IV
La trattazione è suddivisa in quattro capitoli, che rispecchiano l’andamento
cronologico della storia della Comunità Europea, a partire dalle sue origini
nell’immediato dopoguerra. Nel racconto degli eventi che hanno caratterizzato
questa storia, si cerca ad evidenziare come la Comunità, nata da esigenze prettamente
politiche, abbia sostanzialmente fallito l’integrazione politica, mentre il suo successo
è scaturito da una forma d’integrazione economica originale.
Nel primo capitolo, si vedrà come il Trattato di Roma abbia rappresentato una
sorta di generalizzazione del metodo funzionalista monnetiano, basato
sull’integrazione parziale e progressiva di alcuni settori economici strategici. Le
istituzioni comunitarie, da sempre fortemente controllate dai governi nazionali,
costituiscono la sede di una negoziazione permanente in materia di scambi
commerciali e di produzione integrata di beni e servizi. E’ stata questa,
sostanzialmente, la differenza della Comunità rispetto ad altre aree di libero scambio,
quali ad esempio l’EFTA, il NAFTA o il MERCOSUR. Il boom economico degli
anni ’50 e ’60 è stato favorito dall’abolizione dei dazi doganali all’interno della
Comunità, ma, d’altro canto, il Mercato Comune ha posto in evidenza, nei primi anni
’70, l’esigenza di mantenere inalterate le ragioni di scambio. Queste, infatti,
venivano modificate con il mutare dei tassi di cambio monetari. L’interesse della
Gran Bretagna nella Comunità era proprio quello di creare un’area di libero scambio,
senza alcuna integrazione economica, monetaria o, peggio, politica. E’ questo il
motivo del ritardato ingresso del Regno Unito e della sua perpetua ostilità alle
dinamiche integrazioniste nella Comunità. A questi temi è stato dedicato il primo
capitolo.
Il fallimento sistematico di ogni tentativo d’integrazione politica ha comportato,
da un lato, l’egemonia assoluta della NATO in tutta l’Europa Occidentale e, dopo il
crollo del blocco sovietico, anche in Europa Orientale. Dopo la fine della guerra
fredda, ciò ha provocato un grave appiattimento dell’Europa sugli interessi
geopolitici angloamericani. A questo tema sono dedicati un paio di paragrafi nel
terzo capitolo, mentre nel primo capitolo saranno affrontati i tentativi francesi di
creare una difesa europea, emancipata dalla NATO.
D’altro canto, la mancata integrazione politica comporta, oggi, un grave deficit
democratico, poiché la politica monetaria e (in parte) di bilancio, sottratte dalle
competenze degli Stati nazionali, sono state affidate ad organismi politicamente
irresponsabili, ossia alla Commissione Europea, al Consiglio e, soprattutto, ad una
V
Banca Centrale Europea indipendente dal potere politico. Questo deficit è
particolarmente grave perché, come si cercherà di argomentare nell’ultimo capitolo,
l’unione monetaria potrà risultare benefica soltanto con una sostanziale unione
politica. Viceversa, così com’è strutturata oggi, gli svantaggi sembrano essere
maggiori dei vantaggi. A questo tema è dedicato parte del terzo e parte del quarto
capitolo, mentre alla fine del secondo sarà dato risalto al fallimento dell’unico
progetto di riforma della Comunità finalizzato ad un’unione politica non basata
soltanto su un esercito comune e su una comune politica estera. Si tratta del progetto
redatto dal gruppo del federalista Altiero Spinelli, all’interno del primo Parlamento
Europeo eletto a suffragio universale, nel ’79.
Riassumendo, nel secondo capitolo si affronterà il periodo che dalla crisi
petrolifera alla presentazione del Libro Bianco di Delors, passando per i primi
tentativi d’integrazione monetaria (col rapporto Werner e la proposta Triffin), la
stagflazione, la crisi delle teorie keynesiane e l’affermazione del neomonetarismo, il
fallimento del serpente monetario ed il successo dello SME, e la conquista della
stabilità monetaria negli anni ’80. Nel terzo capitolo, ci si occupa del cruciale
passaggio dall’Atto Unico al Trattato di Maastricht, passando per il rapporto Delors e
la fine del blocco sovietico. Si presterà particolare attenzione, inoltre, alla relazione
tra Francia e Germania in questo periodo (e in particolare tra il Cancelliere Kohl ed il
Presidente Mitterand), ritenuta essenziale per spiegare la decisiva accelerazione
verso la moneta unica. Nel quarto capitolo, infine, l’attenzione si concentrerà su
questo rapporto tra Francia e Germania, sui rigorosi parametri di convergenza
imposti dai tedeschi, sul ruolo decisivo svolto dalla Bundesbank, e sul fallito
tentativo di realizzazione di una piccola unione monetaria, fondata sul nocciolo duro
(Kerneuropa) franco – tedesco (che gli italiani hanno ironicamente chiamato
“Framania”).
