anno il 10, il 15 o il 20% del loro valore? E' un rischio che non
possiamo correre, soprattutto ora che finalmente l'inflazione appare
stabilmente inchiodata attorno al 4%.
Se, per puro paradosso, fossimo in una economia "chiusa", il
problema del debito pubblico si porrebbe in tutt'altro modo. La
compensazione tra debiti e crediti, tra maggiori imposte e interessi
corrisposti sui titoli sarebbe in gran parte interna al sistema. Ce la
vedremmo in famiglia, in poche parole.
Con l'Unione Europea i termini del problema risultano
radicalmente modificati.
Siamo in un mercato aperto, in cui la libert� dei movimenti di
capitale � ormai totale.
E tanto pi� il rischio � maggiore per un paese, come il nostro,
che vanta alti livelli di risparmio: se, in seguito a una crisi di
sfiducia verso lo Stato, o di forti tensioni sul mercato dei cambi,
una parte dei risparmi italiani finisse all'estero diverrebbe forse
insostenibile.
La seconda conseguenza � sintetizzabile con la formula
"effetto spiazzamento". Secondo l'interpretazione corrente, gli
investimenti privati sono costantemente "spiazzati" dal continuo
drenaggio di capitali che viene operato dallo Stato. Ci� vuol dire
che i risparmiatori, piuttosto che collocare il proprio denaro in altri
investimenti privati, per loro natura pi� rischiosi, preferiscono
indirizzarsi verso il debito pubblico.
Si tratta per�, com'� facile immaginare, di un investimento
sostanzialmente "improduttivo". Non contribuisce, cio�, alla
crescita complessiva del sistema economico.
Frutta reddito ai detentori di titoli, ma spiazza continuamente
quelli che vengono definiti gli "usi privati della produzione"
(Pesole, 1994).
Il sacrificio di questi "usi" � un onere per l'intera collettivit�,
sia nel breve periodo che nel lungo periodo, soprattutto in una
struttura come quella italiana in cui gran parte delle uscite del
bilancio pubblico sono destinate non a investimenti, ma al
semplice funzionamento della macchina pubblica: a erogare
pensioni e stipendi, tanto per capirci.
Veniamo alla terza conseguenza.
Per le generazioni presenti il debito pubblico � un onere,
soprattutto perch� comporta un sacrificio nella destinazione privata
delle risorse a disposizione.
E per i nostri figli?
Anche su di loro peseranno le maggiori imposte necessarie
per sostenere il peso del debito, ma l'eredit� potr� non essere del
tutto negativa, dal momento che, a parit� delle altre condizioni,
riceveranno lo stesso diritto di debito-credito che abbiamo noi.
Chi avr� in dotazione titoli pubblici potr� bilanciare, dunque,
le maggiori imposte con gli interessi che percepir�.
E in questo caso, per grandi linee, il risultato sar� a somma
zero. Non sar� la stessa cosa per chi, non possedendo titoli del
debito pubblico, dovr� comunque pagare le imposte, essendo
quest'ultime, com'� ovvio, erga omnes.
Il problema principale per i nostri figli � che dovranno fare i
conti con il minore capitale produttivo ereditato dai loro padri, e,
quindi, con una quantit� di risorse destinate agli investimenti
notevolmente ridotta.
La conseguenza pi� immediata di un elevato debito pubblico
pu� essere, dunque, l'impoverimento progressivo delle risorse a
disposizione delle nuove generazioni.
Quello italiano � un debito quasi tutto interno. Ognuno �
dunque debitore e creditore al tempo stesso. Ma non � corretto
affermare che la divisione aritmetica tra l'ammontare del debito e il
numero degli italiani fornisca l'esatta dimensione dei debiti di
ognuno di noi. In termini puramente logici, quella cifra andrebbe
divisa soltanto per coloro che posseggono titoli del Tesoro. Solo
questi risparmiatori, infatti, possono vantare un debito-credito
verso lo Stato, e quindi, in definitiva, "verso se stessi".
