CAPITOLO I
Potere dire?vo dell’imprenditore in merito ai contenu?
dell’a⼰ità lavora?va
1.1 Concetti di mansione, qualifica e categoria
All’inizio della nostra trattazione appare necessario individuare e definire l’oggetto
specifico dell’attività lavorativa, ossia le mansioni e gli istituti ad esse strettamente
connessi: le qualifiche e le categorie.
Il conferimento della prestazione lavorativa nell’impresa attraverso l’esplicazione di
specifici compiti, attività ed incarichi professionali, riassumibili nel termine “mansioni”,
è caratterizzato dal principio della contrattualità.
È infatti necessario l’accordo bilaterale in ordine all’oggetto della prestazione, per la cui
fruizione da parte del datore di lavoro viene ad instaurarsi lo specifico contratto di
scambio, caratterizzato corrispettivamente da retribuzione e diritti normativi per il
lavoratore.
Il principio contrattualistico in ordine all’oggetto della prestazione trova la sua
codificazione legale nell’art. 96 delle disposizioni attuative del c.c., il quale prevede,
all’atto della costituzione del rapporto di lavoro, che il datore di lavoro debba far
conoscere al prestatore la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate in
relazione alle mansioni per le quali viene assunto.
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Di fatto, a fronte dell’interesse legislativamente riconosciuto per il lavoratore alla
specificazione delle mansioni, corrisponde un diverso “interesse alla genericità” delle
stesse da parte del datore di lavoro, per ragioni di agevole e flessibile gestione della
forza lavoro (
1
); non a caso è frequente l’ipotesi di assunzioni con la sola precisazione
formale della categoria e della qualifica generica, senza individuazione della qualifica in
senso tecnico, al fine di poter utilizzare il lavoratore, a seconda delle necessità, in
mansioni promiscue, caratterizzate da plurifunzionalità o polivalenza, o di volta in volta
diverse, seppur ricomprese nell’ambito della stessa qualifica generica.
In particolare, le mansioni indicano l’attività lavorativa dedotta in obbligazione.
Esse costituiscono l’oggetto della prestazione dovuta, individuando l’insieme dei
compiti che il lavoratore può essere chiamato a svolgere e che possono essere pretesi
dallo stesso.
Sul piano organizzativo corrispondono alle posizioni di lavoro in cui l’imprenditore
articola e scompone l’attività produttiva; la mansione è considerata l’unità elementare di
un “facere” (
2
) , che combinata in modo tendenzialmente stabile con altre singole
operazioni, da vita ad un insieme tipico e unitario di compiti configurando un
determinato tipo di attività o modello di prestazione (
3
) .
Le mansioni di assunzione altro non sono che una variante terminologica di attività
convenuta (
4
).
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1
M.Meucci, Mansioni, studio, tempo libero dei lavoratori, Giuffrè, Milano 1984, p.5
2
G.Giugni, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Jovene, Napoli 1963, p.545
3
C.Pisani, La modificazione delle mansioni, Angeli, Milano 1996, p.140
4
G.Giugni, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Jovene, Napoli 1963, p.7
Esse costituiscono un prius logico per l’inquadramento del lavoratore essendo, le stesse,
presupposto per l’attribuzione della qualifica e per l’inquadramento nella corrispondente
categoria; operazioni indispensabili per stabilire il trattamento normativo e retributivo
spettante al prestatore.
Per quanto concerne la qualifica occorre precisare che la stessa non riguarda un attività
oggettivamente considerata, quanto piuttosto un determinato tipo di lavoratore o profilo
professionale (operaio, impiegato … sono, nella loro espressione letterale, un profilo di
mestiere o di professione e solo indirettamente una descrizione di compiti).
Le qualifiche dei lavoratori sono qualificazioni oggettive della prestazione che
attengono all’attività, al lavoro, ma non al lavoratore.
La qualifica più ancora che come un termine correlativo alle mansioni, emerge come
una variante semantica di queste ultime; il lavoratore ha una qualifica in quanto ha
promesso e svolge un tipo di mansioni, corrispondenti a determinati tratti caratteristici,
che per brevità di linguaggio vengono rappresentati con riferimento ad un lavoratore -
tipo.
Tale rappresentazione potrà avere un carattere specifico (qualifica in senso proprio) e, in
tale veste, valere a designare, in tutto o in parte, la prestazione dovuta; potrà, di contro,
rivestire un carattere più generico, ed in tal caso, sotto il più appropriato termine di
categoria, sarà destinata a svolgere un diverso ruolo.
