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INTRODUZIONE
IL NUOVO PROCESSO ACCUSATORIO E IL RUOLO
DEL PUBBLICO MINISTERO.
Il 22 Settembre 1988 è stato approvato il testo del nuovo
codice di procedura penale, la cui entrata in vigore è fissata un
anno dopo la data della sua pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale. Il nuovo codice si ispira ad una filosofia e ad una
struttura profondamente diverse da quelle del codice
precedente. Si tratta del primo codice dell'Italia repubblicana,
che sostituisce, dopo quasi sessanta anni, il codice Rocco del
1930. E non deve sorprendere che il primo codice che si è
voluto varare sia proprio quello di procedura penale in quanto
è nota l'interdipendenza tra processo penale ed ordinamento
politico dello Stato. Non era, infatti, possibile lasciare ancora
sopravvivere, dopo l‘instaurazione del regime democratico, un
codice caratterizzato da una struttura inquisitoria, tipica dei
regimi autoritari. Per la verità il codice Rocco del 1930,
indubbiamente pregevole sotto il profilo tecnico, aveva non
poche connotazioni liberali, dovute alla cultura dei giuristi del
periodo prefascista, che in gran parte avevano collaborato alla
sua redazione. Ma l'impronta politica del regime autoritario si
rivelava in molte altre sue disposizioni e, soprattutto, nella
scelta di una istruzione segreta e scritta, di evidente stampo
inquisitorio, in cui veniva lasciato poco spazio al diritto di
difesa ed erano notevolmente compressi i diritti di libertà del
cittadino. E‘ bensì vero che su quella struttura si erano operati,
mediante leggi speciali, numerosi innesti, diretti a garantire il
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diritto di difesa. Ma tale processo di «liberalizzazione», reso
necessario anche per l'entrata in vigore della Costituzione
repubblicana (1948), aveva creato inevitabili scompensi con l‘
originaria struttura inquisitoria del codice: tanto che qualche
autore aveva parlato, a questo proposito, di «garantismo
inquisitorio» o di «soave inquisizione». Si era trattato, peraltro,
sempre di «piccole riforme», come quella realizzata con la
legge 18 giugno 1955 n. 517, di sporadici interventi normativi
o di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte
Costituzionale, perché in contrasto con i principi
costituzionali. La situazione si era complicata ulteriormente
per l'intervento di una serie di innovazioni legislative dettate
dalla necessità di combattere il fenomeno del terrorismo e più
in generale la criminalità organizzata. Queste nuove norme,
generalmente denominate come «legislazione dell'emergenza»,
avevano introdotto, dal 1974 in poi, delle restrizioni
estremamente pesanti ai diritti dell'imputato e, più in generale,
alle garanzie difensive. Contro tali limitazioni non erano
mancate critiche da parte della dottrina. Basterebbe ricordare,
per fare solo un esempio, che per i reati più gravi era prevista
una carcerazione preventiva che poteva giungere fino ad un
massimo di dieci anni ed otto mesi, anche se, con una legge
successiva del 1984, tale limite era stato ridotto a sei anni. Su
questo tema, come su altri - quali la disciplina della
contumacia e la lunga durata del processo penale - anche la
Corte Europea aveva avuto occasione di criticare la
legislazione processuale penale italiana. Per di più, questo
alternarsi e sovrapporsi di riforme di segno opposto,
espressioni di tendenze diverse e contrastanti, aveva dato
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luogo ad un grave disorientamento nella pubblica opinione.
Questi brevi cenni alle vicende subite dal codice di procedura
penale del 1930 fanno capire come le istanze di riforma del
processo penale fossero diventate, negli ultimi tempi, sempre
più insistenti. Per la verità, l'esigenza di riforma era stata
avvertita subito dopo il ripristino delle libertà democratiche. Si
trattava però di scegliere se operare ancora sulla base dei
codice del 1930, con interventi razionali e coordinati, ovvero
optare per un codice ispirato ad un sistema del tutto diverso.
Ecco perché, abbandonata l'idea di interventi parziali e
settoriali, si cominciò a pensare ad una riforma radicale dei
sistema. Il primo tentativo in questa direzione fu fatto, nel
1962, da una Commissione Ministeriale presieduta dal prof.
