Introduzione
2
Nell’ambito dell’analisi dei fattori intangibili di impresa è necessario sviluppare dei processi
manageriali che permettano di affrontare adeguatamente i problemi specifici posti da questo
tipo di risorse, quali l’elevato rischio e la difficoltà di commercializzazione, ed elaborare degli
strumenti di misurazione sia per i manager sia per gli investitori. Infatti, come affermato da
Krugman, “l’intangibilità degli asset più importanti di cui dispone un’azienda rende
estremamente difficile capire quale sia il suo valore effettivo”.
Negli anni ’90 l’economia era in piena espansione ed i mercati dei capitali erano soggetti a
continui cambiamenti: questo permetteva di tollerare l’adozione di modelli di misurazione e
valutazione dei fattori intangibili poco dettagliati, dato che l’agilità e la velocità erano le armi
vincenti.
Oggi, invece, l’economia cresce lentamente e i mercati dei capitali ristagnano: ciò richiede ai
manager un’elevata attenzione nell’allocazione delle risorse aziendali e agli investitori
un’analisi approfondita dei titoli. In particolare, emerge la necessità per i manager di
sviluppare la capacità di valutare i benefici economici attesi dagli investimenti in ricerca e
sviluppo, in consolidamento di un marchio, in formazione del personale e negli altri
intangibles e confrontarli con quelli attesi dall’investimento in asset tangibili, nel tentativo di
allocare in modo ottimale le risorse aziendali.
I manager, inoltre, dovrebbero effettuare un monitoraggio continuo dell’efficienza con cui
vengono impiegati gli asset intangibili. Ad esempio, la concessione in uso di licenze e know-
how non costituisce una priorità elevata quando gli utili sono cospicui e la crescita del
mercato è alta, ma diventa una fonte importante di reddito nei periodi di bassa crescita. In tali
contesti è anche cruciale un’attenta pianificazione delle pratiche di gestione delle risorse
umane, in termini di formazione accurata, benefit individualizzati e retribuzione incentivante.
La letteratura ha accertato, attraverso numerose ricerche empiriche, l’esistenza di forti legami
tra gli investimenti in intangibles e il valore delle performance di impresa. La misurazione e la
gestione dei fattori produttivi intangibili è quindi cruciale per un’azienda: i manager e gli
investitori hanno a disposizione diversi indicatori quantitativi di specifiche risorse intangibili
per verificare il valore d’impresa, come il valore dei marchi e dei brevetti, l’importo degli
investimenti in R&D o il costo di acquisizione dei clienti. Bisogna però osservare che, mentre
è relativamente facile ottenere informazioni su brevetti e sulla R&D, le informazioni
disponibili sulle risorse umane sono molto scarse.
Introduzione
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Inoltre, la qualità delle informazioni relative all’R&D varia a seconda dei principi per la
contabilizzazione adottati dalle imprese: in alcuni casi gli investimenti in R&D vengono
iscritti come asset nello stato patrimoniale, mentre in altri vengono spesati nel conto
economico. Questa situazione contribuisce a generare asimmetria informativa sul mercato.
Sembra, quindi, auspicabile che le aziende si impegnino a fornire maggiori informazioni sugli
asset immateriali: questo è l’obiettivo dell’International Accounting Standard Board (IASB)
nell’elaborazione degli International Financial Reporting Standards.
La mancata fornitura agli investitori di informazioni rilevanti sugli intangibles dipende, in
gran parte, dalla difficoltà di misurazione e valutazione che caratterizza gli asset immateriali. I
manager, gli analisti finanziari e gli auditor si trovano generalmente a loro agio con l’attuale
clima di segretezza in tema di intangibles poiché, ad esempio, l’immediata spesatura dei costi
di R&D permette di far lievitare la crescita e gli utili dichiarati. Tuttavia, questa mancanza di
trasparenza informativa sugli intangibles genera delle conseguenze negative, sia individuali
sia sociali: dal costo eccessivo del capitale, alla manipolazione delle informazioni finanziarie.