Infatti è vero che alcune volte, le qualifiche, non sono rappresentative della totalità della
prestazione dovuta, ma costituiscono un mero nomen destinato contingentemente a
rappresentare una funzione che esaurisce ad un dato momento l’attività del lavoratore,
ma, a sua volta, non esaurisce l’intera serie dei compiti esigibili da questi.
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In tal caso la funzione degli elenchi di qualifiche, contenute nei contratti collettivi di
lavoro, è quella di agevolare la sussunzione in ciascuna categoria di mansioni
omogenee, individuando una serie di attività-tipo che, in frequenti ipotesi, potranno
anche succedersi nel tempo, senza che abbia luogo alcuna modificazione dell’oggetto
del contratto.
A queste accezioni (oggettive) di qualifica, se ne contrappone un'altra, che appare
destinata non ad indicare un modo di essere della prestazione, ma una qualità del
soggetto prestatore di lavoro; tale è ciò che la dottrina indica come qualifica soggettiva,
legata all’attitudine o all’esperienza professionale specifica del lavoratore.
Per ciò che, invece, riguarda l’individuazione della qualifica hanno rilievo unicamente
le mansioni svolte dal lavoratore all’interno dell’impresa in maniera stabile e
continuativa; il giudice, quindi, per individuare la qualifica del lavoratore, dovrà:
- accertare di fatto le mansioni effettivamente svolte dal dipendente ;
- individuare la categoria del lavoratore e il livello di inquadramento in cui tale
categoria si colloca nella contrattazione collettiva;
- confrontare il risultato della prima indagine con le declaratorie contrattuali collettive.
Inoltre vengono in soccorso alcuni criteri integrativi: in caso di assegnazione di
mansioni promiscue si dovrà considerare mansione primaria e caratterizzante quella che
viene svolta con maggiore frequenza e ripetitività a tal punto da costituire il contenuto
normale della prestazione; tuttavia si deve considerare anche l’aspetto qualitativo per
cui può anche ritenersi prevalente una mansione esercitata con minor frequenza, ove
richieda un alto grado di specializzazione.
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Infine le qualifiche sono a loro volta raggruppate in entità classificatorie più ampie: le
categorie.
La categoria è un modo di designare effetti giuridici uniformi, un mero espediente di
tecnica contrattuale o di espressione legislativa diretto esclusivamente a permettere
l’individuazione dell’ambito di applicazione di una determinata disciplina, quindi a
stabilire una serie precisa di diritti e obblighi.
Se la qualifica viene ad identificarsi con l’oggetto del contratto, la categoria, invece, pur
avendo in quest’ultimo il termine di riferimento, resta un elemento estrinseco ad esso
(
5
).
1.2 Il potere di variazione delle mansioni (ius variandi) dal vecchio all’attuale testo
dell’art. 2103 c.c.:
Prima di entrare nel merito dell’argomento, esaminiamone le fondamentali premesse.
L’art. 2094 del codice civile definisce prestatore di lavoro subordinato chi “si obbliga
mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro
intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
I caratteri essenziali del rapporto di lavoro subordinato sono, quindi, la “collaborazione”
e la “subordinazione”.
Il primo è quel vincolo che lega un soggetto a partecipare fattivamente, anche se in
vario modo, all’attività lavorativa di un altro soggetto; nel rapporto di lavoro
subordinato, l’intensità di questo vincolo è particolarmente intensa, tanto da
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5
G.Giugni, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Jovene, Napoli 1963, p.41
caratterizzarsi per la continuità con cui il lavoratore mette a disposizione del datore di
lavoro le sue energie e le sue capacità, inserendosi armonicamente all’interno
dell’organizzazione produttiva.
Il secondo è quel vincolo in base al quale spetta al datore di lavoro e, in sue vece, ai suoi
collaboratori, il potere di impartire direttive e disposizioni tecnico-organizzative che si
reputino idonee a migliorare la produttività dell’impresa anche mediante decisioni
modificative delle prestazioni dei singoli.
Il datore di lavoro è, dunque, titolare di poteri giuridici in senso proprio, riconosciutigli
dall’ordinamento nella sua qualità di creditore di lavoro subordinato, l’esercizio dei
quali incide sulla sfera giuridica del lavoratore debitore.
Si distinguono così, il potere direttivo, per conformare la prestazione lavorativa alle
esigenze dell’organizzazione, il potere di controllo, per verificare l’esatto adempimento
degli obblighi del dipendente, ed il potere disciplinare, per punire il lavoratore
inadempiente nei casi consentiti.
Questa facoltà datoriale unilaterale di adibire il prestatore a mansioni diverse rispetto a
quanto convenuto, identifica un potere direttivo comunemente denominato ius
variandi, letteralmente “diritto di variare” e vuole riferirsi, in generale, ad una
variazione potestativa di una situazione o di alcune componenti di essa.
