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interesse reali negativi, compresi mediamente tra il 3% e il
4%. Sono queste le ragioni per cui, nel corso di tale
decennio, il rapporto debito/PIL subì un incremento
contenuto passando dal 40% al 60%.
Gli anni Ottanta sono segnati da una serie di elementi
univocamente rivolti a valorizzare l’autonomia della Banca
d’Italia e la sua esclusiva titolarità della politica monetaria.
Il primo segnale di tale nuovo orientamento risale al 1981
allorché si registrò il “divorzio” tra Tesoro e Banca
d’Italia, svincolando quest’ultima dall’obbligo di
sottoscrivere la quota di titoli pubblici non collocata sul
mercato.
Cambiavano così gli obiettivi della politica monetaria e gli
strumenti per la sua attuazione. L’obiettivo finale non era
più una correzione ex-post del ciclo economico, bensì il
preservare la stabilità della moneta. Sul piano degli
obiettivi intermedi, si passò dal controllo del Credito
Totale Interno, che era esogenamente condizionato dal
disavanzo pubblico, al controllo degli aggregati monetari
in un primo tempo e del tasso di interesse e di cambio in
seguito. Si passò quindi da una forma di controllo diretto
del credito realizzata attraverso il vincolo di portafoglio ed
il massimale sui prestiti alle imprese, ad una di controllo
indiretto attraverso una rivalorizzazione del ruolo del
mercato nell’allocazione delle risorse finanziarie.
Negli anni Ottanta, la politica monetaria ebbe un’impronta
decisamente restrittiva: il tasso di crescita della base
monetaria e quindi dell’offerta di moneta si dimezzarono.
Il mutamento d'indirizzo era da ascriversi all’impegno di
tutelare la stabilità del cambio, conseguente all’adesione al
Sistema Monetario Europeo; nonché ad una reazione di
rigetto delle esperienze inflazionistiche degli anni Settanta.
La principale conseguenza del divorzio tra Tesoro e Banca
d’Italia, dal punto di vista del bilancio pubblico, fu il
sostanziale superamento della monetizzazione del
disavanzo. All’inizio degli anni ‘70 il 45% circa del
disavanzo pubblico era monetizzato, alla fine degli anni
‘80 questa quota si era ridotta al 9%.
In assenza di un maggior rigore nelle politiche di bilancio
ed in presenza di un costo dell’indebitamento non più
negativo, derivante dalla positività dei tassi reali di
interesse, era inevitabile un aumento del debito pubblico.
Nel corso del decennio, la spesa pubblica passò dal 47,6%
al 55,1% del PIL con un forte aumento della spesa
corrente. Le entrate passarono dal 36,2% al 43,7% del PIL.
Il rapporto disavanzo/PIL non scese mai sotto la soglia
dell’11%, raggiungendo un picco del 15% nel 1985.
Aumentò la spesa primaria per salari, prestazioni
previdenziali e trasferimenti alle imprese. Gli interessi sul
debito pubblico in rapporto al PIL crebbero dal 5,3% del
1980 al 9,7% del 1990. La combinazione di un saldo
primario costantemente negativo, con tassi di interesse
reali superiori al tasso di crescita reale dell’ economia,
determinarono una forte crescita del rapporto debito/PIL,
che passò nell’arco del decennio dal 60% al 100%.
Il dover collocare sul mercato una così ingente mole di
titoli di Stato determinò un’alterazione nel meccanismo di
allocazione del risparmio sottraendo risorse agli
investimenti per dirottarle verso il finanziamento, tramite il
debito pubblico, della spesa corrente.
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1. La sostenibilità del debito pubblico una
definizione teorica
2
.
1.1. La sostenibilità del debito pubblico, una definizione
teorica.
Nella letteratura economica, il debito pubblico è definito
sostenibile allorché rapportato al PIL, assume un valore
stazionario o in diminuzione. In realtà, ai fini della
sostenibilità, è rilevante anche il livello raggiunto dal
menzionato rapporto, posto che una grandezza troppo
elevata espone il sistema a rischi di instabilità finanziaria.
Nell’ipotesi che un paese arrivasse ad una tale drammatica
situazione vi sono due possibili opzioni: la monetizzazione
del debito o il suo ripudio.
