7
sanzione, compresa la confisca dei beni. Le uniche eccezioni a questa regola sono previste,
da un lato, per il caso di crimen perduellionis, cioè l'alto tradimento e, dall'altro, per il
suicidio metu criminis, cioè il suicidio commesso al solo scopo di frodare il fisco e di
salvare il patrimonio a favore degli eredi. La confisca dei beni dell'imputato non
rappresenta però una pena contro il suicidio: nel primo caso infatti è una misura giustificata
dalla gravità della fattispecie mentre, nel secondo, rapresenta una conseguenza necessaria
per proteggere il fisco da un tentativo di frode
4
.
Nel secondo secolo d.C. si afferma tuttavia una particolare disciplina per il soldato,
di cui si afferma, più rigorosamente rispetto al tempo della Repubblica, l’appartenenza allo
Stato. Il tentativo di suicidio viene assimilato al tentativo di diserzione e punito con la
cacciata dall’esercito o, addirittura, con la pena capitale, a seconda che il militare riesca o
no a dimostrare che il suo gesto è stato dettato dal teadium vitae o dall’impatentia doloris o
da pazzia
5
.
Una nuova fase nella storia della morte volontaria, caratterizzata questa volta da
una feroce repressione, prende avvio con le modifiche apportate dalla compilazione
giustinianea e, soprattutto, con l’affermarsi della dottrina cristiana che considera il suicidio
un gravissimo peccato contro Dio, in tutto assimilabile all’omicidio
6
. Così, infatti, si
esprime Sant’Agostino nel De Civitate Dei, interpretando il non occides dell’Antico
Testamento:
“Non ucciderai: dunque, né altri, né te stesso: infatti chi uccide se stesso non uccide se
non un uomo”
7
.
4
Cfr. MARRA, op. cit., p. 54-57.
5
Cfr. MARRA, op. cit., p. 41.
6
Cfr. MARRA, op. cit., p. 69.
7
SANT’ AGOSTINO, La città di Dio, 1937, pp. 66-67.
8
Proprio Sant’Agostino esercita d’altra parte un’influenza determinante per
l’orientamento del diritto canonico che, nel VI secolo, dopo un breve periodo di
transizione, va emancipandosi dalle residue influenze del diritto romano e assoggetta il
suicidio a sanzioni rigorose: un capitolo del concilio di Braga nel 563 e un canone del
concilio di Auxerre nel 578, nel disciplinare le esequie dei suicidi, introducono
rispettivamente il divieto di commemorazione e di canto dei salmi e il divieto delle
oblazioni; il concilio di Toledo, nel 693, prevede il diniego di sepoltura cristiana per il
suicida e la scomunica per il tentativo
8
.
Queste prescrizioni che, punendo il suicidio in sé, indipendentemente dai motivi
dell’agente, ne sottolineano la riprovevolezza morale, sono sì espressione della dottrina
cristiana ma, per tutto l’Alto Medioevo almeno, rappresentano sostanzialmente anche il
modello di riferimento per la giustizia laica.
L’autonomia del diritto consuetudinario si manifesta invece nel Basso Medioevo,
attraverso la previsione di misure repressive ulteriori e differenti rispetto a quelle del diritto
canonico, dalle quali si distinguono soprattutto per brutalità e violenza. Le sanzioni
normalmente previste dalle varie consuetudini locali sono di due tipi: misure patrimoniali,
consistenti di regola nella confisca dei beni, e pene corporali inflitte al cadavere del
suicida
9
.
La volontà di eliminare gli eccessi della repressione medievale inizia a manifestarsi
alla fine del XVII secolo: in Francia, un’Ordinanza criminale del 1670 prevede, in
alternativa alle pene corporali, la damnatio memoriae, un processo alla memoria quindi,
anziché al cadavere; particolarmente significativa è pure la previsione di una tutela del
diritto di difesa, grazie alla nomina d’ufficio di un curatore rappresentante del suicida a
8
Cfr. SCLAFANI-GIRAUD-BALBI, Istigazione o aiuto al suicidio, 1997, p. 7.
9
Cfr. MARRA, op. cit., pp. 78-82.
9
tutti gli effetti
10
. Al di là di questi ancora modesti segnali di moderazione, il diritto positivo
in Europa rimane però sostanzialmente immutato rispetto a quello medievale fino alle
soglie della Rivoluzione francese, con riguardo almeno alle sanzioni repressive contro il
suicidio.
