la
sanità.
La grande impresa fordista, il welfare state e i sindacati in ambito nazionale e il sistema di
Bretton Woods in ambito internazionale funsero da pilastri per la cosiddetta pax
americana. Un regime che dal secondo dopoguerra agli anni ’70 garantì la crescita e lo
sviluppo nei paesi occidentali e che ne influenzò profondamente anche la società civile. I
paesi dell’Europa occidentale ed il Giappone adottarono quei modelli di produzione e
consumo di massa originari degli Stati Uniti che trasformarono in maniera significativa
l’organizzazione della vita sociale. Politici ed uomini d’affari di questi paesi si recarono
numerosi negli USA a studiare il funzionamento del modello fordista. Ciò influì in modo
significativo su numerosi aspetti della vita sociale, i paesi occidentali in quegli anni non
vennero accomunati solo da una crescita economica sostenuta ma anche dalla convergenza
di alcune istituzioni sociali e politiche. Si trattò di cambiamenti significativi anche se dopo
un lasso di tempo relativamente breve ciascun paese adattò le pratiche fordiste alla propria
tradizione economico-istituzionale. Istituzioni e politiche nazionali cercarono di evitare che
l’applicazione di pratiche produttive esogene potesse avere effetti deleteri nella comunità
nazionale. In Germania ad esempio non vennero abbandonate la produzione di qualità e la
differenziazione che avevano caratterizzato la storia economica del paese sin dall’inizio del
processo di industrializzazione.
Il declino della pax americana, la crisi degli anni ‘70
Il paradigma politico-economico dominante nel secondo dopoguerra rese possibile una
mediazione tra le istanze di coloro che spingevano per una maggiore apertura dei mercati e
le istanze di chi voleva preservare l’autonomia dei singoli governi nazionali nelle loro
politiche economiche e sociali. Il compromesso raggiunto sia su base nazionale che su base
internazionale funzionò bene fino agli anni ’70. Da quel momento in poi si verificarono dei
cambiamenti significativi che ne minarono le basi. Una consistente manovra speculativa
contro il dollaro e il crescente deficit commerciale accumulato dagli USA a seguito della
guerra del Vietnam spinsero nel 1971 l’amministrazione Nixon ad abbandonare la
convertibilità del dollaro in oro. Ciò significò la fine del sistema di cambi fissi di Bretton
Woods. La situazione peggiorò ulteriormente quando l’OPEC decise di quadruplicare il
prezzo del petrolio generando una prima crisi petrolifera a cui fece seguito una seconda nel
1979. La crisi interessò l’intera economia mondiale rendendo palesi alcuni limiti del
sistema. La risposta dei paesi occidentali si indirizzo verso un rafforzamento del ruolo
delle istituzioni di mercato che ebbe come diretta conseguenza l’aumento della
competizione su scala internazionale. Il modello produttivo fordista venne sostituito da un
nuovo paradigma orientato alla produzione flessibile. Il nuovo clima competitivo e i
cambiamenti istituzionali in ambito internazionale privarono le grandi imprese di quel
quadro di certezze che aveva consentito loro di programmare politiche industriali di lungo
4
Robert Boyer, “L’ipotesi della convergenza rivisitata: globalizzazione e stato nazionale” in Suzanne Berger,
Ronald Dore (a cura di), Differenze nazionali e capitalismo globale, il Mulino, Bologna 1998 (ed. orig.
National Diversity and Global Capitalism, Cornell University Press, New York, 1996)
5
Robert Boyer, op. cit., p. 58
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periodo. Una risposta immediata alla crisi da cui vennero investite fu il trasferimento di
alcuni segmenti produttivi ad imprese di piccole dimensioni che consentivano una
maggiore flessibilità.
Anche gli Stati Uniti, paese leader sulla scena mondiale, si rivelarono incapaci nel gestire
una crisi che per rapidità e intensità li aveva colti impreparati. La loro risposta si concentrò
sulla riforma sia delle istituzioni economiche interne sia di quelle internazionali, sfruttando
il proprio ruolo di paese guida dell’economia mondiale. I cambiamenti a cui si assistette in
quegli anni erano frutto non solo della crisi internazionale ma rispondevano anche ad un
determinato progetto politico che era stato sperimentato in Cile nei primi anni ’70. Una
strategia che si ispirava alle idee di Milton Friedman e Friedrich von Hayek esponenti della
cosiddetta scuola di Chicago. A diventare centrale era la libertà individuale e allo stato e
alla società veniva riconosciuto solo una funzione minima sia nel garantire la sicurezza
economica che nell’intervenire direttamente nei processi economici. Lo stato sociale
veniva visto come un distruttore della libertà individuale e gli organismi pubblici come una
minaccia al buon funzionamento dei mercati.