Le conclusioni di questa riflessione sui pro ed i contro dell’Unione Monetaria
Europea, come già accennato, lasciano più dubbi e perplessità che non convinzioni e
certezze.
1
1. LE ORIGINI DELLA COMUNITA’ EUROPEA.
1.1 I PRODROMI
L’idea Europa, intesa come coordinamento d’iniziative politiche e diplomatiche
volte ad unificare e prevenire le controversie tra i nascenti Stati nazionali, ha le sue
origini ancora nel XIX secolo, e si rafforzò dopo la I Guerra Mondiale. Si affermò
allora, infatti, l’esigenza di una qualche definizione di regolamento internazionale
dei rapporti tra gli Stati sorti in virtù del principio della ”autodeterminazione dei
popoli”. E’ stato questo il criterio, infatti, sulla base del quale nacquero dai Trattati
di Versailles diversi Stati Nazionali.
Dopo la II Guerra Mondiale e con il successivo avvento della guerra fredda,
l’idea Europa divenne più pressante, strettamente connessa alla volontà di
conseguimento di una pace duratura. Per la Francia, seduta al tavolo dei vincitori, si
trattava di recuperare la credibilità ed il prestigio dopo quasi cinque anni di
invasione nazista e dopo la terribile onta di Vichy. In particolare, il problema
francese era quello di limitare la sovranità della Germania, rilanciando le vecchie
rivendicazioni territoriali sulla Renania e sulla Saar, regioni che costituivano la
miniera della siderurgia tedesca e, quindi, anche dell’industria militare. Questi
obiettivi geopolitici francesi trovavano una parziale convergenza con gli interessi
dell’U.R.S.S. che, evidentemente, era particolarmente interessata ad una
frammentazione della parte occidentale della Germania occupata. Viceversa, per gli
angloamericani il problema era il contenimento dell’aggressività di Stalin, o, per
meglio dire, il contenimento entro i confini stabiliti a Yalta dell’area ad economia
pianificata. Per gli Inglesi e per gli Americani la parte occidentale della Germania
doveva costituire, in effetti, la prima linea militare contro la “minaccia bolscevica”.
I rapporti tra gli Alleati vincitori della II Guerra Mondiale si spezzarono
definitivamente nel novembre del ’47, in seguito al fallimento della Conferenza dei
Ministri degli Esteri delle potenze occupanti, tenutasi a Londra, per la definizione
dei Trattati di pace e dei nuovi confini della Germania. Si può considerare questo il
momento in cui formalmente cominciò la guerra fredda, ed in cui la Francia si
dovette allinearsi definitivamente agli Angloamericani, cosa che puntualmente
avvenne nel dicembre ’47. Furono questi eventi che segnarono da un lato la
definitiva riunificazione della Germania Occidentale e la frustrazione della
2
diplomazia francese, e dall’altro il riconoscimento della “cortina di ferro ormai
calata sull’Europa, da Stettino a Trieste”, così come disse Churchill1.
Una delle immediate conseguenze di questo nuovo assetto europeo fu
l’abbandono dell’isolazionismo politico degli U.S.A.. Pochi giorni dopo il blocco di
Berlino Ovest da parte dei sovietici, avvenuto il 20/6/48, il Congresso statunitense
votò, infatti, la celebre risoluzione Vandenbeg che affermava la necessità per gli
U.S.A. di legarsi stabilmente in alleanza militare con l’Europa occidentale. Da
questa risoluzione scaturì l’Alleanza dell’Atlantico del Nord (meglio nota come
NATO). Per contro, nel corso del ’48 crebbe l’aggressività dell’U.R.S.S. stalinista:
il 25 febbraio fu occupata la Cecoslovacchia e, nel medesimo anno, stessa cosa
accadde in Iran e Corea. Tutto ciò contribuì ad accelerare il processo di
riunificazione della Germania Occidentale. Il 28 dicembre del ’48 fu approvato lo
“statuto definitivo della Ruhr”, e il 5 maggio ’49 venne proclamata la Repubblica
Federale Tedesca che, seppur privata di alcuni suoi territori (oltre che, naturalmente,
di tutta la parte orientale controllata dai sovietici), costituiva la parte più importante
della Germania anteguerra, provocando così lo sconforto del gen. De Gaulle che dal
deserto tuonava: ”Il Reich tedesco rinasce, non facciamoci illusioni. Questa politica
è pessima!”2
Dal nuovo assetto postbellico era chiaro che la posizione della Francia risultasse
particolarmente indebolita. La guerra fredda aveva costretto i francesi a rinunciare
alla rivendicazione di riduzione di sovranità territoriale della Germania. Inoltre, la
progressiva decadenza dell’impero coloniale, in particolare dell’Algeria, congiunta
ad una profonda instabilità del quadro politico interno, imponeva alla Francia la
ricerca di un’iniziativa in grado di restituirle il prestigio diplomatico perduto, e la
possibilità di contenere l’eterno rivale tedesco, risorto sotto la forma di Repubblica
Federale. Cosi facendo, si voleva porre rimedio, in particolare, alla questione del
controllo dell’industria siderurgica e del carbone tedesca, quindi al controllo della
Ruhr e della Saar, ritenute il vero arsenale della Germania.
