PREMESSA
Per impostare l’indagine sui procedimenti speciali, e sul
procedimento per decreto penale di condanna in particolare,
presenti nel codice di procedura penale del 1988, è necessario fare
un chiarimento preliminare: se è vero che il nuovo processo penale
nasce all’insegna del dibattimento (
1
), è altresì vero che il buon
funzionamento di questo nuovo modello dipende dalla frequenza
con la quale si fa effettivamente ricorso ai giudizi speciali (
2
). I
procedimenti in parola determinano una sostanziale abbreviazione
della sua durata (
3
), impedendo la congestione della macchina
giudiziaria per mezzo della definizione anticipata del processo. La
rapida conclusione del giudizio penale (obiettivo perseguito con
determinazione dal nostro ordinamento, come dimostra la modifica
costituzionale dell’art. 111 Cost. e l’introduzione del principio della
ragionevole durata, come accade d'altronde in altri Paesi, come gli
Stati Uniti d’America
4
), passa dunque attraverso la percezione
dell’importanza dei riti differenziati quali strumenti di
semplificazione processuale alternativi al modello procedimentale
ordinario. Per qualche aspetto le soluzioni escogitate richiamano
alcuni istituti propri dei paesi anglosassoni. Il giudizio abbreviato
ricorda, per esempio, la facoltà che nell’ordinamento inglese è
5 1 I lavori preparatori della prima legge delega coniugavano una precisa equazione: il
processo è il dibattimento, quasi ad esaltare il significato accusatorio di questo nuovo
rito (Selvaggi, Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino 1990).
2 In questo senso Paolozzi, I procedimenti speciali, 1989.
3 In proposito si ricordano le parole dell’onorevole Casini in sede di approvazione della
legge delega: “Il nuovo processo funzionerà se riusciremo a far pervenire al
dibattimento soltanto una piccola parte dei contenziosi” (10 luglio 1984).
4 Il VI Emendamento della Costituzione federale degli Stati Uniti d’America prevede,
infatti, il diritto per l’accusato di essere giudicato sollecitamente e pubblicamente da
una giuria imparziale dello Stato e del distretto in cui il reato è stato commesso.
riconosciuta all’imputato di optare per il magistrate rinunciando
quindi al processi davanti alla Crown court. L’applicazione della
pena su richiesta, invece, sembra invece voler modellare il plea
bargaining americano.
I riti speciali delineati dal nuovo codice di processuale, lungi da
risultare marginali, si collocano al centro del rito ordinario
5
. Le
indicazioni che si ricavano sia dalla legge delega per l’emanazione
del codice di procedura penale, sia dalla legge Carotti, sono nel
senso di potenziare al massimo il procedimento monitorio, una
tendenza questa, che è rintracciabile per esempio nella possibilità di
accedere al rito in esame anche in caso di reati procedibili a
querela. Le innovazioni introdotte hanno la funzione di stimolare
l’acquiescenza dell’imputato alla condanna emessa con decreto. Si
tratta di innovazioni mutuate dal patteggiamento ed esprimono con
vigore l’obiettivo di fare in modo che tutti i vantaggi di questo
siano riscontrabili anche nel rito monitorio.
L’esame del decreto penale di condanna non può non fare
riferimento, inoltre, alle problematiche sottese all’esercizio del
diritto di difesa. È evidente che le esigenze di deflazione del
dibattimento e di economia processuale non possono assolutamente
ritenersi prevalenti rispetto a quello di giustizia sostanziale e di
trasparenza nell’amministrazione della giustizia, e tale assunto è
facilmente sostenibile attraverso una critica razionale delle sentenze
della Corte Costituzionale, secondo cui il rinvio del diritto di difesa
alla sola fase dell’opposizione non viola l’articolo 24 della Carta
Costituzionale “quando trovi giustificazione nella struttura
6 5 “Anche se nel dibattimento sulla proposta Carotti non ha attirato l’attenzione degli
operatori della giustizia, non può ritenersi che la riforma del procedimento per decreto
penale di condanna prospetti aspetti marginali” (Conso, Profili del nuovo codice di
procedura penale, Padova 1996).
particolare e si armonizzi con le esigenze che regolano le diverse
forme del procedimento”.
