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Introduzione
Il nostro sistema di relazioni sindacali ha sviluppato progressivamente una molteplicità di
livelli di negoziazione, distinti in funzione della qualità dei soggetti partecipanti, delle
materie oggetto di confronto e dell'ampiezza del campo di applicazione. In particolare, la
contrattazione collettiva si presenta articolata verticalmente nei seguenti livelli, in genere
corrispondenti ai livelli organizzativi dei soggetti negoziali: quello interconfederale,
nazionale di categoria e decentrato.
L'accordo interconfederale si trova al vertice del sistema contrattuale, giacché viene stipulato
direttamente dalle confederazioni datoriali e sindacali, e disciplina determinati istituti (ad
esempio oggi le rappresentanze sindacali unitarie) per i quali le parti ritengono necessaria od
utile una regolamentazione uniforme per una pluralità di categorie.
Il contratto collettivo nazionale di categoria costituisce il fulcro del sistema contrattuale.
Esso è stipulato periodicamente (attualmente ogni quattro anni) dalle organizzazioni
sindacali nazionali di categoria dei lavoratori e dei datori di lavoro e disciplina i minimi di
trattamento economico-normativo (c.d. contenuto normativo) applicabili ai contratti
individuali di lavoro riconducibili a quelle categorie di cui esso si occupa, nonché i rapporti
tra i soggetti stipulanti (c.d. contenuto obbligatorio). Il contratto collettivo nazionale di
categoria può altresì rinviare al contratto collettivo di settore.
Il contratto decentrato è quello che viene stipulato a livello territoriale (provinciale o
regionale) ovvero a livello di luogo di lavoro. Questo normalmente coincide con l'azienda,
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ma può anche essere di livello superiore (gruppo di aziende) o inferiore (stabilimento,
reparto etc.). Anch‟ esso disciplina gli standard di trattamento economico-normativo, nonché
interviene sui singoli problemi di gestione delle crisi, con la peculiarità che si applica ai
rapporti di lavoro ed alle relazioni sindacali rientranti nel suo limitato ambito di
applicazione.
Nello studio dell‟evoluzione della contrattazione collettiva occorre far riferimento a sei tappe
fondamentali riconducibili a determinati periodi storici: anni '50, anni '60, prima metà degli
anni '70, seconda metà degli anni '70, anni '80 ed anni '90.
Si cerca di descrivere come la contrattazione collettiva, da un sistema fortemente
centralizzato, si sia evoluta passando attraverso l'esperienza della contrattazione articolata,
del decentramento conflittuale, della ricentralizzazione, fino al sistema odierno delineato dal
Protocollo del 23 luglio 1993, a sua volta recentemente sostituito dall‟accordo entrato in
vigore il 15 aprile 2009, riguardante regole e procedure della negoziazione e della gestione
della contrattazione collettiva. Esso conferma i due livelli della struttura contrattuale: uno
nazionale di categoria e l‟altro, alternativamente, aziendale o territoriale (laddove previsto
secondo l‟attuale prassi). Nonostante la conservazione di una struttura ormai consolidata nel
tempo, il nuovo accordo pone modifiche significative che si inseriscono tra le righe di
quanto già esistente. Invero, con l‟obiettivo di rilanciare la crescita economica del Paese si
cerca di potenziare la contrattazione territoriale, quale sede decentrata e via per migliorare le
condizioni salariali e normative di interi comparti produttivi.
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Capitolo primo
I contratti collettivi e loro distinzione
1.1 Le fonti del diritto del lavoro in generale
Il primo aspetto da prendere in considerazione nella trattazione del tema dei contratti
collettivi è quello della loro appartenenza alle fonti del diritto del lavoro.
La dinamica del rapporto tra le fonti del diritto del lavoro potrebbe essere affrontata in
termini, per così dire, istituzionali. Si dovrebbe allora partire dal riesame del sistema
gerarchico stabilito dal codice civile per il quale, secondo gli artt. 1 e 7 delle disposizioni
sulla legge in generale, sono fonte del diritto, nell‟ordine, “le leggi, i regolamenti, le norme
corporative, gli usi”, mentre “le norme corporative non possono derogare alle disposizioni
imperative delle leggi e dei regolamenti”.