Un’iniziativa di questo tipo trovò l’interesse del primo cancelliere tedesco,
Konrad Adenauer. L’integrazione di un settore strategico dell’industria, infatti,
avrebbe consentito alla Germania di uscire dalla condizione di inferiorità dovuta alla
sua sconfitta; d’altro canto, anche l’alto commissario americano a Bonn, MacCloy,
1
FONTAINE A., Histoire de la guerre froide, II vol., Paris, 1965
2
Ibidem
3
aveva dichiarato il suo assenso all’internazionalizzazione delle risorse in Europa
Occidentale.
1.2 L’INVENZIONE EUROPEA
L’iniziativa volta all’integrazione settoriale del carbone e dell’acciaio tra Francia
e Repubblica Federale Tedesca arrivò nel corso del 1950, ad opera del Ministro
degli Esteri francese Schumann, che riuscì a farla approvare ad un Consiglio dei
Ministri piuttosto scettico. Il successo di questa operazione era dovuto anche allo
stimolo ed alle raccomandazioni del “Congresso d’Europa” tenutosi a L’Aia nel
maggio ’48; tale Congresso, indetto dalle principali personalità politiche del
continente (tra cui si ricordano Churchill, Macmillan, Blum, Mitterand, De Gasperi,
Spinelli, Monnet e Adenauer), invocava l’istituzione di un’assemblea di eletti dai
vari Parlamenti nazionali per l’esame delle implicazioni politiche e giuridiche di
un’eventuale unione o federazione europea.3
L’ideatore dell’iniziativa francese fu Jean Monnet, Commissario al piano del
governo francese. L’idea di Monnet, che fu tradotta dalla celebre dichiarazione di
Schumann del 9 maggio 1950, era costituita da alcune convinzioni di fondo sull’idea
di Comunità europea, che hanno caratterizzato fino ad oggi la storia della CEE. La
prima di queste convinzioni è che il conseguimento di parziali integrazioni politiche,
o anche soltanto economiche, comporterebbe in Europa una pace più duratura. In
particolare, si riteneva che il presupposto di qualsiasi unione europea fosse il
superamento della secolare rivalità tra Francia e Germania. La seconda idea, che
costituisce l’asse portante del pensiero monnetiano, è che, contrariamente a quanto
avvenne nella formazione degli stati nazionali, l’Europa unita si sarebbe fatta
soltanto modificando prima le condizioni economiche e poi (eventualmente) quelle
politiche. In sintesi, quindi, l’idea è che il processo di integrazione è in primo luogo
di tipo economico poiché nasce dalla messa in comune di risorse, prioritariamente
tra Francia e Germania; soltanto subordinatamente a questo si avrà quindi una
progressiva integrazione politica, strumentando la prima verso la seconda. Per
agevolare questo passaggio sarebbero quindi necessarie alcune istituzioni europee,
indipendenti dagli stati membri, in grado di svolgere una funzione demiurgica, ossia
3
CHABOD F., Storia dell’idea di Europa, Bari, 1961
4
di guidare la trasformazione delle relazioni tra gli stati secondo la gradualità segnata
dai Trattati.
Secondo i sostenitori di questa idea, detti funzionalisti, che ancor oggi
caratterizza la concezione europea della Francia e dei paesi mediterranei, “l’unione
europea si raggiungerebbe attraverso successive integrazioni economiche settoriali,
per le quali è necessario che gli stati membri cedano, di volta in volta, porzioni della
loro sovranità alle Istituzioni comunitarie indipendenti. Così operando è inevitabile
che lo sviluppo graduale dell’integrazione di funzioni limitate provochi nel tempo
un eguale processo per settori contigui, condizionanti le funzioni stesse”4. Insomma,
i funzionalisti ritenevano, un po’ idealisticamente, che “l’unità economica
fabbricherà, cristallizzerà un potere politico; si tratta, dunque, in qualche modo, di
una questione di pazienza, di fiducia nella forza naturale delle cose”5.