In altre parole l’opposizione è condizione necessaria ma non già
sufficiente affinché il diritto di difesa sia veramente sancito e
tutelato nel procedimento monitorio, evidenziando, in particolare,
che non è dato intravedere un solo elemento che ci porti a ritenere
che il decreto penale di condanna contenga elementi che facciano,
anche in maniera minima, riferimento al suddetto diritto.
7
CAPITOLO PRIMO
Sintesi storica ed evoluzione legislativa dei riti
alternativi
1. Dal modello inquisitorio al modello accusatorio.
Storicamente, il dato filosofico che ha connotato il sistema
penale italiano è conferito dall’idea di “verità” di volta in
volta recepita dal modello processuale di riferimento. Da
questo punto di vista, il fine ultimo della ricerca della verità ha
rappresentato l’ideologia fondante della codificazione
napoleonica; la quale, quanto al processo penale, ha realizzato
una restaurazione inquisitoria dando corso, nonostante le idee
della Rivoluzione, ad un processo inteso come ricerca della
verità materiale; ed influenzando tutte le codificazioni italiane
anteriori alla Costituzione del 1948. In esse l’ideologia
euristica si è tradotta in un incondizionato affidamento al
giudice della responsabilità dell’accertamento probatorio in
quanto unico tutore della realizzazione delle garanzie
processuali. Emblematiche , al riguardo, sono diverse
disposizioni contenute nel codice del 1930, tra cui l’art. 299
che imponeva al giudice istruttore “l’accertamento della
verità”; l’art. 391 che gli affidava il compito di raccogliere gli
elementi di prova; nonché quegli articoli che, attribuendo i
medesimi poteri anche al pubblico ministero e alla polizia
giudiziaria, frantumavano il procedimento probatorio,
ritenendolo essenziale e valido a prescindere dal
contraddittorio e dalla presenza dell’indagato o imputato. Per
8
altro, la funzione stessa di quel processo necessariamente
relegava la difesa ad un ruolo subalterno, dal momento che
l’accertamento probatorio era l’avvenimento istruttorio
affidato al giudice. Infatti è noto che, per i reati di competenza
del tribunale e della corte d’assise, quel codice prevedeva una
prima fase durante la quale l’organo procedente aveva il
dovere di compiere, senza l’intervento della difesa, tutti gli atti
che in base allo svolgimento delle indagini fossero necessari
per l’accertamento della verità; ed una seconda fase in cui gli
elementi di prova che erano stati acquisiti in segreto dovevano
invece essere analizzati nel contraddittorio tra le parti. In
questo secondo momento le difese non potevano però certo
condizionare la formazione del materiale probatorio, che si era
ormai definitivamente prodotto, ma potevano soltanto proporre
una valutazione dello stesso conforme agli interessi della
parte. All’interno del richiamato contesto normativo, dunque,i
paradigmi della “negozialità”, ovvero tutti quei congegni
processuali incentrati sull’attivazione volontaristica delle parti
o sul consenso unilateralmente espresso da una soltanto di
esse, erano riferibili a limitati ambiti. Cosicché venivano
individuati spazi di interferenza di pubblico ministero e
imputato con riguardo ai tradizionali canoni obiettivi della
giurisdizione, quali l’imparzialità dell’organo giudicante e la
generale inderogabilità delle competenze (
6
). Esigui spazi di
influenza sembravano poi residuare alle parti nella disciplina
del procedimento probatorio tutte le volte in cui la legge
9 6 Infatti, era concessa alle parti l’insindacabile opzione di presentare istanza di
ricusazione tutte le volte in cui difettasse l’astensione del giudice ricusabile (per
incompatibilità degli atti compiuti nello stesso processo ex art. 61 c.p.p. abr.; nonché per
rapporti di parentela o affinità tra giudici che esercitano le loro funzioni nello stesso
processo ex art. 62 c.p.p. abr.).