Dopo avere chiarito che la dizione ”norme corporative” va ritrascritta (depurando la
definizione di cui all‟art.5 delle medesime disposizioni sulla legge in generale) in “norme dei
contratti collettivi di lavoro”, occorrerebbe quindi osservare che l‟assetto gerarchico, nella
sistematica del codice civile, è poi completato dal 2° comma dell‟art.2077, secondo cui “le
clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi al contratto collettivo,
sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali
condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro”, mentre l‟attributo della “inderogabilità” del
contratto collettivo è stato poi riconfermato dal 1° comma dell‟art. 2113 c.c. (come riformato
dalla legge n. 533 del 1973). Al riguardo, bisognerebbe inoltre interrogarsi sulla possibilità
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di includere il contratto collettivo di lavoro nello stesso sistema formale delle fonti, ovvero
di qualificarlo come fonte extra ordinem
1
; oppure domandarsi se non sia più opportuno
seguire l‟insegnamento tradizionale, che vieta tale inclusione in ragione del fatto che il
contratto collettivo, data l‟inattuazione dell‟39 della Costituzione, resta - in generale - un
contratto di “diritto comune” e quindi, essendo mera fonte di obbligazioni tra le parti, non è
assimilabile al sistema delle fonti di diritto oggettivo.
Il tema può essere tuttavia osservato, in termini meno scolastici, ponendosi dal punto di vista
sostanziale, cioè dall‟angolo visuale di un concreto rapporto di lavoro ipotizzato nella sua
medietà sociale, e immaginando quindi di essere nella posizione di un lavoratore, in una
azienda privata di medie dimensioni e con un tasso normale di sindacalizzazione, il quale si
trova di fronte al problema della determinazione delle sue condizioni di lavoro.
In tal caso possono verificarsi, schematicamente, due alternative. Può essere che tale
lavoratore occupi una posizione forte sul mercato, perché in possesso di una professionalità
pregiata, e che quindi egli detenga un effettivo potere di negoziazione individuale: in questo
caso lo strumento principale di disciplina del rapporto di lavoro diventa, nei fatti, il contratto
individuale, stipulato in ragione delle reciproche convenienze.
La rilevanza di questo strumento di regolamentazione sembra essersi di recente accresciuta:
ciò significa che una quota della forza lavoro ha acquistato maggiore potere sul piano della
determinazione delle condizioni di lavoro e che quindi, almeno per alcuni settori di mercato,
si riattualizza il paradigma liberale, fondato su la parità dei contraenti, mentre verrebbero
meno, per logica conseguenza, in tali settori, la necessità di normative imperative statuite
dalle fonti superiori.
Non sempre però le situazioni, dal punto di vista del singolo, sono così rosee: non tutti, cioè,
si trovano nella posizione di chi detiene una professionalità ricercata sul mercato, e può
1
Mengoni L., Le fonti del diritto del lavoro, Milano, Giuffrè, 1962.
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quindi usare le discipline standard previste in sede collettiva come semplice base di partenza
delle trattative individuali.
Non è necessario riferirsi alle componenti più sfavorite della manodopera le quali, senza
sostegno pubblico, verrebbero inesorabilmente marginalizzate dalla logica di mercato. E‟
sufficiente pensare al lavoratore comune, privo di una specifica forza contrattuale e
condizionato dagli squilibri sfavorevoli all‟offerta di lavoro.
Su questi due termini essenziali, giova chiarirlo, si è svolta la dinamica di fondo dei rapporti
di lavoro nell‟epoca industriale. Sulla rilevazione di uno squilibrio strutturale, a svantaggio
del lavoratore, è nato infatti il diritto del lavoro.