La dichiarazione d’intenti di Schumann del ’50 trovò la sua concretizzazione nel
Trattato di Parigi dell’8 aprile 1951 sottoscritto da Francia, Repubblica Federale
Tedesca, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, che istituiva la Comunità
europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Di fatto questo trattato, che entrò in
vigore nel luglio del ’52, portò alla realizzazione di una struttura che era ben lungi
dal modello europeo concepito dai federalisti alla Altiero Spinelli. In pratica un
collegio di nove membri nominati dai governi nazionali, detta Alta Autorità, era
delegata a governare sulla politica settoriale del carbone e dell’acciaio, in modo da
prevenire potenziali frizioni nell’area geografica della Ruhr. L’Alta Autorità era
formalmente indipendente ed irresponsabile nei confronti di un’Assemblea
parlamentare, nominata dai Parlamenti nazionali ed avente soltanto funzione
consultiva. In sostanza è verosimile che ciascun membro del collegio fosse
responsabile politicamente nei confronti del rispettivo governo nazionale. Pur
riconoscendo che l’istituzione delegata dagli stati nazionali a gestire una politica
settoriale costituì una grossa novità, sia giuridica sia politica, va detto che ciò
rappresentò un evento meno rivoluzionario di quanto spesso si sia detto con non
poca enfasi. Più che di “cessione di sovranità ad istituzioni comuni” sarebbe
opportuno parlare di “integrazione di politiche nazionali settoriali”, affidata a tecnici
e funzionari delegati dai rispettivi governi nazionali.
4
Ibidem
5
BANQUO, “La via verso Framania”, Limes, n. 2, 1995, pag. 37
5
Le successive organizzazioni istituite coi Trattati di Roma6, sottoscritti dai
medesimi Paesi aderenti alla CECA, rispecchiavano esattamente questa struttura,
fatta salva una sostanziale novità: l’Alta Autorità, rinominata Commissione, veniva
affiancata dal Consiglio dei Ministri degli Stati Europei (sinteticamente chiamato
Consiglio), costituito dai Primi Ministri e dai Ministri degli Esteri di ogni Paese. In
seguito, i Consigli dei Ministri si moltiplicarono in composizioni diverse, in base
alle materie trattate (Agricoltura, Economia, Difesa, ecc.). Entrambe queste
istituzioni avevano competenze sia legislative sia esecutive: alla Commissione
competeva l’esclusiva della proposta legislativa e dell’esecuzione della legislazione,
ma al Consiglio competeva l’approvazione di ogni Atto (Regolamenti, Direttive ed
altre decisioni proposte dalla Commissione). In pratica, la funzione integrativa degli
interessi nazionali restava affidata ai tecnici della Commissione, ma questi erano
sottoposti formalmente al controllo politico del Consiglio, il quale deliberò per un
lungo periodo della storia comunitaria all’unanimità. Il che significa, in altre parole,
che ogni governo nazionale aveva diritto di veto all’interno del Consiglio.7
L’invenzione europea, dunque, non aveva alcun carattere federalista, né
perseguiva, se non indirettamente, alcuna integrazione politica. La Commissione,
unica istituzione formalmente autonoma, era in realtà sottoposta al controllo politico
del Consiglio, e quindi dei governi nazionali. Infine, vi era un’Assemblea non eletta,
bensì nominata dai Parlamenti nazionali, che godeva solamente di potere consultivo,
non vincolante.
1.3 L’EFFIMERO TENTATIVO DELLA COMUNITA’ POLITICA
Si è già visto che l’impulso europeista agli inizi della guerra fredda proveniva
dalla Francia, relegata nella scomoda posizione di “vincitrice anomala”. In
particolare, l’impossibilità di qualsiasi dialogo autonomo con l’Unione Sovietica
dopo il blocco di Berlino del ’48, la restituzione alla Germania della sua sovranità
ed il perdurante impegno in guerre d’oltremare, avevano spinto i francesi a proporre
una progressiva integrazione europea.
In effetti, il governo francese aveva intrapreso nel corso del 1950 un’iniziativa
per il raggiungimento di un’integrazione militare, volta a contenere l’egemonia
americana nell’Europa Occidentale. Visto che la Repubblica Federale Tedesca
6
La Comunità europea dell’Energia Atomica (EURATOM), e la Comunità Economica Europea (CEE).