La chiave per ottenere un miglioramento sostanziale nella trasparenza informativa riguardo
agli intangibles è la costruzione di una struttura informativa concreta e coerente in grado di
focalizzarsi sull’elemento essenziale: il processo di creazione di valore messo in atto
dall’impresa.
Quindi, la base scientifica da cui partire per studiare il ruolo svolto dai fattori intangibili nelle
performance di impresa, riguarda i metodi di valutazione del valore dell’impresa nel suo
complesso. Per questo motivo, nel presente studio abbiamo innanzitutto analizzato i principali
metodi reddituali per la valutazione delle aziende: le tecniche di valutazione relativa, il
metodo Discounted Cash Flow e il metodo delle opzioni reali. Gli investitori sono solitamente
spinti da attese sul rendimento e quindi risulta naturale utilizzare come riferimento per la
valutazione di impresa la capacità della stessa di generare reddito. Oltre a ciò, però, è
necessario tener conto del contesto economico nel quale l’impresa opera al fine di operare una
corretta stima delle performance aziendali.
Gli input produttivi intangibili sono stati teorizzati a livello internazionale da Baruch Lev,
Robert F. Reilly e Robert P. Schweihs, e in Italia da Luigi Guatri, che hanno anche proposto
metodi alternativi per la misurazione e la valorizzazione di queste risorse.
Oltre ai principi teorici, in materia di definizione, classificazione e misurazione degli
intangibles, in letteratura sono presenti studi empirici che indagano la relazione tra gli asset
intangibili, le relative voci di ammortamento e il valore di mercato di un’impresa.
Introduzione
4
Tra i più significativi vi è lo studio condotto da Jennings, Robinson, Thompson II e Duvall
(1996), che spiega il valore di mercato utilizzando le sole voci di stato patrimoniale ed è
condotto su un campione di imprese americane appartenenti a diversi settori, quotate al NYSE
tra il 1982 e il 1988. Le conclusioni di questo lavoro evidenziano una forte relazione positiva
tra intangibles capitalizzati e market value.
In modo analogo Choi, Kwon e Lobo (2000), studiando un campione di imprese americane
quotate tra il 1978 e il 1994, trovano una forte relazione positiva tra gli asset intangibili e il
valore di mercato. Oltre a ciò, gli autori indagano la natura della relazione tra le voci di conto
economico e rendimenti azionari. Essi, però, non trovano evidenza di un legame tra
ammortamento degli intangibles e performance di impresa e giustificano ciò sostenendo che i
principi per la contabilizzazione delle risorse intangibili negli Stati Uniti sono inadeguati.
Un altro studio rilevante in materia di intangibles è quello condotto da Ely e Waymire (1999)
su un campione di imprese americane sul NYSE nel 1927. Gli autori scelgono questo
particolare periodo perché ritengono che presenti caratteristiche analoghe a quello odierno, in
termini di grado di innovazione tecnologica e mancanza di adeguati principi per la
contabilizzazione degli intangibles. L’analisi considera congiuntamente l’influenza sia delle
voci di stato patrimoniale sia di quelle di conto economico sul market value dell’impresa. I
risultati, oltre ad evidenziare una relazione positiva tra asset intangibili e prezzo delle azioni,
indicano l’esistenza di un’interazione tra gli asset intangibili e gli utili di esercizio, che viene
percepita in modo negativo dal mercato. Tuttavia, pur concordando con gli autori
sull’adeguatezza del modello nel valutare gli intangibles nel periodo odierno, riteniamo che i
risultati non siano confrontabili con quelli ottenibili tramite l’applicazione dello studio al
periodo presente.
Il nostro approccio in questo lavoro è di tipo critico; infatti, la letteratura precedente a cui si è
fatto riferimento assegnava al rapporto tra market value e book value degli asset intangibili un
valore superiore a tre.
Un coefficiente così elevato ci fa presumere che gli intangibles fossero sopravvalutati dal
mercato nei casi considerati: il nostro obiettivo è di verificare tale ipotesi, ossia indagare se è
possibile ottenere un coefficiente più ridotto della relazione tra asset intangibili e valore di
mercato.