sanzionava con la nullità l’inosservanza di talune prescrizioni
concernenti il procedimento acquisitivo della prova. In tali casi
infatti l’utilizzabilità probatoria del dato istruttorio
invalidamente costituito sarebbe stata possibile a seconda che
la parte investita del potere di eccepire la nullità lo avesse fatto
oppure no (
7
). Inoltre, già sotto la vigenza del codice di
procedura penale abrogato era ricavabile una forma di
procedura consensuale, come il procedimento per decreto, il
quale richiedeva l’adesione dell’imputato alla irrogazione della
sanzione pecuniaria, agevolando in tal modo una rapida
definizione del processo a fini di economia processuale. Infine,
il sistema delle impugnazioni attribuiva in via esclusiva alle
parti il potere di instaurare i gradi di giudizio successivi al
primo e di delimitarne l’oggetto, mentre il giudice rimaneva
titolare di limitati poteri officiosi in tema di nullità e
declaratoria di non punibilità ex art. 152 c.p.p. 1930.
Il codice del 1930 ha dunque aperto lo spiraglio
all’individuazione di apparati negoziali inscrivibili nella
10
7 Sempre in ambito probatorio ai sensi dell’art. 462 c.p.p. 1930 “il potere del giudice di
ordinare la lettura delle disposizioni istruttorie era subordinato al consenso del pubblico
ministero e delle parti private al fine di scongiurare che la deroga alla oralità del
giudizio dibattimentale pregiudicasse i loro interessi” ( Ferrua, Oralità del giudizio e
letture di deposizioni testimoniali, Milano 1981).
categoria dei “negozi processuali” (
8
), sebbene le prerogative
volontaristiche del codice abrogato siano state mitigate dalla
indisponibilità della giurisdizione: dunque alla sostanziale
estraneità delle parti all’accertamento e alla presenza
dominante e autosufficiente dell’organo giudicante. Quale
espressione di una concezione autoritaria del ruolo e delle
funzioni della giustizia penale, il previgente sistema
processuale si fondava sul postulato che i fatti di cui
quest’ultima si occupa potessero essere meglio conosciuti
concentrando nella sola figura del giudice i poteri d’iniziativa,
d’investigazione, di coercizione e di decisione. Ne risultava
quindi un corrispondente ruolo di secondo ordine per il titolare
dell’accusa (
9
) e per l’imputato.
È certo che l’avvento della Costituzione alla fine degli anni
’40 mise in crisi la filosofia del codice inquisitorio e, con essa,
le strutture adottate nel 1930, introducendo quei valori
democratici che avrebbero dovuto ispirare il processo penale.
Si cominciò a riflettere sulla funzione del processo e sulla
necessità di modificare le strutture per la realizzazione dei
11
8 È bene considerare gli aspetti strutturali dell’istituto, partendo da un’analisi civilistica
del negozio giuridico. Prescindendo dalle varie nozioni che in dottrina si sono sempre
succedute, è indubbio che uno degli elementi più significativi del negozio è la
volontarietà degli effetti ad esso collegati. Tanto che la sua stessa validità ed efficacia
sono direttamente dipendenti dalla corretta e libera manifestazione della volontà nonché
dalla perfetta convergenza tra quanto dichiarato e quanto voluto. L’ordinamento dunque
riconosce al negozio giuridico la funzione di rendere giuridicamente realizzabile il
voluto. Muovendo da queste premesse, è possibile individuare la categoria del negozio
processuale. In realtà essa sarebbe del tutto inutile se adottata nel sistema del processo
penale. Infatti, qualunque sia la definizione di negozio che si voglia ritenere esatta,
manca sempre l’elemento caratteristico del negozio stesso: la manifestazione di volontà,
l’esercizio di un diritto soggettivo, la modificazione di un rapporto giuridico,
l’estrinsecazione del potere di autonomia regolamentare. Quindi in definitiva si può
affermare che la categoria del negozio nel processo penale non esiste (Griffo, Volontà
delle parti e processo penale, Napoli 2008).