6
costituiva la prima linea militare dell’Alleanza Atlantica, l’istituzione di un esercito
di difesa comune europeo poteva consentire ai francesi di controllare il riarmo
tedesco e di bilanciare l’egemonia militare americana.8
A questo scopo, il Primo Ministro francese Pleven aveva redatto nel ’50 un
progetto che prevedeva la costituzione di una Comunità Europea di Difesa (CED) a
capo di forze armate comuni, e collegata alle altre istituzioni politiche europee. La
cosa interessante è che questo progetto contemplava anche la creazione di un potere
politico unificato, ossia un esecutivo europeo responsabile di fronte ad
un’Assemblea, eletta a suffragio universale. Tra gli ideatori di questo progetto vi
erano anche i federalisti, col contributo dei funzionalisti Monnet e Spaak. La loro
proposta prevedeva l’introduzione di un articolo nello statuto della CECA che
delegava l’Assemblea parlamentare comunitaria alla redazione di un progetto di
Comunità politica europea, comprendente il piano Pleven (ossia la CED). Nel
marzo del ’53 fu così presentato questo progetto che prevedeva due Assemblee
legislative aventi pari poteri (una Camera eletta a suffragio universale, ed un Senato
nominato dai Parlamenti nazionali), e due esecutivi, uno espressione della Comunità
(il Presidente del Consiglio è nominato dal Senato, ed i Ministri vengono nominati
dal Presidente stesso), e l’altro espressione degli Stati nazionali (Consiglio dei
Ministri degli Stati membri); infine, il progetto prevedeva anche una Corte di
Giustizia ed un Consiglio economico e sociale consultivo.9
Insomma, si trattava di un impianto istituzionale complesso, frutto della
mediazione tra funzionalisti e federalisti, su iniziativa soprattutto francese, che
avrebbe davvero intaccato le prerogative delle sovranità nazionali. Tuttavia, proprio
per questo motivo, le velleità dei promotori finirono per essere frustrate quasi subito,
per l’opposizione unanime dei parlamenti nazionali (compreso quello francese!): nel
mese di agosto del ’54 la bocciatura del progetto da parte dell’Assemblea Nazionale
francese segnò la fine dell’intero progetto, che rappresenta fino ad oggi l’unico
tentativo di realizzazione di una struttura federale europea. Da allora fino al recente
Trattato di Maastricht (e relativa implementazione) ogni istanza europeista in senso
federale è stata schiacciata all’interno di un “funzionalismo episodico e gradualista”,
che ha sempre perseguito integrazioni economiche, parziali e progressive, ritenute
presupposto essenziale alla costituzione di un potere politico europeo.
7
OLIVI B., L’Europa difficile, Il Mulino, Bologna, 1994
8
FONTAINE A., cit., pag. 90
9
OLIVI B., cit., pag. 29-30
7
Il piano Pleven, dunque, rappresentò il primo tentativo da parte francese di
creare, invano, una difesa comune europea in grado di contrastare l’egemonia
militare americana nell’Europa occidentale. Tuttavia, in questa occasione emerse
soprattutto l’indisponibilità degli Stati nazionali a cedere porzioni della loro
sovranità, per motivi di ordine sia politico, sia economico. Sul piano politico tutti gli
stati europei accettarono la supremazia militare degli Stati Uniti in funzione anti-
bolscevica, con la parziale eccezione della Francia, e pertanto mancava una reale
volontà di creare una difesa europea autonoma; d’altro canto, al termine della
seconda guerra mondiale le identità nazionali erano chiaramente ancora molto forti.
Sul piano economico, poi, gli Stati europei stavano conoscendo nel periodo della
ricostruzione un forte sviluppo, legato ad un’intensa industrializzazione di tipo
fordista, destinata quindi alla produzione e consumo di beni durevoli. In questo
contesto gli Stati nazionali europei giocavano un ruolo fondamentale sia come
imprenditori, sia come mediatori sociali. Per tutti questi motivi sinteticamente qui
espressi, gli Stati nazionali costituivano l’asse portante dello sviluppo dei Paesi
europei in questo periodo storico.
1.4 I TRATTATI DI ROMA E LA NASCITA DELLA COMUNITA’
ECONOMICA EUROPEA (CEE)
Il fallimento della Comunità politica europea, in ogni caso, non aveva oscurato
le idee funzionaliste di Monnet e Schumann. Il progetto di integrazione europea di
settori economici strategici non era mai stato abbandonato, in particolare per lo
sfruttamento pacifico dell’energia atomica e, in prospettiva, per la definizione di un
mercato comune. Nel 1955, in occasione della Conferenza dei Ministri degli Esteri
della CECA, fu istituito un comitato intergovernativo col compito di valutare la
possibilità di integrazione di taluni settori dell’economia, alla cui presidenza fu
nominato il belga Spaak. Nel successivo maggio del ’56 il comitato presentò alla
Conferenza dei Ministri, riunitasi a Venezia, due proposte dettagliate: una relativa
all’istituzione di una Comunità europea dell’energia atomica, e l’altra di una
Comunità economica europea finalizzata alla costituzione di un Mercato Comune
Europeo (MEC). Dopo sei mesi circa di serrate trattative presso il castello di Val
Duchesse (Belgio), queste proposte furono tradotte in due Trattati sottoscritti a
8
Roma dai sei Stati membri della CECA nel marzo del ’57: furono così istituite
l’EURATOM e la CEE.