Per svolgere la nostra analisi, abbiamo costruito, a partire dai dati presenti in Datastream, un
database che raccoglie i dati di bilancio, la capitalizzazione di Borsa, il valore dei principali
multipli, il numero delle azioni e il profilo delle imprese del campione. Quest’ultimo è
Introduzione
5
composto dalle aziende del settore chimico e farmaceutico di Francia, Germania, Italia, UK e
Svizzera; il periodo di analisi va dal 1992 al 2001 e si estende fino al 2002 in alcuni casi
particolari. Nel passare dal 1992 al 2001, il numero di imprese del settore chimico
considerate aumenta da 35 a 62, mentre quello delle imprese farmaceutiche passa da 26 a 73.
Abbiamo valutato le prestazioni dei modelli presenti in letteratura, richiamati in precedenza,
che utilizzano tutti l’approccio statistico delle regressioni per valutare le performance di
impresa.
Le caratteristiche che contraddistinguono il nostro lavoro sono:
- l’approccio per fasi successive al fine di rendere via via più omogenei i dati utilizzati
nello stimare i modelli di regressione. Ciò è stato ottenuto classificando i dati del
campione in base al settore, al Paese di appartenenza e in base all’incidenza degli asset
intangibili sul totale degli asset iscritti a bilancio;
- la ricerca di una relazione tra i risultati forniti dai modelli e i principi contabili vigenti
nei Paesi analizzati;
Questo modo di procedere, a nostro parere, ci permette di ottenere delle stime più
significative del coefficiente che descrive la relazione tra asset intangibili e market value.
Un ultimo aspetto evidenziato dalla letteratura è che il valore delle risorse intangibili può
essere approssimativamente stimato attraverso il rapporto market to book value. Può essere,
quindi, utile indagare la relazione esistente tra il multiplo BM e le performance di impresa.
A tal fine, abbiamo verificato il modello a tre fattori di Fama e French nella sua versione del
1993, che lega il rendimento di un portafoglio di azioni a tre fattori di rischio: il rischio di
mercato, quello legato alla dimensione di impresa (in termini di capitalizzazione di Borsa) e
quello che dipende dal rapporto book to market.
Seguendo l’approccio degli autori, abbiamo individuato quattro portafogli costruiti
suddividendo i dati annuali relativi alle imprese inglesi nel periodo che va dal 1992 al 2001,
in base alla dimensione e successivamente in base al rapporto book to market. Il modello
viene applicato ad ognuno dei quattro portafogli così ottenuti con l’obiettivo di verificare le
relazioni trovate da Fama e French tra rendimenti azionari e dimensione, fissato il book to
market, e tra rendimenti e rapporto BM, fissato il market value dell’impresa.
In conclusione, il lavoro svolto ha permesso di quantificare il contributo che gli asset
intangibili apportano al valore d’impresa e di verificare che esso è più basso di quello indicato
Introduzione
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dalla letteratura precedente. Inoltre, ha permesso di stabilire quali siano i criteri più adeguati
per riportare a bilancio il valore delle risorse intangibili, al fine di fornire agli stakeholders
un’informazione completa sui benefici attesi da questi input produttivi e sul rischio che li
caratterizza. In questo senso, l’analisi per Paesi ha consentito di stabilire che i principi inglesi
sono quelli che permettono di valorizzare più adeguatamente le risorse immateriali: non a
caso gli UK GAAP sono già molto simili ai futuri IFRS.
Capitolo 1. I Principali Metodi di Valutazione d’Impresa
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Capitolo 1
I PRINCIPALI METODI DI VALUTAZIONE
D’IMPRESA
1.1 GENERALITA’
La valutazione d’impresa viene effettuata in letteratura attraverso diversi metodi e mediante
l’utilizzo di vari parametri, la cui eterogeneità rispecchia le diversità degli interessi degli
stakeholders.