9 Il pubblico ministero nell’istruzione sommaria godeva di enormi poteri di formazione
della prova e di disposizione della libertà personale e dei beni dei singoli (art. 391 c.p.p.
1930).
diritti dell’individuo destinatario dell’accertamento. E tre
furono le linee sulle quali si mosse quella necessità: riformare
l’istruzione formale al fine di garantire la partecipazione delle
parti alle attività probatorie del giudice istruttore, ritenuto
tuttavia ancora protagonista ineliminabile di questa fase;
attribuire il compimento delle attività istruttorie
esclusivamente al pubblico ministero nel rispetto del
contraddittorio con la difesa dell’imputato; distinguere
necessariamente tra “indagini” e attività “dibattimentali”
attraverso una ridefinizione dei ruoli processuali. Dunque le
esigenze di ammodernamento del processo funzionali ad una
reale ed efficace realizzazione delle garanzie soggettive
costituzionalmente affermate, possono bene sintetizzarsi in due
obiettivi: da un lato, la riforma dell’istruzione in senso
accusatorio (
10
); dall’altro, la volontà di unificare il regime
dell’istruzione e di affidarlo esclusivamente al giudice,
consentendo l’intervento del pubblico ministero e del
difensore in egual misura (
11
). Da questi spunti prese il via una
12
10
Va rammentato che la tradizione e il milieu culturale nei quali è cresciuto e maturato
il processo accusatorio non sono propri dell’era moderna, ma sono di stampo
medioevale. Il processo accusatorio in realtà si sviluppa in una cultura che non distingue
tra ordine morale e ordine naturale, ma, immaginando un universo retto da un principio
ordinatore unico, considera il probabile corrispondente a ciò che è eticamente
preferibile. In una tale cultura, il processo ha una funzione prevalentemente competitiva
e si avvale di tecniche che, come quella della retorica, sono destinate a favorire il
prevalere di un vincitore nella contesa, indipendentemente da un effettivo risultato
conoscitivo (Cristofano, I riti alternativi al giudizio penale ordinario, 2005).
11
Francesco Carnelutti si espresse in questo modo nel Convegno Nazionale di alcune
fra le più urgenti riforme della procedura penale tenutosi a Bellagio nel 1953. Egli
sottolineò comunque che l’efficacia del processo penale dipende dalla interrelazione tra
le parti con il giudice, nonché dalla collaborazione con l’organo giudicante sia del
pubblico ministero che del difensore (Atti del Convegno, Milano 1954).
ricca stagione garantista, sebbene ancora imperniata su un
sistema fortemente inquisitorio (
12
).
Il primo problema da affrontare era necessariamente quello di
superare la pregiudiziale esclusione del difensore dall’attività
istruttoria e dunque di individuare gli atti a cui lo stesso
avrebbe potuto assistere. Ciò fu realizzato con l’aggiunta degli
artt. 304 bis, 304 ter e 304 quater c.p.p. 1930. Attraverso
queste disposizioni fu riconosciuta al difensore la
partecipazione agli esperimenti giudiziali, alle perizie, alle
perquisizioni domiciliari e alle ricognizioni. A tal fine era
prevista la comunicazione ai difensori del giorno, dell’ora e
del luogo dell’atto istruttorio; inoltre era loro consentito
prendere visione degli atti relativi alle operazioni pocanzi
menzionate, nonché il diritto di assistere all’interrogatorio
dell’imputato,al sequestro, alle perquisizioni personali e alle
ispezioni.