Le nuove organizzazioni nate dai Trattati di Roma rappresentavano la
concretizzazione dei princìpi funzionalisti, mentre non vi era più alcun riferimento a
processi di integrazione politici o federalisti. In particolare, il Trattato della CEE si
configurava come trattato – quadro “in cui il trinomio istituzioni – procedure –
obiettivi prefigurava una struttura di negoziato permanente…”10
L’obiettivo istituzionale dell’EURATOM era il perseguimento di
un’integrazione settoriale della ricerca, dello sviluppo e dell’utilizzo dell’energia
atomica a scopi pacifici. In realtà, così come fu per la CECA, la finalità immediata
era quella di ottenere un controllo reciproco, soprattutto tra Francia e Germania,
delle risorse potenzialmente utilizzabili a fini militari.
La CEE, invece, costituiva concettualmente qualcosa di diverso e originale
rispetto alle due precedenti organizzazioni europee: le sue finalità potremmo
definirle “a più ampio respiro”, nel senso che, dopo le sperimentazioni positive su
carbone, acciaio ed energia atomica, le integrazioni settoriali venivano generalizzate
a tutti i settori come metodo, nell’ambito di un accordo – quadro. Inoltre, tra le
finalità istituzionali della CEE, vi era anche quella della progressiva creazione di un
Mercato Comune Europeo, attraverso la creazione di un’unione doganale. Si trattava
quindi di perseguire, mediante negoziazioni continue e multilaterali, la rimozione di
qualsiasi dazio o altro ostacolo tariffario all’interno dei Paesi della Comunità, e la
creazione di una tariffa unica col resto del mondo. E’ questa la grande novità
rispetto al passato. Generalizzando un metodo, i Paesi fondatori della CEE hanno
definito un percorso comune dandosi un’ampia prospettiva di lunga durata. Nel
Trattato di Roma, infatti, si ipotizzava, non senza un pizzico di utopia, non soltanto
la libera circolazione in Europa di merci, persone, cose e capitali, ma anche una
completa integrazione monetaria, già all’epoca ritenuta presupposto per una
completa integrazione politica.
Dopo il fallimento del progetto CED e della Comunità politica europea, dunque,
l’istituzione della CEE costituiva uno storico rovesciamento dei fini coi mezzi.
Dopo i Trattati di Roma e di Parigi, l’obiettivo degli Stati Europei non era più
l’integrazione politica volta a scongiurare un altro conflitto mondiale tra Francia e
Germania, non più sostenibile, bensì l’integrazione economica, parziale ma
10
Ibidem, pag. 50
9
progressiva. L’integrazione politica fu relegata nello sfondo, subordinata a quella
economica, e comunque sostanzialmente non necessaria, né del tutto auspicabile.
Emerge qui per la prima volta l’idea che l’unità politica europea sia una sorta di
automatismo, di forza naturale che, se necessaria, una volta conseguita l’unità
economica, fisiologicamente si realizzerà.
Nel corso di questa trattazione si tenterà non soltanto di sfatare questo mito
europeo, ma anche di dimostrare che oggi questa idea oggi si sta rivelando dannosa,
sia in termini di sviluppo economico (scarsa crescita del PIL), sia in termini di
protezione sociale (disoccupazione, smantellamento del welfare).
Per il momento va constatato che l’istituzione della CEE in quel contesto storico,
politico ed economico, non soltanto ha consentito di superare un’impasse difficile,
ma soprattutto ha fornito una nuova prospettiva di cooperazione agli Stati europei
occidentali, che soltanto quindici anni prima si scontravano nel più grande conflitto
armato mondiale. La ripresa dopo la guerra ed il successivo “boom economico”
favorivano visioni del mondo ottimistiche. Agli occhi dei fondatori della CEE
l’ipotesi di un’integrazione politica tra gli Stati europei doveva sembrare un
processo lungo ma non impossibile, sia pure subordinatamente all’unità economica.
Tutto ciò accadeva in un periodo di forte industrializzazione di tipo fordista, in cui,
come s’è già detto, lo Stato nazionale in Europa giocava un delicato ruolo
economico e sociale. Inoltre, nel cosiddetto “mondo bipolare” gli Stati nazionali
rivestivano anche un cruciale ruolo strategico – militare; in questo contesto,
l’istituzione della CEE ha contribuito a fornire agli Stati europei un’identità
collettiva alternativa all’egemonia culturale e militare degli U.S.A.