Dal punto di vista di una terza parte estranea agli interessi dei venditori e degli acquirenti,
ottica nella quale ci poniamo in questo lavoro di tesi, il sistema aziendale viene valutato in
base al valore economico del capitale.
Il concetto di valore economico è stato teorizzato da G. Zappa (1937), il quale afferma che il
capitale economico “non è un fondo di valori diversi sebbene coordinati, ma è un valore
unico, risultante dalla capitalizzazione dei redditi futuri”.
Da tale definizione consegue che il capitale economico, essendo un valore unico e sintetico, si
distingue da quello contabile, che può essere scisso in componenti elementari ed analitiche.
Il capitale economico è il valore dell’impresa nell’ipotesi di scambio ed è superiore a quello
contabile, poiché tiene conto di fattori non iscritti a bilancio quali le relazioni con gli
stakeholders, l’avviamento e le potenzialità di crescita. Il valore economico, quindi,
comprende anche gli intangibles, risorse che spesso non compaiono nei bilanci delle imprese,
e ciò lo rende particolarmente adatto alla valutazione delle performance d’impresa e
dell’influenza che i fattori intangibili hanno su di esse, obiettivo del presente lavoro.
Capitolo 1. I Principali Metodi di Valutazione d’Impresa
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Secondo Zappa, la stima del valore del capitale economico d’impresa deve soddisfare tre
requisiti:
- la razionalità, in termini di consistenza teorica e validità concettuale;
- l’obiettività, che è garantita solo dall’utilizzo di dati certi;
- la generalità: il metodo deve prescindere dalle caratteristiche e dagli interessi delle
parti.
Il principio di generalità esige che nella valutazione del capitale economico di un’impresa non
si tenga conto di interessi particolari.
Il valore del capitale economico è determinato, per definizione, nell’ipotesi di scambio.
Pertanto, è opportuno evidenziare i fattori che determinano l’esistenza di un divario, almeno
dal punto di vista teorico, tra il valore del capitale economico ed il prezzo che viene
effettivamente corrisposto per l’impresa.
In primo luogo, tale differenza può essere imputata agli interessi particolari ed ai calcoli di
convenienza del venditore e dell’acquirente, che influenzano il prezzo ma non il capitale
economico, come prescritto dal principio di generalità.
Inoltre, nel processo di determinazione del prezzo emergono delle condizioni soggettive di
valutazione, assenti nella stima del valore del capitale economico. Tra di esse possono
annoverarsi le asimmetrie informative, la forza contrattuale e l’abilità di negoziazione delle
parti, o la divergenza di posizione dei soggetti coinvolti, che può portare l’acquirente ad
acquistare l’azienda ad un prezzo superiore al capitale economico per ottenere una nuova
posizione sul mercato, ad esempio attraverso l’ingresso in un nuovo settore.
Infine, il divario tra prezzo e valore del capitale economico d’impresa è spesso rilevante in un
contesto caratterizzato da una significativa dissociazione tra proprietà e controllo di
un’impresa. In tale situazione, infatti, la divergenza tra gli interessi (economici e non
economici) personali del management e quelli dei proprietari dell’impresa può portare i
manager ad intraprendere un’operazione di merger ed acquisition solo per soddisfare i propri
bisogni di status, prestigio e potere, anche se il prezzo corrisposto supera il valore economico
dell’impresa acquisita. Questo problema è stato affrontato da Jensen e Mecling (1976) che,
nel loro modello del valore del controllo dimostrano che la convenienza all’estrazione di
benefici privati da parte dei soggetti controllanti (i manager) aumenta al crescere della
separazione tra proprietà e controllo, poiché il management ha la possibilità di scaricare, in
parte, il costo dell’estrazione dei benefici privati sugli azionisti terzi.
Capitolo 1. I Principali Metodi di Valutazione d’Impresa
9
La divergenza tra valore del capitale economico e prezzo è stata affrontata in letteratura da
diversi autori. Tra i contributi più rilevanti si possono segnalare quelli di Porter (1992) e di
Guatri (1990).