Francesco Carnelutti, che si concretò in una «bozza di
Progetto», pubblicata nel 1963, ispirata al sistema accusatorio,
ma incompleta e tale da non costituire una piattaforma valida
per una effettiva riforma. Nel 1965 il Parlamento mise mano,
invece, alla elaborazione di una «delega legislativa» al
Governo, per l'emanazione del nuovo codice di procedura
penale. Secondo il sistema della «delega legislativa» il
Parlamento indica solo i «criteri direttivi» ai quali deve
ispirarsi il Governo nella predisposizione dei nuovo codice:
ma questa volta il Parlamento, dopo un lavoro protrattosi per
tre Legislature, approvò una Legge-delega (3 aprile 1974 n.
108) in cui venivano enunciate ben 84 direttive. Di particolare
importanza era la premessa, secondo cui il nuovo codice di
procedura penale doveva «attuare nel processo penale i
caratteri del sistema accusatorio» ed inoltre adeguarsi ai
«principi della Costituzione» ed alle «norme delle
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Convenzioni internazionali ratificate dall'Italia relative ai
diritti della persona». A questo riguardo vale la pena di
ricordare che la Costituzione italiana del 1948, analogamente a
quanto fanno anche altre Costituzioni moderne, dedica molte
disposizioni ai principi che devono regolare il processo, ed in
particolare il processo penale. Basterà ricordare, tra gli altri,
l'art. 13, secondo cui «la libertà personale è inviolabile» e «non
è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o
perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della
libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità
giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». Lo
stesso articolo prevede che «la legge deve stabilire i limiti
massimi della carcerazione preventiva». Non meno importante
è l'art. 24 che proclama «la difesa è diritto inviolabile in ogni
stato e grado del procedimento». Esso impegna, inoltre, il
legislatore ordinario ad «assicurare ai non abbienti, con
appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni
giurisdizione», nonché a determinare «le condizioni e i modi
per la riparazione degli errori giudiziari». Fondamentale è,
altresì, la previsione secondo cui «nessuno può essere distolto
dal giudice naturale precostituito per legge» (art. 25). La
presunzione di innocenza dell'imputato è consacrata, infine,
nell'art. 27 con la formula «L'imputato non è considerato
colpevole sino alla condanna definitiva». Sulla base della
Legge-delega del 1974 una Commissione Ministeriale
predispose un Progetto preliminare di 653 articoli, diviso in
due Parti e composto di undici Libri. Detto Progetto,
pubblicato nel 1978, delineava un tipo di «processo di parti a
struttura accusatoria», con una tendenziale eguaglianza di
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posizione tra P.M. e difensore dell'imputato; aboliva
l'istruzione formale e la figura del Giudice Istruttore e spostava
l'acquisizione della prova alla fase dibattimentale, che
diventava il momento centrale del processo. Il Progetto del
1978 era accompagnato da un'ampia relazione illustrativa, che
dava conto delle radicali innovazioni apportate. Sennonché il
Governo, dopo aver chiesto numerose proroghe, lasciò scadere
il termine previsto dalla Legge - delega, senza tradurre in legge
il Progetto. Tale comportamento può trovare la sua
spiegazione nel difficile momento che l'Italia attraversava in
quel periodo, a causa della grave situazione creata dal
terrorismo e da altre forme di criminalità organizzata. Ma
l'esigenza di avere un nuovo codice di procedura penale
permaneva e diventava, anzi, sempre più urgente, per le gravi
disfunzioni dell'amministrazione della giustizia. Si
lamentavano, soprattutto, l‘ estrema lentezza dei processi, le
lunghe - e spesso ingiustificate - carcerazioni preventive (la
maggior parte dei detenuti era costituita da imputati in attesa di
giudizio), la compressione dei diritti della difesa ed altre
notevoli carenze. Cosicché il Parlamento si mise al lavoro per
elaborare una nuova Legge - delega, che tenesse anche conto
dei rilievi e delle critiche che erano state mosse alla precedente
Legge del 1974 ed al Progetto del 1978. La nuova Legge-
delega veniva approvata dal Parlamento con Legge 16 febbraio
1987 n. 81. Dopo aver premesso, ancora una volta, che il