La struttura istituzionale della CEE, come già accennato, prevedeva un esecutivo
caratterizzato da una Commissione avente l’esclusività della proposta, ed un
Consiglio dei Ministri cui spettava il controllo politico delle proposte. Inoltre,
un’Assemblea nominata dai vari Parlamenti nazionali, in comune con la CECA,
deteneva funzioni legislative, ma solo consultive. Insomma si trattava ancora di una
struttura scarsamente europea, sostanzialmente in mano al controllo dei governi
nazionali. La CECA e l’EURATOM, invece, mantennero distinte le loro strutture
(una Commissione ed un Consiglio dei Ministri) fino al ’67, anno in cui vi fu la
cosiddetta “fusione degli esecutivi” con la CEE.11
11
Ibidem
10
1.5 IL PROBLEMA DELLA GRAN BRETAGNA
Tra i fattori che storicamente costituirono un freno alla creazione di una
Comunità europea come soggetto politico autonomo, ci fu un radicale scetticismo da
parte del Regno Unito.
Dopo la II guerra mondiale, ciò che politicamente rimaneva della grandezza del
grande impero inglese era l’alleanza privilegiata con gli Stati Uniti, che consentiva
di mantenere la supremazia nell’ambito del Commowealth. Quest’ultimo
rappresentava l’area della sterlina nelle ex colonie, e raggruppava tutti i Paesi che
dividevano le risorse e l’oro detenuti dalla Banca d’Inghilterra. Inoltre, la Gran
Bretagna riusciva a perpetuare, grazie al Commowealth, le forniture di materie
prime ed a mantenere importanti mercati finali per le proprie industrie.
Per gli inglesi, che non avevano conosciuto l’umiliazione dell’occupazione
nazista, la NATO era necessaria e sufficiente a controllare il riarmo tedesco, ma
soprattutto a difendere l’Europa occidentale dalla “minaccia bolscevica”. Non vi era
alcun motivo, dunque, per cui la Gran Bretagna aderisse ad istituzioni internazionali
nate su iniziativa e nell’interesse dei due principali Paesi continentali. Al contrario,
l’insulare Regno Unito non credeva che le istituzioni comunitarie potessero avere un
grande sviluppo, ed in ogni caso costituivano una minaccia per l’economia inglese.
Verso la fine degli anni ’50, tuttavia, l’atteggiamento inglese nei confronti delle
istituzioni comunitarie cominciò a mutare per diversi motivi. In primo luogo perché
i Paesi del Commowealth stavano fornendo prova di essere sempre più indipendenti,
anche in termini economici; in secondo luogo perché la crisi di Suez nel ’56 aveva
dimostrato che gli interessi inglesi erano destinati a soccombere qualora entrassero
in contrasto con quelli statunitensi; infine perché gli Stati europei continentali erano
effettivamente riusciti a realizzare un progetto seriamente finalizzato alla creazione
di un Mercato Comune. Per questo motivo, in particolare, il Regno Unito aveva
proposto l’istituzione di una zona di libero scambio all’interno degli undici Paesi
dell’OECE12, nel febbraio del ’57, proprio mentre erano in svolgimento a Val
Duchesse i negoziati sui Trattati istitutivi della CEE e dell’EURATOM. L’iniziativa,
naturalmente, mirava a scongiurare la creazione del Mercato Comune nell’Europa
12
Organizzazione Europea per la Cooperazione economica. L’organizzazione aveva il compito
di gestire la ridistribuzione degli aiuti americani. Ne facevano parte Gran Bretagna, Irlanda,
Danimarca, Norvegia e Austria, oltre ai sei Paesi della CEE.
11
continentale. La proposta cadde inevitabilmente nel vuoto, ma nel novembre del ’58
gli Inglesi presentarono un’iniziativa che prevedeva la creazione della zona di libero
scambio, ma senza negare l’esistenza della CEE. Anche questa iniziativa, però, fu
seccamente respinta dal generale francese De Gaulle, salito al potere da pochi mesi,
e dal cancelliere tedesco Adenauer. Furono queste le prime vicende in cui la Gran
Bretagna si occupò della Comunità europea. Convinti di possedere una superiorità
diplomatica ormai perduta, i britannici avevano sdegnosamente snobbato fino allora
la politica comunitaria dei Paesi continentali. Soltanto dopo l’istituzione della CEE e
dopo il doppio rifiuto di costituzione di una zona di libero scambio tra i Paesi
dell’OECE, essi furono costretti a reagire tardivamente a processi ormai avviati e
consolidati sul continente. A questo scopo essi sottoscrissero l’EFTA13 con gli Stati
europei non aderenti alla CEE, con l’obiettivo di esercitare una certa pressione sui
Paesi della CEE, e di indurli così a rinegoziare i Trattati di Roma. Ma, come si vedrà
in seguito, l’insufficienza del peso politico ed economico della zona di libero
scambio, nel 1961 indusse la Gran Bretagna a chiedere ai Paesi della CEE l’apertura