Tuttavia, ad alcuni la disquisizione pu� apparire accademica:
debito o credito che sia, a un certo punto qualcuno dovr� pur
onorarlo! E' come una maxicambiale che, alla scadenza, viene ogni
volta rinnovata.
Un contributo alla comprensione del problema viene dalla
Banca d'Italia. In una delle relazioni annuali si pu� leggere: "Fino
a che vi sar� il disavanzo pubblico, vale a dire la differenza
negativa tra entrate e uscite registrata ogni anno, il debito non
potr� che continuare ad aumentare in termini nominali. E' molto
pi� significativo misurarne la crescita in termini relativi, vale a
dire rispetto al prodotto interno lordo, che, com'� noto, equivale
all'intero ammontare della ricchezza nazionale prodotta in un
anno".
Perch� � utile riferirsi al rapporto debito/PIL, piuttosto che al
valore assoluto del debito?
La ragione � che il PIL fornisce una misura della dimensione
del sistema economico e dunque il rapporto debito/PIL rappresenta
una misura della grandezza del debito rispetto alle dimensioni
dell'economia.
Uno stock di debito pubblico di 351.177 miliardi, quale
quello che aveva l'Italia nel 1982, sarebbe stato travolgente nel
1960, quando il PIL era all'incirca 19.286 miliardi.
Il "vero" debito, dicono alla Banca d'Italia, � quello estero, sia
privato che pubblico: grava su tutti gli italiani e rappresenta, di
fatto, l'indebitamento del paese nei confronti del resto del mondo.
Quest'ultimo aumenta se c'� un disavanzo della bilancia dei
pagamenti di parte corrente.
Nel 1992, l'anno della crisi valutaria e della svalutazione della
lira, il rapporto tra debito pubblico e PIL era del 108%, contro il
52.4% della Francia, il 45.7% del Regno Unito, il 44.8% della
Germania. Nel 1993, il debito dello Stato ha raggiunto quota
1.809.676 miliardi, pari al 115.9% del PIL. La crescita � stata del
7.2% rispetto all'anno precedente.
Stiamo quindi per eguagliare il massimo storico, registrato nel
1920. "Soltanto" 190.324 miliardi circa ci separano dal fatidico
traguardo dei 2 milioni di miliardi.
Da quando, nell'ottobre del 1988, il debito pubblico ha
raggiunto il "primo" milione di miliardi, il nostro paese ha
accumulato in media debiti per circa 160.000 miliardi l'anno, poco
pi� di 13.000 miliardi al mese, 428 miliardi al giorno.
Piani di rientro, programmi triennali, progetti a medio e lungo
termine: quanti documenti sono stati scritti negli ultimi dieci anni
per tentare di arrestare l'immenso fiume in piena del debito
pubblico? Abbiamo perso il conto. Di fronte alle grandezze con cui
dobbiamo confrontarci sembrano poca cosa anche le robuste
manovre correttive varate negli ultimi anni.
Eppure, non la dimenticheremo facilmente la maxistangata da
123.000 miliardi che tra l'estate e l'autunno del 1992 Giuliano
Amato ha imposto al paese. C'era stata la tempesta valutaria, che
aveva portato lira e sterlina fuori dal Sistema Monetario Europeo.
E poi la svalutazione, il crollo verticale della credibilit�
italiana sui mercati internazionali, la questione dei debiti esteri
EFIM, le bocciature di Moody's.
Eravamo in trincea, per usare un'espressione di Amato. Quella
drastica correzione di rotta, dunque, era necessaria.
Nonostante gli indubbi progressi registrati da quando, per la
prima volta, � stato possibile ottenere un, se pur lieve, avanzo
"primario", al netto cio� delle spese per gli interessi, la montagna
dei debiti accumulati negli anni dallo Stato non mostra alcun
cedimento.