A seguito della crisi economica degli anni ’70, negli USA fu soprattutto l’impianto
istituzionale alla base del cosiddetto New Deal State ad essere messo sotto accusa. Si
trattava della risposta statunitense alla grande depressione del 1929, causata dal crollo del
regime internazionale basato sul laissez faire. Un sistema che se paragonato alla
socialdemocrazia di stampo europeo era più modesto negli obiettivi e meno presente
nell’attività economica privata. Esso non si proponeva di trasformare il capitalismo ma
bensì di stabilizzarlo. Gli strumenti di cui era dotato erano soprattutto politiche monetarie
e fiscali di ispirazione keynesiana che dovevano garantire la piena occupazione e una rete
di servizi sociali per la fascia di cittadini più bisognosi. Lo stato sociale era quindi molto
meno sviluppato di quello europeo. Nel 1960 per aumentare gli interventi sociali e rendere
fruibili tali sostegni pubblici ad un maggior numero di cittadini venne lanciato il progetto
della cosiddetta Great Society. Per rendere tale disegno politicamente accettabile si
dovette, però, ridurne sensibilmente l’entità rispetto agli ambiziosi obiettivi iniziali. Venne,
infatti, a crearsi un forte contrasto tra le istituzioni statali che cercavano di ritagliarsi un
ruolo maggiore in ambito economico e le varie lobby che vedevano tale eventualità come
un danno più che come un vantaggio. Se negli Stati Uniti l’interventismo statale veniva
fortemente osteggiato, in Europa si verificava l’effetto opposto. Mentre in tutti i paesi
dell’OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) la spesa sociale
aumentava significativamente negli Stati Uniti gli aumenti furono di entità sensibilmente
ridotta. Tra il 1960 e il 1975 negli USA la quota del PIL destinata a tali spese passò
soltanto dal 10 al 19%. Poi nel decennio successivo al fine di rispondere alla crisi
economica i capitoli della spesa sociale vennero addirittura ridotti.
6
La parola d’ordine del
nuovo corso economico statunitense, trasportata poi anche in ambito internazionale, era:
liberalizzazione. Durante la presidenza Reagan una consistente politica di liberalizzazioni e
deregolamentazioni investì ad esempio il settore del trasporto aereo, quello bancario e
quello delle telecomunicazioni. Venne lanciato un progetto di riforma dei mercati
finanziari internazionali ed eliminati i vincoli al movimento internazionale dei capitali. Il
mercato azionario si accrebbe e si rafforzò ulteriormente a seguito di una serie di
6
Michel Goyer, op. cit, p. 10
___________________________________________________1. Introduzione - 4
privatizzazioni che interessarono l’Europa.
7
La finanza assumeva così un ruolo
predominante sui mercati internazionali.
La nuova strategia di politica economica, sia a livello interno che su quello internazionale
si fondava su principi neoliberisti. Libero scambio, liberalizzazione del mercato dei
capitali, tassi di cambio flessibili, tassi di interesse determinati dal mercato, equilibrio dei
bilanci statali, garanzia dei diritti di proprietà, tutela dei diritti di proprietà intellettuale,
privatizzazioni e deregolamentazioni di ampi settori dell’economia. Secondo il politologo
David Held “un’agenda economica ristretta”
8
soprattutto se paragonata all’agenda
economica dei socialdemocratici. I nuovi principi vennero imposti anche ai paesi in via di
sviluppo attraverso lo strumento del Washington Consensus, per il tramite di organismi
internazionali quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale.