Rinnovato risulta, invece, l’interesse e il dibattito culturale intorno alla questione
della liceità del suicidio da un punto di vista sia etico che giuridico
11
. A difesa della morte
volontaria intervengono le voci più autorevoli dell’illuminismo: Montesquieu, nelle Lettres
Persanes, attacca le “loix furieuses” e “injustes” che in tutta Europa reprimono
barbaramente il suicidio, sia perché percepite come offese alla dignità individuale, sia
perché
“la société est fonde sur un avantage mutuel; mais lorsq’elle me devient onéreuse, qui
m’empêche d’y renoncer?”
12
.
Hume afferma che il suicidio non costituisce violazione di alcun dovere, né verso
Dio, né verso la società, poiché altrimenti, se disporre della vita umana fosse prerogativa
esclusiva di Dio, in base al principio di non contraddizione sarebbe altrettanto criminoso
salvare una vita in pericolo
13
.
Beccaria ne sostiene, invece, la non punibilità, evidenziando l’inefficacia politico-
criminale dell’incriminazione del suicidio:
“Chi teme il dolore ubbidisce alle leggi; ma la morte estingue nel corpo tutte le sorgenti.
Quale dunque sarà il motivo che tratterrà la mano disperata del suicida?”.
10
Cfr. MARRA, op. cit., p. 87.
11
Cfr. BERNARDINI, Dal suicidio come crimine al suicidio come malattia, in Materiali per una storia
della cultura giuridica, 1994, p. 81.
12
MONTESQUIEU, Lettere persiane, 1995, LXIV.
13
HUME, Sul suicidio, in Opere filosofiche, III, 1987, p. 585 ss.
10
E ancora:
“Il suicidio è un delitto che sembra non poter ammettere una pena propriamente detta
poiché ella non può cadere che o su gl’innocenti, o su di un corpo freddo ed insensibile.
Se questa non farà alcuna impressione su i viventi, come non lo farebbe lo sferzare una
statua, quella è ingiusta e tirannica, perché la libertà politica degli uomini suppone
necessariamente che le pene siano meramente personali”
14
.
Rousseau, infine, nella Nouvelle Héloïse, si richiama al diritto di natura:
“Chercher son bien et fuir son mal en ce qui n’offense point altrui, c’est le droit de la
nature. Quand notre vie est un mal pour nous, et n’est un ben pour personne, il est donc
permis de s’en délivrer ”
15
.
La diffusione di queste idee crea una vera e propria corrente d’opinione favorevole
ad una diversa qualificazione giuridica del suicidio, cui si uniforma tacitamente anche la
giurisprudenza che evita accuratamente di perseguire i suicidi
16
.
All’orientamento dominante si conforma presto anche la legislazione: il primo atto
in questo senso viene emanato dal giovanissimo Federico II di Hohenzollern, che
depenalizza il suicidio con un editto del 1751, ripreso poi praticamente alla lettera dal
Preussisches Allgemeines Landrecht del 1794
17
; la codificazione Leopoldina del 1786
accoglie le riflessioni del Beccaria ed esclude il suicidio dal novero dei delitti; il 21 gennaio
1790 l’Assemblea nazionale francese approva il noto decreto Guillotin, che non solo
sopprime ogni forma di supplizio sul cadavere, prevedendo la consegna del corpo alla
14
BECCARIA, Dei delitti e delle pene, 1991, XXXII, pp. 93-94.
15
ROUSSEAU, Julie ou La nouvelle Héloïse, lettre XXI, à Milord Edouard, 1960, p. 357.
16
Cfr. MARRA, op. cit., p. 91.
17
Cfr. BERNARDINI, op. cit., p. 94.
11
famiglia e assicurando il diritto ad una sepoltura onorevole, ma elimina anche la confisca
del patrimonio dalla lista delle pene.
Ancora nella Francia rivoluzionaria, però, nel 1793 si assiste a quello che può essere
considerato “l’ultimo e quasi simbolico atto nella storia della repressione del suicidio”
18
: la
Convenzione, infatti, ritornando sostanzialmente ai principi del diritto romano, reintroduce
la devoluzione al fisco del patrimonio degli imputati suicidatisi nel corso del processo; ma
già l’anno successivo è la Convenzione stessa a tornare sui suoi passi e a disporre la
restituzione alle famiglie dei beni nel frattempo confiscati.