Tale potere risulta giustificato dalle esigenze flessibili dell’organizzazione del lavoro
che spesso, per il loro carattere di eccezionalità, richiedono modifiche non prevedibili e
non arginabili con l’assunzione di altri lavoratori.
Il diritto di variare, però, per quanto di estensione ampia, non può mai essere illimitato,
a rischio, in caso contrario, di pregiudicare situazioni meritevoli di tutela.
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Se poi il diritto di variare incide su profili che riguardano da vicino la personalità
dell’uomo, appare ancor più chiara l’esigenza di stabilire con rigorosità i limiti
all’esercizio del diritto medesimo.
Nel nostro ordinamento il libero esercizio dello jus variandi è vincolato ai limiti imposti
dall’art. 2103 c.c. che contiene il cd. “principio di contrattualità delle mansioni” (tale
disposizione è stata novellata ad opera dell’art. 13 della Legge 300/70).
Il testo originario dell’art. 2103 c.c. recitava: “Il prestatore di lavoro deve essere
adibito alle mansioni per le quali è stato assunto. Tuttavia, se non è convenuto
diversamente, l’imprenditore può, in relazione alle esigenze dell’impresa, adibire il
prestatore di lavoro ad una mansione diversa, purché essa non importi una diminuzione
nella retribuzione o un mutamento sostanziale nella posizione di lui.
Nel caso previsto nel comma precedente il prestatore di lavoro ha diritto al trattamento
corrispondente all’attività svolta, se è a lui più vantaggioso”.
L’art.2103, nella sua formulazione originaria, disciplinava quindi l’assegnazione iniziale
ed il successivo mutamento delle mansioni del prestatore di lavoro.
Per quanto concerne il primo aspetto, si asseriva il principio della contrattualità delle
mansioni; sotto il secondo punto di vista si riconosceva il potere datoriale, lo jus
variandi, di modificare unilateralmente le mansioni nel rispetto di taluni limiti imposti
dal legislatore.
L’esercizio di questi poteri era sottoposto al limite 1) delle “esigenze d’impresa”, a
quello 2) della non mutabilità “della posizione sostanziale del lavoratore” ed a quello 3)
della irriducibilità della retribuzione.
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Troppo generico apparve il limite dell’esigenza d’impresa, tanto da dar vita a
contrapposte interpretazioni dottrinali; poco incisivo apparve anche il secondo limite: la
prevalente dottrina riteneva che si dovesse escludere la sussistenza di una modifica
sostanziale laddove il mutamento avesse rivestito carattere di temporaneità o ci si
trovasse dinanzi a mansioni affini alle precedenti.
Il limite meglio definito era quello della irriducibilità della retribuzione che tuttavia
consentiva l’assegnazione a mansioni inferiori.
Per ciò che invece riguardava l’assegnazione alle mansioni superiori, la norma
prevedeva solo un diritto al corrispondente trattamento economico, se più vantaggioso,
e solo fino a quando il lavoratore non fosse stato adibito nuovamente a mansioni
inferiori.
Insomma, l’originaria formulazione codicistica era chiaramente orientata a riconoscere
la prevalenza delle esigenze aziendali su quelle del prestatore.
Di fatto, prima dell’introduzione dell’art.13 della lg 300/70, l’art.2103 non era riuscito a
porre seri limiti alla discrezionalità dell’imprenditore nell’uso della forza lavoro; la
norma appariva inidonea a tutelare il lavoratore, sia per i mutamenti in peius che per
quelli a mansioni superiori; la scarsa incisività della stessa andava ricercata, innanzi
tutto, nel fatto che i limiti da essa imposti allo ius variandi del datore di lavoro,
riguardavano solo gli spostamenti unilaterali e non quelli avvenuti con il consenso del
lavoratore.
La prassi giurisprudenziale, ignorando la posizione di soggezione del lavoratore, si era
consolidata nel senso di ritenere espressione dell’acquiescenza, dello stesso, il suo
comportamento concludente di esecuzione delle diverse mansioni assegnategli.
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Era da ritenersi ammissibile il mutamento in peius se sostenuto dall’acquiescenza del
lavoratore; ossia, se il lavoratore, di fronte all’assegnazione di mansioni inferiori,
anziché avvalersi della facoltà di recesso, accetta di svolgere le diverse mansioni
richieste, il suo comportamento tacito e non equivoco era da considerarsi pacificamente
aderente alle nuove condizioni configurando un’accettazione tacita riconducibile nello
schema del comportamento concludente ex art. 1362 c.c.