Un nuovo modello economico - sociale
La transizione verso un modello flessibile di organizzazione del lavoro e della produzione,
la rivoluzione nella microelettronica e le sue conseguenze nelle comunicazioni su scala
globale, il crollo del regime sovietico e la progressiva globalizzazione economica, la
riduzione dell’interventismo statale in economia. Sono questi gli avvenimenti che
maggiormente hanno inciso sul regime economico internazionale. Cambiamenti che sono
stati accompagnati dalla nascita di una nuova cultura di massa che ha nel consumo uno dei
suoi requisiti di base. L’aumento dei consumi è stato reso possibile dalla diversificazione
dell’offerta e dalla sempre maggiore espansione dei beni di consumo a basso costo. Una
delle conseguenze fondamentali dell’invasività di tale fenomeno è stata il venir meno delle
basi della struttura sociale originatasi nel secondo dopoguerra. L’iniziale divisione della
società in classi perde sempre più di significato mentre emergono nuove forme di
categorizzazione che si basano sulla differenza tra i diversi stili di vita. Il senso di
appartenenza ad una determinata categoria sociale è stato profondamente trasformato. Si
tratta del culmine di un trend che ha avuto origini in tutti i paesi maggiormente
industrializzati nella seconda metà del secolo scorso ma che negli ultimi decenni ha subito
una forte accelerazione. La possibilità di accesso a beni di consumo durevoli quali
elettrodomestici e automobili e i cambiamenti nelle abitudini di vita della popolazione,
soprattutto in relazione al tempo libero e alle vacanze furono i primi segni di cambiamento.
La consistente riduzione dei costi e l’aumento delle retribuzioni per la maggior parte della
popolazione ridusse progressivamente e sensibilmente le differenze negli stili di vita tra
appartenenti a differenti classi sociali. Non era solo la quantità dei beni acquistati ad
aumentare, ma anche la qualità. Venne, infatti, facilitato l’accesso ai cosiddetti beni di
lusso grazie alla sempre più ampia possibilità per i cittadini di accedere al credito.
Aumentava, però, allo stesso modo anche l’indebitamento delle famiglie. Precursori di tale
tendenza furono gli Stati Uniti, dove i primi sintomi del fenomeno erano visibili già a
partire dagli anni ‘20. Dagli USA il trend si espanderà, poi, negli altri paesi occidentali
andando ad assumere proporzioni sempre maggiori.
Col passare del tempo il lato simbolico del consumo ha finito con l’oscurarne gli aspetti
materiali legati alla soddisfazione dei bisogni. L’acquisto di un bene significa o segnala
qualcosa e perciò nonostante non ne vada sottovalutato il valore d’uso materiale a spingere
7
Alberto Martinelli, La democrazia globale, Università Bocconi Editore, Milano, 2004 pp. 32 - 33
8
David Held, op. cit., p. 85
___________________________________________________1. Introduzione - 5
maggiormente verso il consumo è “il messaggio simbolico di esclusività sociale.”
9
Il valore
simbolico non può essere facilmente circoscritto e perciò in principio diviene difficile
stabilire il livello di “sazietà”.
Il dibattito sulla differenza dei capitalismi
I cambiamenti avvenuti nella società e nell’economia internazionale negli ultimi decenni
del secolo scorso hanno dato nuovo impulso al dibattito accademico relativo alle differenze
tra le varie forme istituzionali del capitalismo su scala nazionale. La stessa coesistenza tra i
differenti modelli sembra essere minacciata. La deregolamentazione in settori economici
che prima non travalicavano i confini nazionali ha, infatti, amplificato la competizione tra
le varie imprese costrette ora a fornire prodotti sempre più innovativi, ridurre i costi relativi
al lavoro e quelli relativi all’utilizzo del capitale. L’aumento della velocità nelle transazioni
economiche a livello internazionale ha aumentato le pressioni sui sistemi capitalistici in cui
i processi decisionali si basano sul consenso tra i vari portatori di interessi: banche,
imprenditori, governi e lavoratori. Allo stesso tempo anche il modo in cui i vari modelli si
pongono di fronte alla crescente globalizzazione dei mercati finanziari è diventato
argomento di contesa.
10
La questione è se sia più adatto un sistema che mette al primo
posto gli azionisti (shareholder) oppure le varie parti sociali (stakeholder),
l’individualismo o il benessere generale. Secondo una definizione dello storico Werner
Abelshauser si tratterebbe di una sorta di battaglia tra le varie culture economiche (Kampf
der Wirtschaftskulturen) per l’egemonia globale nel pensiero economico.
11
Le tre economie
più importanti, vale a dire quella americana, tedesca e giapponese, infatti, oltre ad
esercitare un ruolo ed un’influenza significativi all’interno dell’economia mondiale
fungono anche da modello per gli altri sistemi. Molti tratti distintivi dell’economia
americana sono rintracciabili nelle economia di stampo anglosassone, influenze del
modello tedesco sono rintracciabile nelle economie dell’Europa continentale ed elementi
dell’economia giapponese sono rintracciabili nelle economie di sviluppo dell’Asia del
Pacifico.