codice di procedura penale avrebbe dovuto attuare i principi
della Costituzione e adeguarsi alle norme delle Convenzioni
internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della
persona nel processo penale, la nuova Legge-delega ribadiva
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che doveva essere adottato il sistema accusatorio, e fissava in
105 punti le direttive alle quali doveva adeguarsi il nuovo
processo. Si stabiliva, innanzitutto, che il nuovo processo
dovesse ispirarsi alla massima semplificazione delle forme e
dovesse adottare il principio di oralità. Si affermava che
accusa e difesa dovessero essere trattate su base di parità in
ogni stato e grado del procedimento, con obbligo del giudice di
provvedere senza ritardo sulle richieste delle parti e dei
difensori. Si prevedeva il diritto dell‘imputato o del fermato di
essere avvertito immediatamente della facoltà di nominare un
difensore e di farsi assistere dallo stesso nell'interrogatorio e,
in caso di carcerazione preventiva, di conferire con il difensore
immediatamente o subito dopo la esecuzione del
provvedimento limitativo della libertà personale. Si stabilivano
precise garanzie per la libertà del difensore in ogni stato e
grado del procedimento. Venivano previste misure alternative
alla custodia in carcere e si fissava un termine massimo di
quattro anni per la carcerazione preventiva, per i reati più
gravi. Il testo del nuovo codice di procedura penale è stato
predisposto da una Commissione ministeriale e sottoposto al
controllo di «conformità alla delega» da una Commissione
parlamentare presieduta dal prof. Marcello Gallo. Dopo
l'approvazione del Governo, il Presidente della Repubblica,
Francesco Cossiga, firmava il 22 settembre 1988 il Decreto
Presidenziale n. 447, controfirmato dal Guardasigilli prof.
Giuliano Vassalli
1
. È soprattutto la struttura del processo che è
mutata, ispirandosi al modello accusatorio, anziché a quello
1
Pubblicato, poi, nel Supplemento della Gazzetta Ufficiale del 24 ottobre 1988, che
prevede il termine di un anno per l'entrata in vigore del codice.
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inquisitorio. Da più parti si sente ripetere, con insistenza degna
di miglior causa, che il nuovo codice di procedura penale
sarebbe una riproduzione del processo anglo-americano.
Orbene, se si vuole soltanto significare che il nuovo processo
penale italiano è ispirato al modello accusatorio, al quale si
richiamano i processi di tipo anglosassone, si dice cosa esatta.
Non v'è dubbio, infatti, che il nuovo processo italiano si
allontana decisamente dal modello inquisitorio, al quale si
ispirava il codice del 1930, e si presenta come un «processo di
parti». Sennonché, a prescindere dall'ovvio rilievo che ogni
processo, anche a prescindere dalla sua struttura, è modellato
dagli usi e costumi, oltre che dall'ordinamento politico,
giuridico e costituzionale del Paese in cui opera - per cui è
assurdo pensare a trapianti che sarebbero ineluttabilmente
destinati ad una reazione di rigetto - non possiamo non
sottolineare che la scelta del modello accusatorio si riallaccia
alla migliore dottrina italiana e, storicamente, alla genuina
tradizione romanistica. Basta rileggere quanto scriveva Cesare
Beccaria, nella sua immortale opera «Dei delitti e delle pene»,
nella quale si scagliava contro le accuse segrete e contro la
tortura, strumento tipico del sistema inquisitorio, da lui
considerato «mezzo sicuro per assolvere i robusti scellerati e
per condannare i deboli innocenti». Ma, più ancora, vale la
pena di ricordare quanto scriveva Francesco Carrara allorché si
batteva, con parole roventi, contro l'istituto dei giudice
istruttore e, più in generale, contro il sistema inquisitorio. «Sia
abolito ogni segreto - egli ammoniva - anche nel primo
periodo del processo criminale che dicesi inquisitorio. Tutto,
anche qui, si faccia col metodo accusatorio puro, cioè in
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pubblico e nel costante contraddittorio dell'imputato e del suo
difensore». Ecco perché la scelta di fondo del rito accusatorio,
operata fin dalla prima Legge-delega dei 1974 e poi ribadita
nella Legge-delega dei 1987, si ricollega alla migliore
tradizione italiana. Certo, né la Legge-delega del 3 aprile 1974
n. 108 e neppure la nuova Legge-delega 16 febbraio 1987 n.