Porter, attraverso uno studio condotto sui mercati americano, tedesco e giapponese, ha
evidenziato che i prezzi, a differenza del valore del capitale economico, sono largamente
influenzati dal modo secondo il quale ragionano ed operano gli investitori nei vari Paesi. Nel
mercato USA, infatti, si investe in azioni di imprese con azionariato diffuso, quindi si ha
un’elevata liquidità del capitale; i mercati di Germania e Giappone, invece, sono caratterizzati
da investimenti in aziende con assetti proprietari stabili e con quote di partecipazione
significative (si parla di capitale dedicato). Inoltre, lo studio di Porter dimostra che, nel
processo di determinazione del prezzo, il mercato statunitense acquisisce informazioni
dall’esterno, mentre quelli di Giappone e Germania puntano sulla trasparenza del flusso
informativo tra azienda ed investitori.
Nella definizione del prezzo, Guatri sostiene che esso è un dato, mentre il valore è spesso
un’opinione o, almeno, un’interpretazione di una realtà complessa. Il prezzo dipende da
fenomeni e forze esterne ed incontrollabili, quali l’efficienza dei mercati finanziari o la
domanda e l’offerta di titoli azionari, sulle quali è difficile per imprenditori e manager
esercitare un’attività di controllo.
I prezzi sono, per loro natura, altamente volatili, cioè variano anche senza precise ragioni
collegabili all’impresa, e comunque le loro variazioni non sempre sono spiegabili. Viceversa,
i valori variano molto più lentamente e soprattutto per ragioni direttamente o indirettamente
collegabili all’impresa. Infine, le variazioni di valore non si trasferiscono immediatamente e
pienamente nei prezzi, ma sono necessari processi complessi e tempi lunghi.
Guatri (1987) identifica il paradigma teorico di valutazione del capitale economico nella
seguente formula:
W =
n
n
s
n
s
s
vPvd **
1
ƒ
dove W è il valore economico del capitale, d
s
è il dividendo pagato dall’azienda nell’anno s-
esimo, v
s
è il coefficiente di attualizzazione, P
n
è il prezzo più probabile dell’azienda al tempo
n.
Capitolo 1. I Principali Metodi di Valutazione d’Impresa
10
In letteratura è stato però evidenziato un limite della formula proposta da Guatri: essa, infatti,
non rispetta il requisito dell’obiettività, dal momento che i flussi di dividendo prospettici e il
prezzo finale dell’azienda sono incerti e largamente imprevedibili.
In sintesi, si può affermare che il valore del capitale economico di un’impresa è il frutto di
una stima, che viene ripetuta periodicamente ed è basata su una varietà di criteri e metodi che
possono condurre a risultati sostanzialmente diversi.
Il prezzo, invece, è la risultante di una negoziazione o di una serie di negoziazioni: se esse si
verificano frequentemente (come accade per le società quotate) si ha una serie continua di
prezzi nel tempo; in caso contrario, ad esempio per le quote di controllo del capitale, si hanno
prezzi che sono stabili per lunghi intervalli di tempo.
Si può, quindi, concludere che il prezzo non esprime una valutazione del capitale d’impresa
(anche se, talvolta, i prezzi di aziende similari possono assumere significato nella stima di
un’azienda, attraverso appropriati confronti). È, invece, necessario disporre di metodologie
per la stima del valore del capitale economico d’impresa.
I metodi di stima più utilizzati in letteratura sono quelli reddituali, in particolare quello
finanziario, radicato soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, quello basato sulle opzioni
reali ed i metodi relativi.
Nella restante parte del capitolo, verranno presentati i diversi metodi di valutazione, a partire
da quello di più semplice applicazione, ossia quello della valutazione relativa attraverso i
multipli dei fondamentali d’impresa, per poi arrivare al metodo DCF, che è il più utilizzato in
letteratura, al metodo EVA, ed infine al metodo delle opzioni reali.