Il filone degli studi comparatistici dei sistemi economici si era già sviluppato negli anni
’60. Esso si era occupato soprattutto delle differenze tra i sistemi capitalisti e quelli
socialisti sostenendo che i due modelli avrebbero finito col convergere in un ibrido che
avrebbe combinato l’intervento statale con l’economia di mercato.
12
Nel decennio
successivo essi si concentrarono, però, sullo studio di issue specifiche e non su quello dei
vari sistemi nel loro complesso. Negli anni ’80 quando le significative performance
economiche di Giappone e Germania coincisero con la contemporanea crisi di USA e
Inghilterra, si rinnovò l’interesse internazionale per tali studi. Il successo tedesco e
nipponico era attribuito principalmente alla loro particolare ingegneria istituzionale. Si
9
Christoph Deutschmann “Anglo-amerikanischer Consumerism und die Diskussion über Lebensstile in
Deutschland” in Volker R. Berghahn, Sigurt Vitols (a cura di) Gibt es einen deutschen Kapitalismus?
Tradition und globale Perspektiven der sozialen Marktwirtschaft, Campus Verlag, Frankfurt/New York,
2006 p. 155 (traduzione nostra)
10
Susanne Lütz, “From Managed to Market Capitalism? German Finance in Transition” MPIfG Discussion
Paper 00/2 p. 7
11
Werner Abelshauser, “Der »Rheinische Kapitalismus« im Kampf der Wirtschaftskulturen“ in Volker R.
Berghahn, Sigurt Vitols (a cura di), op. cit., p. 187
12
Robert Boyer, “How and Why Capitalisms Differ”, MPIfG Discussion Paper 05/4 p. 5
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trattava di economie maggiormente organizzate in cui il mercato giocava un ruolo inferiore
rispetto al sistema anglosassone, esse garantivano maggiore capacità di mobilitazione delle
varie parti sociali e consentivano la programmazione delle attività economiche sul lungo
periodo. Per gli studi sulla comparazione dei capitalismi, infatti, l’efficienza economica era
misurata in termini di complementarietà strategica tra le diversi istituzioni interne a ciascun
sistema. La tesi di fondo era che non esisteva una sola forma di capitalismo in grado di
garantire il successo economico. Con il crollo del regime sovietico il dibattito venne
incentrato su quale fosse la variabile di capitalismo più adatta ad essere introdotta nelle
economie in transizione.
13
A seguito dello sviluppo dell’Information Technology, infatti,
l’economia americana aveva ripreso negli anni ’90 il ruolo di leader dell’economia
mondiale a fronte di un calo nella performance economica di Giappone e Germania.
1.2 Quali prospettive per i diversi modelli di capitalismo? Cenni teorici
Gli approcci comuni all’interno della comparative capitalism literature
Alla base della vasta letteratura sulla comparazione tra capitalismi (comparative capitalism
literature CC) vi sono tre assunti fondamentali accettati dalla maggioranza dei suoi
esponenti.
1. Le economie nazionali si caratterizzano per differenti configurazioni istituzionali
che garantiscono coerenza all’attività economica. Particolare attenzione è rivolta a
come le varie istituzioni contribuiscono al sostegno dello sviluppo di capitali e della
formazione della forza lavoro al fine di renderli disponibili alle imprese.
2. Il secondo punto in comune riguarda lo studio dei vantaggi istituzionali comparati,
differenti forme organizzative possono essere fonte di forza o di debolezza a
seconda del tipo di attività economica cui si riferiscono.
3. Il terzo punto riguarda il legame tra istituzioni e cambiamenti sia interni che esterni
che interessano il sistema. Essi sostengono che anche se i vari sistemi nazionali
vengono sottoposti alle stesse pressioni la risposta a tali stimoli è mediata dalle
istituzioni interne, quindi assumerà forme diverse a seconda delle diverse forme
organizzative.
Nonostante tali punti comuni restano numerose le differenze tra i vari approcci all’interno
della scuola comparatistica. Non c’è ad esempio accordo su quante siano le varie versioni
di capitalismo o su quali forme istituzionali prendere in esame al fine di classificarle. Le
varie teorie forniscono, inoltre, differenti previsioni circa le trasformazioni economiche ed
istituzionali cui ciascun sistema potrebbe andare incontro.