In sostanza, dunque, ”i limiti al potere giuridico del datore di lavoro di modificare con
atto unilaterale l’originario oggetto del contratto di lavoro, desumibili dal 2103 c.c. nella
sua vecchia formulazione, venivano in considerazione per lo spostamento attuato
unilateralmente dall’imprenditore e non per lo spostamento concordato tra le parti,
sempre possibile” (
6
).
Le ampie possibilità lasciate alle determinazioni consensuali, nell’ambito di un
rapporto caratterizzato da notevole disparità di forza contrattuale tra le parti, finivano in
realtà per vanificare l’efficacia di ogni limite allo ius variandi imprenditoriale,
compreso quello della intangibilità della retribuzione (
7
); era evidente come i diritti del
lavoratore soggiacessero agli interessi dell’impresa.
Oltretutto, l’originario art. 2103 c.c. faceva riferimento soltanto alle mansioni di
assunzione e non già alle prime mansioni assegnate; contestualmente l’art. 96 disp. att.
c.c. prescrive che l'imprenditore deve far conoscere al prestatore di lavoro, al momento
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6
G.Suppiej, Mansioni del lavoratore, in Commentario dello statuto dei lavoratori, 1975, p.336
7
F.Liso-M.Rusciano, La revisione della normativa sul rapporto di lavoro, Guida Editore, Napoli 1987,
p.122
dell'assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle
mansioni per cui è stato assunto (principio della contrattualità delle mansioni) e non già
in relazione alle “prime” mansioni che gli vengono assegnate.
Quindi, secondo il combinato disposto dell’originario art. 2103 c.c. e dell’art. 96 cit., al
momento dell’assunzione era già fissato il perimetro della flessibilità possibile senza
limite alcuno: più erano ampie ovvero plurime le mansioni di assunzione e maggiore era
il grado di flessibilità della prestazione lavorativa nel senso che il lavoratore poteva
liberamente essere spostato da una mansione all’altra nel rispetto dell’ambito di
assunzione.
Non era neppure prescritto che le mansioni di assunzione fossero omogenee (dello
stesso livello) o equivalenti.
L’originario art. 2103 c.c., riferendosi alle “mansioni per cui è stato assunto” il
lavoratore, non le qualificava affatto e quindi non poteva farsi riferimento ad una
prescrizione di equivalenza.
Insomma rilevava il fatto che il lavoratore fosse assunto per certe mansioni e non già
con certe mansioni.
Veniva poi ignorata anche la possibilità di progressione di livello.
Era come se – in una visione statica e rigida - il lavoratore, assunto per certe mansioni,
fosse destinato a rimanere ancorato a quelle mansioni senza che si ipotizzasse una
progressione di livello nella vita lavorativa.
Anche se poi una progressione c’era di fatto, la garanzia rimaneva la stessa: quelle delle
mansioni di assunzione e non già quella delle più elevate mansioni assegnate da ultimo.
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Pertanto la progressione di livello, anche se di fatto si fosse verificata, non godeva di
una stabilizzazione garantita perché ciò che era garantito era il mantenimento delle
mansioni di assunzione.
Chi “saliva” nella scala dei livelli – o dei “gradi” secondo la dizione dell’art. 96 disp.
att. c.c.– poteva anche dover “scendere” quella stessa scala, in ragione dell’esercizio
dello jus variandi del datore di lavoro, poiché ciò che era garantito al lavoratore era
unicamente il mantenimento delle mansioni di assunzione.
Non vi era nemmeno una garanzia contro la regressione, sempre che le nuove inferiori
mansioni fossero state corrispondenti a quelle per le quali il lavoratore era stato assunto.
Quando l’originario art. 2103 c.c. parlava di assegnazione di “mansione diversa” e
poneva dei limiti si riferiva alla mansione diversa da quella di assunzione e non già a
quella diversa dalle ultime in concreto assegnate al prestatore.
La “flessibilità” era, perciò, massima.
Quindi, in sintesi, la garanzia era solo quella del mantenimento delle mansioni di
assunzione nell’ambito delle quali l’esercizio dello jus variandi del datore di lavoro era
pieno.
Tale flessibilità “originaria” era tanto maggiore quanto plurime erano le mansioni di
assunzione con conseguente riduzione dell’operatività della garanzia stessa; in altri
termini vi era sì una garanzia a fronte di uno jus variandi che si sostanziasse in un
demansionamento (“mutamento sostanziale della posizione” di lavoro), ma essa da una
parte era dimensionata dalla conformazione delle mansioni di assunzione (più erano
ampie e plurime, minore era la garanzia), d’altra parte era “statica” perché ignorava la
possibile progressione del lavoratore verso mansioni e qualifiche più elevate.
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