Ma presto si palesò l’esigenza di estendere le garanzie
costituzionali anche all’istruzione sommaria, su impulso del
pubblico ministero. Sul punto intervenne anche la Corte
Costituzionale, dapprima con una sentenza interpretativa (
13
),
nella quale la Corte affermò che i due modelli istruttori (quello
a cognizione piena e quello a cognizione sommaria) avevano
comunque le medesime finalità di accertamento della verità
processuale, sicché non era giustificata una diversa
applicazione delle garanzie costituzionali sulla base del
13
12
Particolare importanza riveste la legge n. 517 del 1955, con la quale si registrò un
primo adeguamento del codice ai principi costituzionali in materia di competenza,
ricusazione, nullità costituzione di parte civile, partecipazione della difesa all’udienza,
impugnazioni; ma rimase impregiudicata la struttura del processo con istruzione (Griffo,
Volontà delle parti e processo penale, Napoli 2008).
13
Sentenza n. 11 del 1965.
diverso tipo di istruzione. Successivamente, con una serie di
ulteriori pronunce (
14
) la Consulta dichiarò incostituzionali
prima l’art. 392 c.p.p. poi l’art. 304 bis c.p.p. 1930 nella parte
in cui escludevano la propria operatività nel corso
dell’istruzione sommaria, dando così il via al lento disgregarsi
del sistema inquisitorio.
La Costituzione dunque non impose un’immediata
ridefinizione del codice di procedura penale, ma quantomeno
diede l’input per una serie di interventi adeguatori, seppur
minimi e sporadici. Anche perché il Paese non era ancora
pronto culturalmente e politicamente per un cambio così
radicale, da un processo del giudice ad un processo delle parti.
Ma ben presto il mutato clima sociale e l’esigenza di
sconfiggere il sempre crescente attacco terroristico ed eversivo
resero inevitabile il superamento di questa chiusura e di questa
diffidenza. Dapprima il legislatore intervenne con una serie di
leggi tampone (
15
) tendenti ad inquadrare il processo come
strumento politico e di controllo sociale, attraverso
l’esaltazione della sua forza emarginativa. Il divario tra il
sistema normativo all’epoca vigente e i valori costituzionali
divenne così evidente che nel 1974 si redasse la prima delega
per la riscrittura del codice di procedura penale. Il progetto che
ne scaturì disattese le aspettative: anche se il nuovo processo
contemplava una breve indagine, un’udienza filtro e il
dibattimento, i principi cardine del sistema accusatorio erano
14
14
Sentenza n. 52 del 1965 e sentenza n. 190 del 1970. Ma ricordiamo anche la
sentenza Cost. n. 86 del 1968 con cui fu chiarata l’illegittimità costituzionale degli artt.
225 e 232 c.p.p. 1930 che escludevano la partecipazione del difensore agli atti istruttori
compiuti dalla polizia giudiziaria. Nella stessa direzione si muoveva anche la sentenza
n. 148 del 1969.
15
Basti pensare alle leggi n. 497 del 1974 e n. 304 del 1982.
ancora troppo poco definiti. Pur conservando le conquiste
garantiste, si cercò un più naturale equilibrio tra protezione
dell’individuo e difesa della società attraverso un modello
processuale capace di superare i limiti dell’accusorietà formale
e di realizzare una distinzione tra i soggetti del processo. Si
aprì così la strada alla varietà delle forme processuali. Nel
sistema delineato con il nuovo codice del 1988, dunque,
l’accusorietà assume un carattere nuovo, esprimendo la
residualità del dibattimento nella previsione di strutture
“alternative” introdotte al precipuo scopo di realizzare il
rapporto efficienza-garanzia. Attraverso i riti alternativi il
legislatore realizza l’istanza deflattiva attribuendo rilievo al
consenso dell’imputato (
16
), che viene in tal modo collocato
fuori da qualsiasi logica inquisitoria. Le tradizionali categorie
dogmatiche sostenute dal codice previgente vengono stravolte
in maniera irreparabile dal nuovo codice del 1988, attraverso
una nuova percezione normativa del processo: alla verità
intesa in senso “forte”, ossia la cosiddetta verità materiale,
subentra una verità “debole”, “relativa”, intesa come esito
15
16
Va sottolineato che prima della codificazione del 1988, le parti erano già diventate
titolari di poteri più incisivi attraverso una serie di previsioni contenute nella legge n.