I due approcci fondamentali all’interno della comparative capitalism literature si rifanno
alla Regulation Theory (RT) e alla Varieties of Capitalism (VOC).
La Regulation Theory
L a Regulation Theory ha le sue radici nella teoria marxista ma ne rifiuta la concezione
secondo cui il capitalismo rappresenti una forma di organizzazione economica omogenea
assumendo il concetto di varietà dei modelli nazionali. Pur assumendo che
13
Gregory Jackson, Richard Deeg, “How Many Varieties of Capitalism? Comparing the Comparative
Institutional Analyses of Capitalist Diversity” MPIfG Discussion Paper 06/2 p. 5
___________________________________________________1. Introduzione - 7
l’accumulazione di capitale è l’elemento distintivo dei vari sistemi, all’interno di ciascuno
di essi le relazioni sociali sono strutturate in forme istituzionali diverse.
14
Ogni capitalismo
nazionale è soggetto a periodi di crisi che in determinate situazioni possono assumere
dimensioni tali da far avvicinare il sistema al totale collasso. Le risposte a tali sfide
generano reazioni sia in ambito politico che in ambito sociale e possono condurre alla
nascita di un nuovo modello di accumulazione. Una stessa crisi genera risposte diverse a
seconda del paese che ne viene colpito. Un’eventualità questa non contemplata dalla teoria
marxista. Punto centrale della Regulation Theory è lo studio dell’evoluzione delle varie
forme di capitalismo mettendo in risalto la persistenza delle loro differenze,
15
anche se non
viene tralasciata la ricerca di similitudini tra i processi di aggiustamento economico
all’interno dei vari sistemi capitalistici. Si tratta del concetto di modo di regolazione, vale a
dire: tutti i comportamenti e le procedure individuali e collettive che riproducono le
relazioni sociali di base, dirigono il sistema di crescita e sviluppo e consentono di prendere
quelle decisioni a livello micro che consentono al sistema di svilupparsi. Ciascun modo di
regolazione è caratterizzato dall’interazione di cinque elementi fondamentali:
1. la relazione tra salario e lavoro,
2. la forma di concorrenza,
3. il regime monetario,
4. la configurazione delle relazioni tra stato ed attori economici,
5. il modo in cui l’economia nazionale è inserita nel sistema internazionale.
Un regime produttivo viene definito dal modo in cui è garantita e organizzata la
produttività interna e dal modo in cui è organizzato il mondo del lavoro. Assumere un tale
modello di classificazione potrebbe indurre alla definizione di ogni modello capitalistico
nazionale come un modello a sé stante, vengono perciò adottate delle semplificazioni. Due
capitalismi vengono considerati appartenenti alla stessa categoria se “generano un uguale
processo di aggiustamento economico”.
16
Sono così individuati quattro modelli di
organizzazione capitalista. Il primo riconducibile al modello americano si caratterizza per
la fede nel mercato e nelle autorità indipendenti che hanno il compito di correggere gli
eccessi del mercato e i comportamenti opportunistici dannosi per il sistema nel suo
complesso. Il secondo esempio, una versione moderna del capitalismo paternalistico tipico
del XIX secolo in cui la concentrazione del capitale conduce all’emergere di aziende di
grandi dimensioni, è riscontrabile nel modello coreano e in quello giapponese. Il terzo
modello presuppone un’attiva partecipazione delle parti sociali nella nascita e
nell’organizzazione delle più importanti istituzioni, ad esempio nei sistemi di welfare,
questo è il caso del modello dei paesi scandinavi. Il quarto sistema è il cosiddetto
capitalismo di stato in cui sono le varie istituzioni governative ad apportare gli
aggiustamenti economici necessari al sistema, si tratta del modello tipico dei paesi
dell’Europa continentale.
L’approccio della Varieties of Capitalism
Rispetto alla RT l’approccio della scuola della Varieties of Capitalism è comune ad un
numero maggiore di studiosi. Esso ha acquisito un’importanza sempre maggiore anche
grazie alla pubblicazione nel 1993 del libro di Michel Albert “Capitalism vs. Capitalism”.
14
Gregory Jackson, Richard Deeg, op. cit., p. 10
15
Robert Boyer, (2005) op. cit., p. 6
16
Robert Boyer, (2005) op. cit., p. 14 (traduzione nostra)