Nel primo caso si costringe la banca centrale a stampare
moneta per rimborsare il debito. Tuttavia l’immissione di
moneta nel sistema economico sarebbe di un’intensità tale
da provocare una massiccia inflazione che finirebbe per
equiparare i titoli alla carta straccia, essendo questi
rimborsati al loro valore nominale. Una simile operazione
non potrebbe non esser osteggiata da una banca centrale
indipendente e credibile, che resti fedele al proprio
mandato di preservare il potere d’acquisto della moneta.
Nella seconda ipotesi, di fronte all’impossibilità di
collocare nuovo debito sul mercato, necessario per pagare
gli interessi e rimborsare il debito pregresso, lo Stato
decide unilateralmente di non onorare i propri impegni.
Sia nella prima che nella seconda ipotesi i detentori di titoli
pubblici perderebbero ogni fiducia nello Stato che non
potrebbe più collocare nuovo debito sul mercato.
2
M. ARCELLI:”IL RIENTRO DEL DEBITO PUBBLICO”, RIVISTA
BANCARIA, ANNO ‘98 N. 3 A. FORZONI “ALCUNE CONSIDERAZIONI
SUL DEBITO PUBBLICO”, RIVISTA BANCARIA ANNO ‘94 N. 3
G. TRUPIANO: “IL DISAVANZO ED IL DEBITO PUBBLICO
STRUTTURALI”, RIVISTA BANCARIA ANNO ‘91 N. 3
I. MUSU: OP. CIT.
Il problema che si pone è di evitare che il rapporto
debito/PIL cresca nel tempo senza alcun limite poiché ciò
porterebbe inevitabilmente all’esplosione di una crisi
finanziaria. Tuttavia gli economisti non sono in grado di
identificare con precisione quale sia il livello critico oltre il
quale una crisi finanziaria sia certa. E’ possibile, come
dimostra l’esperienza del nostro Paese, che la dinamica
crescente del rapporto debito/PIL perseveri per molti anni
senza che ciò susciti una reazione di rigetto dei titoli
pubblici da parte dei sottoscrittori.
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1.2. La teoria ricardiana.
Secondo la teoria della neutralità del debito
3
ogni cittadino
è così lungimirante e benevolo verso le generazioni future
da percepire immediatamente e con esattezza che ad ogni
emissione di debito pubblico oggi si collegano maggiori
imposte in futuro. Ne consegue che il debito ha l’unico
effetto di ridurre il reddito disponibile e quindi il livello dei
consumi privati, lasciando inalterato il profilo dei risparmi
individuali. Il debito pubblico non comporterebbe così
alcuna perdita di benessere per le generazioni future, le
quali potranno godere di uno stock di capitale privato
immutato e nel caso debbano provvedere al rimborso del
debito, erediteranno dalle generazioni precedenti i titoli
fruttiferi dello stesso debito.
Le obiezioni che si possono muovere contro tali
conclusioni afferiscono principalmente alle ipotesi di base
del modello: mercati dei capitali perfetti, esistenza infinita
di agenti economici razionali, popolazione e reddito
costanti, tasso di interesse unico per governo e privati. In
letteratura la tesi della neutralità del debito è confutata
considerando: l’incertezza sulla durata della vita,
l’incertezza sui redditi futuri, l’introduzione di imposte
distorsive, la miopia dei consumatori, le varie imperfezioni
dei mercati.
Un ricorso sistematico all’indebitamento da parte
dell’operatore pubblico non può non determinare una
reazione del mercato dei capitali attraverso un
innalzamento dei tassi di interesse. Occorre però tener
conto della struttura finanziaria di un paese, del peso del
debito pubblico strutturale rispetto al totale delle attività
finanziarie.