689 del 1981. In particolare, con riferimento all’istituto dell’applicazione di sanzioni
sostitutive, la fissazione dello stesso contenuto della sentenza, in ordine all’an e al
quantum di pena da applicare al caso concreto, sembrava essere rimessa alle
determinazioni del pubblico ministero e dell’imputato, incentivato a presentare a
presentare la relativa richiesta dalla prospettiva di godere di particolari benefici (Griffo,
Volontà delle parti e processo penale, Napoli 2008).
delle contese dialettiche (
17
) che hanno animato la controversia
(
18
).
In altre parole, il legislatore del 1988, nel tentativo di fornire
una risposta alla variegata realtà processuale – caratterizzata
dalla diversità delle fattispecie sostanziali e da diversi gradi di
difficoltà probatoria – costruisce un modello “flessibile”
basato sulla centralità ideologica del dibattimento (
19
) ma, al
tempo stesso, sulla sua residualità, data l’esistenza di forme
“semplificate” in cui la rinuncia da parte del soggetto debole
alle garanzie probatorie dibattimentali è incentivata dai
benefici offerti, in termini di riduzione della pena ed altro, dei
cd. “riti differenziati”. Il nuovo codice di rito, insomma,
rinnova i connotati di fondo del processo – giurisdizione,
azione, giudizio – realizzando un processo di parti fondato
sulla distinzione dei ruoli processuali e sulla elasticità del
modello.
Con il codice del 1988, quindi, si aderisce in Italia ad un
sistema più moderno ed evoluto di processo penale, ovvero di
ciò che può definirsi come quel meccanismo di tipo
16
17
Nel processo, proprio l’opposizione, la contrapposizione tra due opzioni e dunque il
contraddittorio, genera verità possibili, nel senso soprattutto che tende progressivamente
ad eliminare fallacie del ragionamento, errori o anche inganni, piuttosto che non ad
acquisire verità date. È per questo che la ricerca di una soluzione ragionevole nel
processo scaturisce dalla composizione di istanze non istanze non solo razionali ma
anche etiche (Cristofano, I riti alternativi al giudizio penale ordinario, 2005)
18
Nello stesso periodo anche lo sviluppo delle scienze umane perveniva ai medesimi
risultati. Anche fuori dal processo si riconosce che la verità di un fatto non è il frutto di
un’asettica riduzione della fattispecie all’intelletto, ma il risultato di un’attività di
costruzione del soggetto conoscente, poiché l’esperienza del conoscere non è mai in sé
neutra ed obiettiva, ma sempre condizionata dal soggetto che la compie e dalle modalità
attraverso cui si realizza.
19
La centralità del dibattimento deve comunque lasciar spazio ai riti alternativi, che
non sono più in posizione di residualità rispetto allo schema ordinario, perché non è
possibile pretendere di celebrare il dibattimento in ogni caso (Paolozzi, Il giudizio
abbreviato dal modello “tipo” al modello pretoriale, Padova 1991).
sequenziale e progressivo in base al quale, partendo dalla
premessa impulsiva dell’attribuzione di un fatto-reato ad un
soggetto, si giunge ad una decisione in ordine alla sua
responsabilità ovvero all’affermazione che quel soggetto
merita o non merita che gli si commini la sanzione penale
prevista in astratto dalla norma penale incriminatrice.
Sin dall’entrata in vigore del codice del 1988, la Corte
Costituzionale ha riservato particolare attenzione agli istituti
ccdd. alternativi, mettendo in luce la difficoltà della cultura
giuridica nel riconoscere l’operatività del canone
volontaristico negli istituti processual-penalistici.