Da questo momento in poi la punizione della morte volontaria va progressivamente
scomparendo dagli ordinamenti penali occidentali e con essa, sia i macabri e crudeli rituali
sul corpo del suicida, sia l’applicazione delle sanzioni della confisca dei beni e dell’infamia
alla famiglia superstite, ormai considerate contrarie al nuovo principio della personalità
della responsabilità penale
19
.
In Italia, l’art. 585 del Codice Albertino del 1839 prevede :
“Chiunque volontariamente si darà la morte, è considerato dalla legge come vile, ed
incorso nella privazione dei diritti civili, ed in conseguenza, le disposizioni di ultima
volontà che avesse fatte, saranno nulle e di niun effetto: sarà, inoltre, il medesimo
privato degli onori funebri di qualunque sorta. Il colpevole di tentativo di suicidio,
quando l’effetto ne sia mancato, non per ispontaneo suo pentimento, ma per circostanze
indipendenti dalla sua volontà, sarà condotto in luogo di sicura custodia, e tenuto sotto
rigorosa ispezione da uno a tre anni”
20
.
La depenalizzazione del suicidio si realizza compiutamente solo quando il Codice
Penale del Regno di Sardegna del 1859 viene esteso, nel corso degli anni sessanta, a quasi
18
MARRA, op. cit., p. 92.
19
Cfr. MARRA, op. cit., pp. 93-94.
20
Cfr. SCLAFANI-GIRAUD-BALBI, op. cit., p. 12.
12
tutto il Regno d’Italia, con la sola esclusione della Toscana, dove il codice penale del 1853,
già privo, comunque, di norme incriminatrici del suicidio, rimane in vigore fino al codice
Zanardelli del 1889.
Le ultime eccezioni alla liceità giuridica della morte volontaria sono il codice russo
del 1866 e le disposizioni del diritto inglese e del codice dello Stato di New York del 1881,
che puniscono il tentato suicidio. Il codice russo viene però sostituito già nel 1903 e quello
di New York poco dopo, nel 1919. Si deve invece aspettare il Suicide Act del 1961 perché
si depenalizzi il tentato suicidio in Inghilterra e si possa, quindi, affermare che:
“tutti i paesi civili hanno cancellato la morte volontaria dalla lista dei delitti; questo
processo è chiaramente irreversibile, nonostante talune voci si sollevino ancora a tentare
di recuperare dignità e giustificazioni ad un passato di repressione superstiziosa e
brutale”
21
.
21
MARRA, op. cit., p. 95.
13
2. I precedenti legislativi dell’art. 580 c.p.
La punizione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio altrui, come fattispecie
autonoma, si va affermando nel diritto penale moderno quasi contemporaneamente alla
depenalizzazione del suicidio e del tentato suicidio. Il primo esempio di norma
incriminatrice di condotte accessorie ad un suicidio altrui è costituito infatti dal § 834
dell’Allgemeines Landrecht prussiano del 1794 e, a partire dalla seconda metà
dell’ottocento, molti altri ordinamenti penali introducono progressivamente fattispecie
analoghe.
La previsione di un'autonoma figura di reato rappresenta l'unica soluzione per
colpire condotte di partecipazione all'altrui suicidio che, per la loro peculiare natura
accessoria, senza un'espressa incriminazione rimarrebbero impunite.
Infatti, una volta affermata la liceità giuridica del suicidio, come osserva
lucidamente Carrara,
“coloro che o per malignità, o per interesse, o per malintesa misericordia davano aiuto al
suicidio nell’opera disperata, non più venivano a cadere sotto la generale nozione di
complicità, né sotto le relative sanzioni penali”
22
.
Da qui "la necessità che la moderna scuola creasse un nuovo titolo di reato, cioè il
titolo speciale di partecipazione all'altrui suicidio"
23
.
Questo orientamento, accolto già dal codice del Granducato di Toscana del 1853,
che all’art. 314 punisce chiunque partecipi all’altrui suicidio con la casa di forza da tre a
sette anni, viene recepito dal codice Zanardelli del 1889 che, all’art. 370, stabilisce:
22
CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, parte speciale, 1924, § 1157-1158.
23
CARRARA, op. cit., § 1157.
14
“Chiunque determina altri al suicidio o gli presta aiuto è punito, ove il suicidio sia
avvenuto, con la reclusione da tre a nove anni”
24
.