Il lavoratore comune, sprovvisto di una propria forza negoziale, deve perciò guardare alle
fonti di carattere superiore, la cui funzione è appunto quella di porre un limite alla
incondizionata libertà di negoziazione sul piano individuale e alla supremazia del datore di
lavoro. Così in sede di contratto individuale, non si potrebbe, ad esempio, attribuire al datore
di lavoro la facoltà di adibire il lavoratore a qualsiasi tipo di mansioni, oppure di richiedere
prestazioni incondizionate di lavoro straordinario o festivo o in rinuncia al riposo settimanale
o al periodo feriale, ne si potrebbe prevedere la risoluzione del rapporto in caso di malattia,
né, tanto meno, l‟occultamento di parti della retribuzione a fini di evasione dei contributi
previdenziali. In tutti questi casi infatti esistono norme legislative che stabiliscono discipline
imperative, inderogabili dalle parti, da cui deriva l‟invalidazione delle clausole del tipo
descritto, a condizione, ovviamente, che il soggetto interessato si attivi, giudizialmente, per
la tutela dei suoi diritti. Esiste quindi una fonte primaria di regolazione dei rapporti di lavoro
costituita dalla legislazione statuale, a sua volta articolata in diversi livelli (costituzione,
codice civile, legislazione ordinaria e speciale). Tradizionalmente, la funzione imperativa di
tale fonte corrisponde alla esigenza di tutelare il lavoratore, in qualità di contraente più
debole, mediante una protezione minima, legittimando quindi – a rovescio – il potere del
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datore di lavoro dopo averlo ricondotto al quadro delle limitazioni legali: in questo senso la
legge assume il connotato della inderogabilità unilaterale, a favore del lavoratore. Il contratto
individuale può cioè modificare il trattamento legislativo solo a vantaggio del lavoratore.
Nell‟esempio prima proposto, si è tuttavia anche ipotizzato che il rapporto di lavoro, della
cui regolamentazione ci stiamo occupando, si svolga in una azienda di “media
sindacalizzazione”. Ciò implica che in quella azienda, con buona probabilità, si devono
applicare uno o più contratti collettivi: vale a dire, un contratto nazionale di categoria e uno o
più contratti collettivi aziendali, eventualmente stipulati a livello di impresa. Per ricostruire
la disciplina concreta del singolo rapporto non basta più, allora, comparare la fonte
legislativa con il contratto individuale. Occorre considerare anche la fonte collettiva: per cui,
se i contratti collettivi hanno previsto, ad esempio, una certa percentuale di maggiorazione
per il lavoro straordinario, o un orario normale di lavoro settimanale, non si potranno
concordare, in sede individuale, trattamenti deteriori per il lavoratore. Opera in tal caso il
meccanismo della sostituzione automatica della clausola individuale con la clausola
collettiva, previsto dal già citato art. 2077 c.c., convalidato dalla attribuzione del carattere
della inderogabilità alle “disposizioni… dei contratti o accordi collettivi” statuita, ai fini
della disciplina delle rinunzie e delle transazioni, dall‟art. 2113 c.c., nella versione riformata
dalla legge n. 533 del 1973.
Ne risulta che il contratto individuale, al pari del potere di determinazione del datore di
lavoro, è sottordinato sia alla legge che alla contrattazione collettiva
2
.
Resta da vedere quale sia il rapporto tra le due fonti superiori. Qui il discorso diventa più
complicato. In linea generale si può dire, richiamando le disposizioni del c.c. citate in
apertura, che anche la fonte collettiva è sottordinata a quella legislativa, nel senso che la
norma imperativa di legge prevale su tutte le altre fonti di disciplina. In origine esiste quindi
2
Assanti C., Corso di diritto del lavoro, Padova, Cedam, 1981.
9
una gerarchia tra fonti. Questo schema si è tuttavia parecchio alterato e complicato nel
tempo. Comunque, è bene sottolineare che tra le due fonti in oggetto esiste una diversità
strutturale, che non dipende solo dai loro distinti meccanismi di formazione e legittimazione
ma anche dalla differente intensità giuridica dei loro prodotti normativi. Infatti allo stato
attuale del nostro ordinamento, i contratti collettivi non hanno efficacia generale, ma vanno
ancora ricondotti, in genere, al diritto “comune”: la loro vincolatività, sul piano giuridico,
resta collegata alla dimensione associativa, poiché essi obbligano solo gli iscritti alle
associazioni stipulanti. Da ciò derivano ulteriori complicazioni che verranno in seguito
analizzate
3
.