In effetti, come già evidenziato, il legislatore riformista
struttura i meccanismi volontaristici secondo un criterio
bipartito: da un lato valorizza il consenso in termini di scelta
unilaterale del destinatario della normativa di volta in volta
considerata a seconda del caso concreto; dall’altro, prevede
istituti che presuppongono la necessaria convergenza della
volontà delle parti in contesa. Il problema, dunque, si rinviene
nella necessità di ricondurre tali meccanismi, ispirati
all’attuazione dell’idea di “processo della volontà”, in
categorie generali di riferimento. Il legislatore infatti ha
operato in assenza di una linea ispiratrice coerente, così come
si evince dalla lettura del nuovo codice (
20
). In tale ottica sono
da leggere i numerosi interventi novellistici della fine degli
anni ’80, tesi a trovare un equilibrio tra efficienza e garanzie
nella moltiplicazione delle procedure; nonché, le frequenti
17
20
Il profilo dell’attuazione delle garanzie a richiesta è parso coerente con il sistema
delle cautele laddove indefettibili esigenze processuali legittimano la rimessione
dell’applicazione della misura alla scelta insindacabile del soggetto ristretto nella libertà
personale.
decisioni della Corte Costituzionale, la quale, soprattutto in
tema di applicazione della pena su richiesta e rito abbreviato,
ha tentato di porre l’accento non tanto sull’”accordo”, quanto
piuttosto sulle opzioni unilaterali dell’imputato. La ricerca di
una parità delle parti che sia flessibile è il messaggio filosofico
che unisce dottrina e giurisprudenza di quegli anni,
naturalmente nel costante e sistematico bisogno di dare
attuazione ai principi costituzionali. E il difficile rapporto tra il
potere dispositivo delle parti e il potere di accertamento del
giudice si è acuito proprio in occasione dell’entrata in vigore
del codice del 1988, rendendosi necessaria una rivalutazione
dell’apporto della volontà dell’imputato (
21
), al fine di ottenere
la deflazione del processo.
2. I riti alternativi e il “giusto processo”.
Con legge costituzionale n. 2 del 1999 si è giunti alla
riformulazione dell’articolo 111 Cost. ed alla introduzione
della locuzione “giusto processo” quale principio informatore
18
21
Ciò era evidente soprattutto in tema di rito abbreviato, che ormai era divenuto lo
schema di riferimento del sistema dei riti alternativi e paralleli al dibattimento. L’idea è
quella di una sentenza emessa allo stato degli atti su richiesta dell’imputato e previo
consenso dell’utilizzo degli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero ai fini delle
conoscenza giudiziali e, quindi, con rinuncia alla formazione della prova in
contraddittorio. Tuttavia il codice del 1988 si inserisce in un contesto culturale
sfiducioso nei confronti dei riti alternativi;sicché il legislatore dell’epoca previde
un’articolata procedura introduttiva del rito, che richiedeva il consenso del pubblico
ministero e la prevalutazione del giudice circa la decidibilità allo stato degli atti. Queste
rigide caratterizzazioni hanno spostato l’asse della scelta prima sul pubblico ministero e
poi sul giudice. Dunque esso veniva attivato maggiormente per i casi non risolvibili col
patteggiamento e sempreché l’imputato non avesse alcun elemento ulteriore da fornire
al giudice. La Corte Costituzionale intervenne allora sulla disciplina originaria
dell’istituto, prima di tutto stabilendo che il pubblico ministero dovesse motivare il
dissenso, al fine di ottenere una maggiore responsabilizzazione dello stesso nella
conduzione delle indagini. Il legislatore intervenne allora con la legge n. 479 del 1999 e
con la legge 144 del 2000, inserendo l’art. 441 bis c.p.p. e dunque elevando la volontà
dell’imputato a pilastro fondante del rito medesimo (Griffo, Volontà delle parti e
processo penale, Napoli 2008).