81, in attuazione della quale è stato redatto il nuovo codice di
procedura penale, realizza un puro modello accusatorio: e
neppure sarebbe stato possibile, non foss'altro perché questo
avrebbe comportato anche il ripristino della «giuria»,
storicamente legata al processo di tipo accusatorio, mentre tale
istituto è stato abolito in Italia e non si è inteso ripristinarlo.
Del resto l'art. 2 della legge-delega 16 febbraio 1987 n. 81
precisa - come già faceva quella del '74 - che il nuovo codice
doveva attuare «i caratteri del sistema accusatorio secondo i
principi e i criteri che seguono». E tra essi, mentre vengono
indicati «l'adozione del metodo orale» e «la partecipazione
dell'accusa e della difesa su basi di parità» (caratteri tipici,
appunto, del sistema accusatorio), si elencano anche direttive
che certamente non sono tipiche del sistema accusatorio
(come, ad esempio, la presenza della parte civile, del
responsabile civile e di altri soggetti sicuramente estranei alla
pretesa punitiva dello Stato). Questo significa che il nuovo
processo, anche se tendenzialmente ispirato al modello
accusatorio, ha, nella stessa intenzione del legislatore
delegante, una struttura propria originale, caratterizzata anche
dalla esigenza, posta giustamente in primo piano dalla legge-
delega, di attuare i principi della Costituzione e di adeguarsi
alle norme delle Convenzioni internazionali ratificate
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dall'Italia e relative ai diritti della persona. Le riforme in
ordine di tempo da ultimo attuate hanno riguardato
l‘introduzione di taluni principi volti a spostare ulteriormente
l‘indirizzo del processo penale italiano verso il profilo
accusatorio con la delineazione del ―giusto processo‖. I
principi scritti nel nuovo art. 111 della Costituzione (legge
costituzionale n. 2 del 1999) sanciscono non solo la necessità
di una piena esplicazione del contraddittorio e quindi della
difesa effettiva, ma anche la necessità di pervenire ad una
decisione in tempi ragionevoli, rendendo in tal modo espliciti e
più vincolanti i principi già implicitamente contenuti negli
articoli 24 comma 2 e 27 comma 2 della Costituzione e
traducendo in canoni oggettivi di legittimità del processo quei
diritti che fino ad ora erano concepiti come garanzia
individuale. Il nuovo testo dell‘art. 111 della Costituzione
sancisce ora la parità fra accusa e difesa, il contraddittorio di
fronte al giudice terzo ed imparziale, nonché la ragionevole
durata del processo. Il contraddittorio rappresenta il cuore
della riforma: la parità delle parti nel processo passa tramite il
contraddittorio di fronte un giudice terzo ed imparziale, ossia
in una posizione d‘indifferenza ed equidistanza rispetto alle
parti. La nuova disposizione assicura che il soggetto indagato
sia informato, in maniera riservata e nel minor tempo
possibile, delle ragioni e della natura delle accuse elevate a suo
carico. Quanto al diritto di difesa, l‘accusato deve disporre del
tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua arringa
difensiva. Tra le condizioni figura la possibilità di interrogare
dinanzi al magistrato colui che ha reso dichiarazioni a suo
carico. L‘imputato, inoltre, ha il diritto di ottenere la
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convocazione in aula e la deposizione davanti alla Corte o al
Tribunale di testimoni a sua difesa nelle medesime condizioni
dell‘accusa e l‘acquisizione di ogni altro strumento di prova a
suo vantaggio. Il processo penale, inoltre, è regolato dal
principio del contraddittorio nella formazione delle prove,
parte importante della riforma, destinata a riflettersi sulla
gestione sui pentiti. L‘articolo in esame sancisce, infatti, "la
colpevolezza dell‘imputato non può essere provata sulla base
di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre
volontariamente sottratto all‘interrogatorio da parte
dell‘imputato o del difensore". La legge, infine, regola tutti i
casi in cui la formazione della prova non ha luogo in
dibattimento per consenso dell‘imputato, per accertata
impossibilità di natura oggettiva, per effetto di provata
condotta illegale. Obiettivo primario dei nuovi principi inseriti
nell‘articolo 111 Cost., pertanto, è la piena operatività del
principio del contraddittorio nella formazione della prova, in
quanto "fine primario ed ineludibile del processo penale non
può che rimanere quello della ricerca della verità". Altro
fondamentale enunciato è la durata ragionevole del processo,
che deve essere inteso non in senso tecnico ma comprensivo
anche della fase procedimentale, nella veste di garanzia
oggettiva contro illogici ed ingiustificati pregiudizi per la
tempestiva definizione dell‘attività giurisdizionale. La
"ragionevole durata dei processi" rappresenta l‘elemento
essenziale affinché il sistema giuridico sia in grado di regolare
concretamente i rapporti che si costituiscono al suo interno.