Quanto detto fin qui rappresenta una enunciazione volutamente schematica della complessità
del gioco delle fonti nel diritto del lavoro. Per intendere le molteplici varianti, in termini di
risultato, di tale interazione si può raffigurare il contenuto del rapporto individuale di lavoro
come un piccolo pianeta illuminato da diversi soli, ciascuno circondato da un proprio
sistema: il sistema legislativo (composto, come si è visto, da una pluralità di livelli
normativi), il sistema della contrattazione collettiva (anch‟esso articolato in una serie di
sottosistemi), il contratto individuale e il potere del datore di lavoro
4
.
1.2 Il contratto collettivo
Nel diritto giudiziario degli anni ‟50, quella “funzione paralegislativa” del contratto
collettivo – mutuata dalla concezione corporativa di tale contratto come “legge” della
categoria professionale – non riesce ad alterarne la natura formalmente negoziale.
3
Ghera E., Le fonti del diritto del lavoro, Bari, Cacucci, 1985.
4
Mariucci L.,Le fonti del diritto del lavoro,ed agg.,Giappichelli, Torino, 2003.
10
Il contratto collettivo di diritto comune, a differenza di quello corporativo, rimane fedele al
nomen iuris: esprime cioè il potere di autonoma regolamentazione dei propri interessi,
riconosciuto ai privati dall‟art. 1322 c.c. con la sola peculiarità che questi interessi, almeno
dalla parte dei lavoratori, sono appunto “collettivi”. E‟ scontato che, mediante la libera
iscrizione all‟associazione sindacale, o la semplice adesione a un gruppo (anche spontaneo),
il singolo lavoratore demanda all‟autonomia collettiva la gestione della propria “debole”
autonomia individuale.
La principale conseguenza è che la sfera soggettiva di efficacia del contratto resta limitata ai
soli aderenti alle associazioni stipulanti: è principio generale, stabilito nell‟art. 1372, 2°
comma,c.c., che il contratto tipico o atipico, non produca effetti per i terzi se non nei casi
previsti dalla legge; e poiché non c‟è alcuna norma che prevede l‟estensione ultrapartes del
contratto collettivo, è chiaro che in un contesto giussindacale basato sulla rappresentanza
volontaria, si considerano “terzi”, rispetto al contratto collettivo, tutti i soggetti (datori e
lavoratori) che, non avendo con l‟iscrizione conferito alcun mandato alle rispettive
associazioni stipulanti, restano giuridicamente estranei all‟attività contrattuale. In sostanza,
mancando una norma che espressamente ed inequivocabilmente preveda tale espressione,
contrasta con la logica privatistica (sottesa al contratto collettivo di diritto comune) che un
soggetto estraneo alla stipulazione del contratto, perché non iscritto all‟associazione
contraente, ne risulti in qualche modo vincolato. Le contraddizioni racchiuse in questa
posizione giurisprudenziale, sulla quale si impernia tutta la ricostruzione del sistema
contrattuale post-corporativo, sono molteplici e si avvertono sia dentro lo stesso ordinamento
statuale, sia nel rapporto tra ordinamento statuale e ordinamento intersindacale.
In una rilettura della dottrina in tema di contratto collettivo sembra possibile ed opportuno
tracciare una suddivisione in tre grandi periodi;
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Il primo periodo, quello precorporativo, ha visto nascere l‟oggetto di studio ed ha portato ai
primi, quasi timidi studi su una materia che si andava sviluppando nella realtà dei rapporti
sociali e che necessitava di una ricostruzione dogmatica.
Il secondo periodo, quello corporativo, vede negata la libertà sindacale e di conseguenza
alterato l‟assetto contrattuale ed alla originaria impostazione del contratto collettivo come
espressione di autonomia privata, individuale o di gruppo, si sovrappone lo studio del
contratto collettivo come fonte di diritto obiettivo.