di negoziati per una sua eventuale adesione.14
1.6 LA PRIMA POLITICA GOLLISTA IN EUROPA.
Dopo una lunga crisi politica15 ed il disfacimento dell’impero coloniale, agli
inizi del ’58 la IV Repubblica francese crollò a causa dello scoppio di una violenta
insurrezione militare nella colonia algerina. In questa fase caotica, il Presidente della
Repubblica Réné Coty chiamò al governo il generale De Gaulle, cui l’Assemblea
Nazionale concesse poteri speciali per quattro mesi. Al termine dei quattro mesi i
collaboratori di De Gaulle redassero una nuova Costituzione che fu approvata con
un referendum da circa due terzi dei francesi. Alla fine del ’58, infine, l’Assemblea
Nazionale elesse a Presidente della Repubblica il generale De Gaulle.
Considerato una sorta di “padre della patria” per aver organizzato la resistenza
da Londra durante l’occupazione nazista, De Gaulle si ritirò dalla vita politica nel
’47, dopo l’approvazione, di misura, della Costituzione della IV Repubblica,
mediante referendum (un primo referendum aveva bocciato una Costituzione quasi
identica pochi mesi prima). Egli sosteneva, infatti, che il modello parlamentare
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European Free Trade Association, ossia Associazione europea per il libero scambio. Ne facevano parte Austria,
Svizzera, Irlanda, Gran Bretagna, Danimarca, Svezia e Norvegia.
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LAMBERT J., Britain in a Federal Europe, London, 1968
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proposto da quella Costituzione avrebbe riprodotto la corruzione e la paralisi
politica della III Repubblica, a causa dei continui veti incrociati tra i partiti.
La sua ascesa al potere rappresentò una frattura forte nella storia della Francia.
Dopo oltre ottant’anni finiva un modello di governo parlamentare la cui lunga durata
era dovuta soprattutto al ricordo traumatico dei tre precedenti storici nella storia
post-rivoluzionaria francese, in cui fu preso il potere con la forza (Napoleone I°, suo
nipote Napoleone III, e la terribile Repubblica di Vichy). Per questo motivo ogni
ipotesi di Repubblica presidenziale fu sistematicamente respinta, soprattutto nel
dopoguerra. 16
La Costituzione gollista della V Repubblica, tuttora in vigore, prevede che il
Presidente della Repubblica sia il perno del sistema istituzionale. A lui compete:
nominare il Primo Ministro e, di concerto con questo, anche i Ministri; egli può
sciogliere una volta l’anno l’Assemblea Nazionale se lo ritiene politicamente
opportuno; è a capo delle forze armate; può indire referendum su temi ritenuti
particolarmente importanti. Inoltre, al Presidente compete un domain reservé,
costituito dagli Affari Esteri e dalla Difesa, di sua esclusiva pertinenza.
L’Assemblea Nazionale può sfiduciare il Governo con una mozione di censura, ma
all’atto di nomina da parte del Presidente il governo possiede già la fiducia
implicita. Infine, a partire dal ’62 il Presidente è eletto a suffragio universale ed il
suo mandato ha durata pari a sette anni.17
L’ascesa del gen. De Gaulle al potere con questa sorta di “colpo di Stato bianco”
ha rappresentato un forte trauma non soltanto per la Francia, ma anche per l’Europa
intera. La CEE non aveva neanche un anno di vita e già si temeva per la sua
esistenza, anche se De Gaulle decise opportunamente di sottoscrivere i Trattati di
Roma. La sua posizione assai critica nei confronti del funzionalismo monnetiano era
tuttavia nota. In effetti, egli accettò i Trattati fondamentalmente per due motivi: per
aprire ai mercati europei la distribuzione dei prodotti agricoli francesi, e per
rilanciare la vecchia idea della Comunità di difesa, finalizzata a contrastare
l’egemonia militare americana in Europa.
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Nel corso degli 11 anni della IV Repubblica la durata media di un governo era di sei mesi circa.
16
La IV Repubblica francese, le cui principali forze politiche erano la SFIO (Partito Socialista), il PCF (Partito
Comunista) e MPR (cattolici), prevedeva un modello parlamentare sostanzialmente analogo a quello della III
Repubblica. Durante la guerra, la traumatica esperienza della Repubblica di Vichy, una sorta di fantoccio nazista retto
dal generale Pétain, aveva provocato il rifiuto del modello gollista nel ’47, sia da parte dei cittadini, sia da parte della
classe politica.
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RUDELLE O., Mai 1958. De Gaulle et la République, Paris, Plon, 1988