Secondo gli accordi di Maastricht, nel 1997 il rapporto tra
disavanzo e PIL dovr� scendere al 3% (e noi siamo di poco sotto il
10%), e quello tra debito e prodotto interno lordo non potr�
superare il 60%, mentre noi siamo di poco sotto il doppio.
Se volessimo applicare alla lettera questi vincoli, dovremmo
"abbattere" il debito della met�, perlopi� in un lasso di tempo
ridottissimo.
In questo caso, com'� evidente, la cura ucciderebbe
l'ammalato. Nessun sistema economico, peraltro, in una fase
recessiva come l'attuale, sarebbe in grado di reggere ad un tipo di
intervento di questo tipo. Del resto, il problema non riguarda
soltanto il nostro paese: anche il Belgio, la Danimarca, l'Irlanda, i
Paesi Bassi e il Portogallo sono, chi pi� chi meno, tuttora lontani
da quella meta.
Una lettura pi� "realistica" degli accordi di Maastricht induce
a ritenere che gli obiettivi del 60% nel rapporto debito/PIL e del
3% per quanto riguarda la relazione tra disavanzo e PIL, siano da
considerarsi essenzialmente "strategici". Quel che conta � la
tendenza. Se tra il 1996 e il 1997 l'Italia riuscir� a stabilizzare il
rapporto debito/PIL, vorr� dire che la progressione si sar�
arrestata.
E questo, di per s�, sarebbe un segnale di grande importanza
per i nostri partner comunitari (Pesole, 1994).
Ma come giungere a quel risultato, visto che l'incremento del
debito pubblico, nel nostro paese, non conosce soste da almeno un
ventennio? Nella prima met� degli anni Settanta, in particolare, il
rapporto tra debito e reddito nazionale � cresciuto di quasi 10 punti
percentuali. Per tutti gli anni Ottanta, tale progressione ha sub�to
un'accelerazione ancor maggiore: in quel periodo il debito
pubblico, rispetto al PIL, � lievitato di 40 punti percentuali.
Il passaggio decisivo si � avuto agli inizi del 1993. Certo, la
manovra di Amato ha depresso ulteriormente l'economia, ma,
grazie al calo dei tassi, vi � stato un consistente risparmio nella
spesa per interessi.
E' diminuito cos�, anche se di poco, il peso del deficit sul
totale del debito statale. Il rapporto tra disavanzo e PIL � sceso,
infatti, dopo molti anni, sotto la soglia del 10%. La riduzione del
costo del debito � stata nel 1993 di 5 punti percentuali. Il saldo
primario � stato � passato dall'attivo di 8.644 miliardi del 1992 a
uno pi� consistente : 28.033 miliardi.
Lentamente, l'economia italiana sembra risalire dunque dal
baratro in cui stava sprofondando.
Il merito � soprattutto della svalutazione e, ripetiamolo, del
calo dei tassi.
Nella fase attuale, scartate del tutto ipotesi di interventi
straordinari, quali il consolidamento di una parte del debito, che
avrebbero effetti molto negativi per l'intera l'economia nazionale, il
problema � di individuare gli strumenti idonei a risanare la finanza
pubblica, senza penalizzare ulteriormente la crescita economica.
La discesa dei tassi di interesse sta dando una mano al nostro
paese. Ma non basta. Bisogna operare con forza scovando gli
evasori fiscali e arginando le spese che alimentano il deficit dello
Stato.
Sembra allora quanto mai opportuno non dimenticare
l'ammonimento di Domar (1944) in base al quale se tutti coloro,
che "si preoccupano e passano notti in bianco per il timore del
debito, se ne dimenticassero per un momento e impiegassero la
met� dei loro sforzi per tentare di trovare modi per ottenere un
reddito nazionale crescente, il loro contributo al benessere
dell'umanit� e alla soluzione del debito, si rivelerebbe di gran
lunga maggiore".