Il terzo periodo, infine, è collegato ad un capovolgimento - benché non sempre nitido e privo
di contraddizioni - della visione fascista dei rapporti di produzione ed al ritorno ad una
contrattazione di natura privatistica.
Nonostante la profonda diversità del regime politico e del quadro giuridico complessivo di
riferimento nei tre periodi, appaiono notevoli segnali di continuità nel pensiero giuridico,
probabilmente dovuti al fatto che la scienza giuridica, come ogni altra scienza, procede
attraverso continui arricchimenti e ripensamenti
5
.
I primi scritti sul contratto collettivo, in Italia, risalgono all‟inizio di questo secolo e furono
occasionati da alcune decisioni probivirali. I collegi dei probiviri, infatti, decidendo secondo
equità in una materia che in qualche modo si può definire a quel tempo ancora vergine
rispetto ad interventi dogmatici, accesero il dibattito tra i giuristi, abituati, invece, ad
interpretare la realtà secondo le ferree regole di diritto.
Così Ascoli, un primo commentatore dell‟operato dei probiviri, quasi scandalizzato, si è
trovato ad accusare una giuria probivirale di avere completamente trascurato i “principi del
diritto contrattuale italiano” nell‟aver dichiarato un datore di lavoro vincolato al rispetto di
un concordato stipulato da una mutua della quale lo stesso imprenditore non era socio. Nella
ricostruzione del contratto collettivo operata dall‟autore, esso è infatti definito come “il
5
Bortone R., Il contratto collettivo tra funzione normativa e funzione obbligatoria,Cacucci, Bari, 1992.
12
contratto di tutti i singoli soci, la cui opera si obbliga o sulla mercede dei quali si pattuisce”;
“il contenuto stesso della contrattazione, che è sempre una locazione d‟opera personale”, non
può che riferirsi ai singoli e la lega dei lavoratori o l‟associazione degli industriali agisce
come diretto rappresentante dei singoli, sia che questi siano già parti di un contratto di lavoro
al momento della stipulazione collettiva sia che ne diventino parti in seguito; in questa
ricostruzione al contratto collettivo di “collettivo” resta molto poco, giacchè esso si confonde
con una serie indeterminata di contratti individuali
6
.
Come è noto, in Italia il primo tentativo organico di ricostruzione giuridica del fenomeno del
contratto collettivo è quello di Messina
7
e particolarmente interessante sembra ricostruire il
pensiero di questo autore che, in un certo senso, ha segnato tutta la dottrina successiva.
Numerosi sono i riferimenti contenuti nel saggio di Messina che ci fanno pensare a quello
che oggi conosciamo come ordinamento intersindacale; innanzitutto si riconosce la tendenza
del sindacato a regolare i rapporti di lavoro non solo nei confronti dei suoi aderenti, ma nei
confronti dell‟intera categoria e cioè la tendenza del “regolamento autonomistico a
trasformarsi da figura di diritto subiettivo in norma giuridica obiettiva, ad elevarsi da regola
intra partes in precetto supra partes”; indubbiamente l‟attenzione maggiore di questo giurista
è rivolta alla cd. parte normativa del contratto: egli dichiara infatti, che, in relazione alle
finalità ed alla funzione del concordato, costituiscono l‟elemento essenziale di esso le
clausole relative alla disciplina dei rapporti individuali di lavoro: quelle sull‟orario di lavoro,
sulle pause ed i riposi, quelle sui processi industriali da impiegarsi nel lavoro, sull‟ambiente
e sulla diligenza richiesta, quelle sui modi di risoluzione delle controversie individuali di
lavoro, quelle sul salario e così via. Sarebbe però riduttivo ritenere che, secondo Messina, la
funzione del contratto collettivo coincida con la regolamentazione dei rapporti individuali di
6
Una critica in questo senso è in Galizia, Il contratto collettivo di lavoro, L.Pierro, Napoli, 1907,32 ss.
7
Messina,I concordati di tariffa nell‟ordinamento giuridico del lavoro, in Riv.dir. com.,1904,I,511 ss