Del resto un sistema giudiziario veramente efficace e
soddisfacente deve poter contare su strutture operative che
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garantiscano il rispetto delle leggi, evitando in tal modo che
entri in crisi il servizio giustizia, con conseguente perdita di
incisività e significato dell‘opera dei giudici. L‘introduzione
nell‘art. 111 della Costituzione del principio della durata
"ragionevole" del processo, che deve essere assicurata dalla
legge ordinaria, unito a quello del contraddittorio, rappresenta
sicuramente una novità interessante, da valutare attentamente e
che impone di affrontare in modo diverso i vari temi della
giustizia, da quello dell‘efficienza ai limiti ed alle modalità di
esercizio del diritto al silenzio, per giungere alla rielaborazione
di una deontologia professionale del magistrato e
dell‘avvocato, rispondente alle esigenze del processo orale.
Con la legge costituzionale n. 2 del 1999, peraltro, è stato
esplicitamente inserito nella nostra Carta fondamentale un
principio già espressamente previsto dall‘art. 6 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell‘uomo e delle
libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950 e
ratificata dall‘Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Il citato
articolo 6, par. 1 della Convenzione, infatti, riconosce ad ogni
persona il diritto che "la sua causa sia esaminata
imparzialmente, pubblicamente ed in un tempo ragionevole".
Con la ratifica della Convenzione lo Stato italiano si è
obbligato ad organizzare il proprio sistema giudiziario in modo
tale da soddisfare l‘esigenza di garantire uno svolgimento
celere delle cause, adeguando le strutture dell‘amministrazione
della giustizia. Tuttavia, la lentezza dei processi, tipica del
nostro Paese, si riflette in una cronica mancanza di
funzionalità che spiega il motivo per cui il Comitato dei
Ministri del Consiglio d‘Europa abbia posto sotto osservazione
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il nostro sistema giudiziario, nell‘ambito dei suoi compiti di
sorveglianza. Concludendo, sicuramente l‘innovazione più
significativa della riforma del 1988 è stata l‘introduzione della
figura del pubblico ministero, l‘organo affidatario
dell‘esercizio dell‘azione penale. Durante le indagini
preliminari il P.M. è il soggetto attivo del procedimento –
quale titolare delle indagini stesse – con il compito di
raccogliere le informazioni e le conoscenze utili al fine
dell‘esercizio dall‘azione penale
2
; deve svolgere anche
accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona
indagata (art. 358). Nella fase processuale o dibattimentale
rappresenta l‘accusa trasformandosi da soggetto attivo a vera e
propria parte processuale
3
: perde il ruolo di preminenza e
assume una posizione di parità dialettica con la controparte
imputato. La funzione del P.M. è pubblica ed obiettiva:
pubblica perché l‘importanza degli interessi in gioco (come ad
esempio la libertà personale) richiede che la funzione di accusa
sia affidata ad un organo pubblico. E questo – appunto – per
garantire l‘obiettività dell‘operato. Quest‘ultima può essere
sintetizzata nella formula che il P.M. è un terzo nell’azione
allo stesso modo in cui il giudice è un terzo nella
2
L‘attività di indagine è svolta personalmente dal P.M., che può delegare il compimento
di specifici atti alla polizia giudiziaria, a meno che si tratti di interrogatorio
dell‘indagato o di confronti con il medesimo. Gli atti di indagine comprendono anzitutto
quelli acquisitivi della notizia di reato derivanti da denuncia, querela, richiesta, istanza e
referto; seguono gli atti investigativi per la ricostruzione del fatto reato e per la
individuazione del colpevole.