È opportuno osservare che, ai fini del nostro lavoro di tesi, il metodo più rilevante è quello dei
multipli, in particolare quelli del valore di libro. Attraverso l’analisi di tali indici, infatti, è
possibile ottenere una proxy del valore delle risorse intangibili.
Capitolo 1. I Principali Metodi di Valutazione d’Impresa
11
1.2 I METODI DI VALUTAZIONE RELATIVA
L’obiettivo di una valutazione relativa è stimare il valore di un’attività sulla base dei prezzi
correnti assegnati dal mercato ad attività simili.
I metodi basati sui multipli sono ampiamente utilizzati per la loro semplicità; essi, infatti,
richiedono meno ipotesi dei metodi finanziari e permettono quindi una stima più rapida.
Inoltre, avendo per obiettivo la stima di un valore relativo e non di un valore intrinseco,
tendono a riflettere l’andamento del mercato finanziario.
Nonostante questi vantaggi, i metodi relativi presentano dei limiti che ne diminuiscono
l’affidabilità.
In primo luogo, la facilità di valutazione può comportare determinazioni di valore poco
coerenti, che non tengono conto di input significativi, quali il rischio o la crescita.
Inoltre, il fatto che i multipli riflettano l’andamento del mercato implica che la stima basata su
di essi sia in realtà una sovrastima o una sottostima, a seconda che il mercato stia
sopravvalutando o sottovalutando le imprese comparabili nell’istante della valutazione.
Infine, le valutazioni relative sono soggette a manipolazioni, a causa della mancanza di
trasparenza sulle ipotesi ad esse sottostanti.
Il processo di valutazione relativa è composto da due fasi:
- la standardizzazione dei prezzi, necessaria per valutare tutte le attività in termini
relativi. È ottenuta convertendo i prezzi in multipli di qualche dato contabile;
- l’individuazione di imprese simili.
I multipli possono essere classificati in base alla grandezza contabile rispetto a cui sono
calcolati. In tal senso si distinguono:
- i multipli degli utili, come il price earnings ratio, PE;
- i multipli del book value, quale il book to market ratio, BM;
- i multipli del valore di rimpiazzo (Q di Tobin)
- i multipli dei ricavi, come il price sales ratio, PS e il value sales ratio, VS.
Per utilizzare la valutazione relativa bisogna, innanzitutto, definire il multiplo da utilizzare, in
modo che sia il numeratore e sia il denominatore del multipli siano tra loro coerenti (riferiti
Capitolo 1. I Principali Metodi di Valutazione d’Impresa
12
entrambi all’equity o al valore d’impresa) e siano definiti in modo omogeneo per tutte le
imprese comparabili.
In secondo luogo bisogna analizzare la distribuzione del multiplo per avere un’idea di quale
sia un intervallo di valori tipico per quel multiplo in uno specifico mercato e capire l’effetto di
valori estremi sulle medie.
Il terzo passo consiste nell’analizzare il multiplo, ossia le sue determinanti fondamentali:
rischio, crescita e capacità di generare flussi di cassa. Oltre ad esse, un multiplo dipende
anche da molte altre variabili; poiché non è possibile analizzare l’impatto di ciascuna sul
multiplo, in genere si sceglie una variabile guida, ossia la variabile di maggior impatto.
L’ultimo passaggio consiste nell’individuare le imprese comparabili a quella in esame, ossia
simili ad essa in termini di flussi di cassa, potenziali di crescita e rischio. Questa definizione
non implica che le imprese comparabili debbano appartenere allo stesso settore; nella prassi,
però, gli analisti includono tra le imprese comparabili tutte quelle operanti nello stesso settore.
Se vi sono molte imprese nel settore, viene talvolta effettuata un’ulteriore selezione, basata
sulle dimensioni delle imprese.
Se, invece, il numero di imprese di un settore è basso, in genere gli analisti includono tra le
imprese comparabili anche aziende appartenenti a settori diversi rispetto a quella oggetto di
valutazione.