3
SI VEDA L’ANALISI DI RICARDO:ON THE PRINCIPLES OF POLITICAL ECONOMY
AND TAXATION IN THE WORKS AND CORRISPONDENCE
1.3. La formula della sostenibilità.
La letteratura economica fornisce una semplice relazione
matematica che definisce la sostenibilità del debito:
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Posto: Dg= debito pubblico
PY= pil nominale
Dg/PY= b
y= tasso di incremento reale del reddito
x= avanzo primario sul PIL
r= tasso di interesse reale
allora:
b’ = b(r-y) -x
affinché b’ sia minore o uguale a zero:
x≥ b(r-y)
Nella suddetta relazione risulta cruciale la differenza tra il
saggio reale di remunerazione del debito pubblico e quello
di aumento del PIL. Se tale differenza fosse nulla, ovvero
se r=y, sarebbe possibile mantenere costante nel tempo il
rapporto debito/PIL a prescindere dal suo livello iniziale,
semplicemente rispettando il vincolo di bilancio
concernente l’avanzo primario: x=0. Se invece come è
accaduto negli ultimi due decenni in Italia, r>y, occorre
conseguire un avanzo primario espresso come percentuale
del PIL, tale da colmare la differenza; tanto più elevato è il
rapporto debito/PIL, ovvero b, tanto maggiore dovrà esser
la dimensione dell’avanzo primario. Il rapporto debito/PIL
tenderà a scendere allorché il tasso di crescita del PIL più
l’avanzo primario superano il rendimento medio del debito
pubblico.
4
P. S. LABINI:”SVILUPPO ECONOMICO INTERESSE E DEBITO PUBBLICO”,
RIVISTA BANCARIA ANNO’98 N. 2
2
1.4. Le politiche di rientro dal debito.
E’ possibile pervenire ad una riduzione del rapporto
debito/PIL agendo direttamente sul numeratore, ad
esempio con l’alienazione del patrimonio dello Stato
finalizzata all’ammortamento del debito, oppure
incrementando il denominatore, ad esempio attraverso una
revisione una tantum del valore del reddito nominale,
contabilizzando aree sommerse dell’economia. Va tuttavia
rilevato che entrambe le strategie non sortiscono rilevanti
effetti sulle tendenze di lungo periodo. Più realisticamente,
l’obiettivo di una stabilizzazione prima e di una riduzione
poi del rapporto debito/PIL può esser perseguito
realizzando avanzi primari tanto maggiori
(compatibilmente con il limite della loro sostenibilità
politica) quanto maggiore è la differenza tra il tasso di
rendimento medio del debito e il tasso di crescita del PIL e
quanto più elevato è lo stock del debito.
Un avanzo primario, ovvero la differenza tra entrate
pubbliche e spesa pubblica al netto della spesa per interessi
sul debito, può esser determinato o attraverso un aumento
delle entrate o una riduzione delle uscite, oppure agendo al
contempo su ambedue i fronti. La scelta deve tener conto
dei possibili effetti depressivi di breve o di lungo periodo
che si riverberano sul ciclo economico.
La questione che si pone è se è meglio mirare ad un
aggiustamento rapido e quindi inevitabilmente drastico
oppure ad un aggiustamento più graduale ma che richiede
un impegno coerente di più lunga durata. Un
aggiustamento rapido può acquisire maggior credibilità sui
mercati finanziari ma, al contempo, un aggiustamento
troppo drastico può implicare oneri sociali ed economici
troppo elevati. Un aggiustamento drastico rapido e
rilevante rende improbabile il non manifestarsi di effetti
depressivi che potrebbero vanificare la manovra di
aggiustamento (infatti una diminuzione del denominatore,
il PIL, aumenterebbe il valore del rapporto). I sostenitori
delle manovre di rapido aggiustamento, pur accogliendo
tali rilievi, sostengono che gli effetti depressivi sono più
3
che compensati dagli effetti espansivi determinati dalla
riduzione dei tassi di interesse e dal ristabilirsi di un clima
di fiducia sui mercati finanziari.
Un aggiustamento graduale è in grado di attenuare l’effetto
depressivo ma può non avere un sufficiente grado di
credibilità. Il prolungato susseguirsi di manovre di bilancio
potrebbe minare la fiducia delle famiglie e delle imprese
determinando effetti depressivi molto più pesanti rispetto a
quelli preventivati. I mercati finanziari, avendo difficoltà a
comprendere le reali intenzioni del governo, non
aiuterebbero la discesa dei tassi di interesse. Solo se il
governo risulta credibile agli occhi degli operatori, perché
coerente rispetto alla politica annunciata e perché sostenuto
da una solida maggioranza parlamentare, è possibile
innescare un circolo virtuoso fatto di riduzione della spesa
per interessi e riduzione nell’accensione di nuovo debito,
pervenendo ad un aggiustamento senza eccessivi costi
sociali.