In realtà, l’orientamento seguito dal codice non è sempre condiviso dalla dottrina
che, anzi, durante i lavori preparatori manifesta opinioni profondamente diverse.
Da una parte c’è chi, come Pessina, ritiene che la partecipazione al suicidio altrui
debba essere punita come un omicidio volontario e propone quindi la soppressione
dell'articolo. Tale tesi si fonda sull'affermazione in termini assoluti del principio
dell'indisponibilità della vita e sulla irrilevanza della volontà e del consenso del soggetto
titolare del bene; alla luce di queste premesse, sfuma la differenza tra l'istigazione al
suicidio e l'omicidio del consenziente e, dunque, "come per questo fatto il progetto non
creò un titolo speciale di reato, ma lo considerò quale un omicidio comune, così non deve
crearne uno per il partecipe al fatto suicida"
25
.
Dalla parte opposta c’è invece chi, come Ferri, prende posizione a favore del
riconoscimento del diritto di disporre della propria vita e afferma il diritto di suicidarsi,
così come quello di farsi uccidere, purché però l'agente che partecipa al suicidio o uccide
con il consenso della vittima sia mosso da motivi che non hanno nulla di antisociale. Ferri
rifiuta la concezione dominante che considera la vita di ogni individuo un bene assoluto e
intangibile, tutelato penalmente in quanto diritto non solo personale, ma anche sociale: ad
avviso dell’Autore, infatti,
"la società, finché l'uomo vive e vive in essa e sotto la sua protezione, ha diritto di esigere
da lui il rispetto dei diritti sociali, com'essa ha il dovere di rispettare i diritti individuali
24
Cfr. SCLAFANI-GIRAUD-BALBI, op. cit., pp. 15-17. La scelta politico-criminale del codice toscano
non viene seguita invece dal Codice Penale del Regno di Sardegna del 1859, che rimane privo di disposizioni
riguardo il suicidio.
25
PESSINA, Elementi di diritto penale, II, Napoli, 1882, p. 16.
15
(…) ma la società non ha diritto d'imporre all'uomo l'obbligo giuridico di esistere o di
rimanere in essa"
26
.
Sia per il fatto di istigazione o aiuto al suicidio, sia per il fatto di omicidio del
consenziente, Ferri dunque subordina la punibilità dell’agente alla valutazione della qualità
dei motivi determinanti l’azione: nel caso di motivi legittimi, sociali, come la pietà o
l’amicizia, qualsiasi disposizione repressiva dovrebbe considerarsi inutile ed ingiusta
27
.
Nel codice del 1889 prevale però l’insegnamento di Carrara che sottolinea, invece,
l'importanza di una precisa distinzione tra le due fattispecie:
“L’uccisore del consenziente è il vero e proprio autore della uccisione ed autore
volontario, a differenza di chi aiuta al suicidio altrui; il quale non fa che degli atti
preparatori”
28
.
Lo stesso Zanardelli chiarisce, nella Relazione al Progetto, le ragioni della scelta
codicistica di distinguere in modo radicale il fatto dell’omicidio del consenziente da quello
di chi istiga o aiuta il suicidio altrui: in primo luogo perché, mentre nel primo caso l’opera
principale è compiuta dal terzo, nel secondo caso, invece, questi presta al suicida soltanto
“un incentivo” o “un’assistenza sussidiaria”; in secondo luogo, perché l’indisponibilità del
bene supremo della vita rende il consenso del tutto irrilevante e, di conseguenza,
l’omicidio del consenziente non è altro che una tipica ipotesi di omicidio volontario
29
.
26
FERRI, L'omicidio-suicidio: responsabilità giuridica, in appendice a L'omicida nella psicologia e
nella psicopatologia criminale, 5ª ed., 1925, p. 500 ss.
27
Cfr. FERRI, op. cit, p. 565. Per un recente riesame del suo pensiero vd. CADOPPI, Una polemica fin
de siècle sul "dovere di vivere": Enrico Ferri e la teoria dell'omicidio-suicidio, in Vivere: diritto o dovere?
Riflessioni sull'eutanasia, a cura di Stortoni, Trento, 1992, p. 125 ss.
28
CARRARA, op. cit., §§ 1157-1158.
29
Progetto del codice per il Regno d’Italia preceduto dalla Relazione ministeriale presentata alla
Camera dei Deputati nella tornata del 22 novembre 1887 del Ministro di grazia e Giustizia e dei Culti
Zanardelli, 1888, p. 531 ss.