Nell’analisi delle imprese comparabili è necessario tenere conto delle differenze esistenti tra
di esse, in termini di fondamentali, e ciò può essere fatto tramite tecniche statistiche, come la
regressione.
In genere, se le differenze tra le imprese sono limitate, si possono operare delle rettifiche al
valore dei multipli, per tenere conto del fattore più importante che lo determina: si definisce
una variabile guida per ogni impresa, come accennato in precedenza, e si ipotizza che le
imprese comparabili abbiano gli stessi fondamentali e differiscano solo in tale variabile.
Quando le imprese differiscono per più aspetti non è possibile operare delle rettifiche per
compensare le differenze; si utilizzano, invece, delle regressioni dei multipli sulle variabili e
si utilizza l’equazione di regressione ottenuta per stimare il valore delle imprese. Questo
approccio dà risultati affidabili quando il numero delle imprese comparabili è elevato e la
relazione tra i multipli e le variabili è lineare.
L’approccio della regressione ha il vantaggio di quantificare la relazione tra i fondamentali e i
multipli. Tale relazione, però, è calcolata in base a dati di mercato e quindi è soggetta alle
imprecisioni derivanti dagli errori di previsione degli analisti.
Capitolo 1. I Principali Metodi di Valutazione d’Impresa
13
La valutazione relativa e quella basata sull’attualizzazione dei flussi di cassa, in generale,
portano a stime diverse del valore di impresa, a causa del diverso principio economico che
sottende questi due metodi. L’approccio del DCF, infatti, ipotizza che il mercato commetta
errori di valutazione, ma che nel tempo questi errori vengano corretti tramite revisioni delle
previsioni effettuate dagli analisti. La valutazione relativa, invece, assume che i prezzi di
mercato siano, in media, corretti anche se vi è la possibilità che il mercato commetta errori nel
valutare singoli titoli.
1.2.1 UTILIZZO DEI MULTIPLI DA PARTE DEGLI INVESTITORI
Il metodo dei multipli può essere utilizzato dagli investitori come leva del processo
decisionale riguardante le transazioni da effettuare sui mercati finanziari.
I multipli, infatti, sono un parametro fondamentale utilizzato dai mercati per effettuare una
classificazione dei titoli delle imprese. In merito a ciò, si possono distinguere:
- value stock, caratterizzate da elevati rapporti BM, PE, CP (cash flow to price) e bassi
utili;
- growth stock, caratterizzate da bassi rapporti BM, PE, CP ed elevati utili.
In base alla classificazione delle azioni secondo il criterio esposto, gli investitori possono
decidere quali titoli includere nei propri portafogli d’investimento.
La scelta degli investitori è legata principalmente ai rendimenti che i titoli azionari
forniscono.
Fama e French (1998) hanno dimostrato che le value stock tendono ad avere rendimenti più
alti delle growth stock, attraverso un’analisi dei rendimenti di portafogli formati da growth e
value stock quotate sul mercato americano e nell’EAFE (Europa, Australia, Far East) nel
periodo 1975-1995.
Gli autori sostengono che il maggior rendimento delle value stock, rispetto alle growth stock,
è legato a un maggior premio richiesto dagli investitori come compensazione per il mancato
rischio.
Questo risultato è in contraddizione con studi precedenti (Lakonishok, 1994; Haugen, 1995),
in base ai quali le value stock hanno un rendimento più elevato perché sono inizialmente
Capitolo 1. I Principali Metodi di Valutazione d’Impresa
14
sottovalutate dal mercato, al contrario delle growth stock, che sono sopravvalutate: quando il
mercato corregge tali errori di valutazione allora il rendimento delle value stock cresce.
Un’ulteriore evidenza del fatto che gli investitori utilizzano i metodi di valutazione relativa
nelle proprie decisioni d’investimento è fornita da Dechow, Hutton, Muelbroek e Sloan
(2001). Gli autori hanno evidenziato che i multipli sono utilizzati per fare previsioni sui
rendimenti futuri dei titoli di un’impresa e possono essere considerati un buon punto di
partenza per analizzare le strategie di scambio di titoli azionari. In particolare, gli autori hanno
studiato le strategie utilizzate nelle vendite allo scoperto (short-selling).