3
Questa ―trasformazione‖ è la conseguenza del promovimento dell‘azione penale che
segna l‘inizio del processo in senso stretto e che il P.M. può esercitare in uno dei modi
contemplati dall‘art. 60. Alternativa all‘incriminazione è la richiesta di archiviazione
consentita sia in caso di infondatezza della notizia di reato, sia quando manchi la
condizione di procedibilità, il reato sia estinto, il fatto non sia previsto dalla legge come
reato o quando sia ignoto l‘autore del reato.
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giurisdizione. I vari uffici del pubblico ministero sono
strutturati in livelli organizzativi comprendenti:
a) la Procura Generale presso la Corte di Cassazione;
b) le Procure Generali presso le Corti di Appello;
c) le Procure della Repubblica presso i Tribunali ordinari;
d) le Procure della Repubblica presso i Tribunali per i
minorenni.
Nei rapporti tra i diversi uffici del P.M. non esiste una
relazione di superiorità gerarchica, ma di mera sovra-
ordinazione, collegata alla progressione del processo al grado
di giudizio successivo. La struttura unitaria dell‘ufficio ha
comportato la sottrazione ai singoli magistrati addetti alla
procura del potere di iniziativa, dovendo essi limitarsi a
segnalare al titolare del proprio ufficio le notizie di reato a loro
pervenute o comunque acquisite, spettando al dirigente la
designazione del magistrato incaricato. Così pure spetta al
titolare dell‘ufficio decidere sulla dichiarazione di astensione
degli altri magistrati e provvedere alla loro sostituzione. Ciò
vale anche nelle ipotesi di incompatibilità. In caso di contrasti
negativi o positivi tra diversi uffici del P.M., ognuno dei quali
declina la propria competenza, spetta al Procuratore Generale
determinare quale ufficio deve procedere. In particolare, ai
sensi dell‘art. 70, comma 3 dell‘ordinamento giudiziario ― i
titolari degli uffici del pubblico ministero dirigono l‘ufficio cui
sono preposti, ne organizzano l‘attività ed esercitano
personalmente le funzioni … quando non designano altri
magistrati addetti all‘ufficio‖. In base a tale norma il titolare
dell‘ufficio può attribuire un procedimento ad un magistrato
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ovvero può esercitare personalmente le funzioni; anche se
ormai si riconosce che la sostituzione può avvenire soltanto
per motivi che attengo alla buona amministrazione. Il potere
direttivo del titolare si attenua quando il magistrato si trova in
udienza. In tal caso il magistrato del pubblico ministero
esercita le sue funzioni con piena autonomia (art. 53, comma
1). Il capo dell‘ufficio provvede alla sostituzione soltanto su
consenso dell‘interessato ovvero se il consenso manca, in caso
di grave impedimento o di rilevanti esigenze di servizio. Vi è
l‘obbligo di provvedere alla sostituzione se il magistrato ha un
interesse privato nel procedimento (art. 53, commi 2 e 3). In
base alla regola esposta nell‘art. 51, comma 3, ogni ufficio del
pubblico ministero è competente a svolgere le sue funzioni
esclusivamente presso l‘organo giudiziario davanti al quale è
costituito. A tale regola sono poste alcune eccezioni che danno
vita a singole ipotesi di rapporti di tipo gerarchico. Il
procuratore generale presso la corte di cassazione svolge una
funzione di sorveglianza, nel senso che ha il potere di iniziare
l‘azione disciplinare contro un qualsiasi magistrato requirente
o giudicante; la decisione spetterà poi al Consiglio Superiore
della Magistratura. Lo stesso Procuratore Generale può essere
chiamato a risolvere un contrasto negativo o positivo tra uffici
del pubblico ministero appartenenti a diversi distretti della di
corte di appello (art. 54 e 54 bis). Il Procuratore Generale
presso la Corte di Appello sorveglia tutti i magistrati requirenti
del distretto. Inoltre in ipotesi tassativamente indicate dalla
legge può avocare le indagini condotte da uno degli uffici
inferiori.