Nella vendita allo scoperto un investitore vende un titolo che non di sua proprietà ma è preso
in prestito e trae profitto se il titolo è sopravvalutato. Lo short-seller può ottenere un massimo
guadagno pari al prezzo di vendita dell’azione, se in seguito il prezzo crolla a zero, oppure
può incorrere in una perdita teoricamente illimitata al crescere del prezzo.
L’analisi condotta da Dechow, Hutton, Muelbroek e Sloan su un campione di imprese
americane evidenzia che gli short seller vendono allo scoperto azioni di imprese con bassi
fundamental-to-price ratio, allo scopo di trarre profitto dai più bassi rendimenti, e chiudono le
loro posizioni quando i rendimenti previsti vengono realizzati.
Infatti, l’analisi evidenzia un costante declino nelle short position al crescere dei rapporti book
to market e value to market, ossia gli short-seller scelgono le azioni con bassi multipli.
In due soli casi in cui gli short seller scelgono di non vendere allo scoperto azioni di imprese c
n bassi multipli: se i costi di transazione per la vendita allo scoperto sono troppo alti, oppure
se gli short-seller hanno informazioni che indicano che le azioni non sono al momento
sopravvalutate.
Questo studio, quindi, dimostra come i multipli vengano largamente utilizzati dagli
investitori, nella fattispecie dagli short-sellers, per costruire i propri portafogli di azioni. La
scelta dei criteri di valutazione relativa può essere ricondotta principalmente alla semplicità
che li caratterizza.
Limiti dei metodi di valutazione relativa
I metodi di valutazione relativa sono i più semplici tra gli i criteri reddituali che vengono
utilizzati in letteratura per la determinazione delle performance d’impresa; tuttavia, essi
presentano delle limitazioni.
Capitolo 1. I Principali Metodi di Valutazione d’Impresa
15
Il limite principale è legato al fatto che, nella maggior parte dei casi, si assumono come
imprese comparabili quelle dello stesso settore dell’impresa in esame e ciò può portare a
valutazioni distorte, dovute ad una sopravvalutazione o sottovalutazione dell’intero settore.
Un modo per ovviare a questo problema, almeno in via teorica, è ampliare l’elenco delle
imprese comparabili ed effettuare delle regressioni sull’intero mercato per tenere conto delle
differenze tra di esse. Uno dei primi studi in merito (Kisor, Whitbeck, 1963) ha effettuato una
regressione utilizzando i dati della Bank of New York relativi a 135 titoli nel giugno 1962 ed
ha ottenuto un’equazione in cui le variabili di regressione sono: la varianza dell’EPS, il tasso
di crescita degli utili e il rapporto di distribuzione degli utili, ossia le determinanti
fondamentali del rapporto PE.
I risultati ottenuti dagli autori tramite la regressione spiegano la differenza tra i rapporti PE,
ma non sono in grado di predire la performance dell’impresa. I limiti dell’approccio della
regressione sono rappresentati dal fatto che spesso le variabili di regressione non sono
indipendenti tra loro: ciò diminuisce l’affidabilità del modello. Alla base della regressione
utilizzata dagli autori, si ha l’ipotesi di rapporto lineare e stabile nel tempo tra PE e i
fondamentali, che può non corrispondere alla realtà; in particolare, se la relazione non è
stabile, utilizzare l’equazione di regressione per effettuare previsioni può non essere
appropriato.
L’applicazione pratica dell’approccio della regressione, quindi, richiede innanzitutto
l’individuazione del tipo di modello (lineare o non lineare) da utilizzare, aspetto che rende
molto più complesso l’utilizzo dei multipli per la valutazione delle performance d’impresa.
Pertanto, nella pratica, risulta molto complesso ovviare al problema del pericolo di possibili
valutazioni distorte, che restano il principale limite dei metodi di valutazione relativa.