Lo strumento delle soft laws, degli orientamenti e delle norme
ordinatorie è utilizzabile quando si intende riservare alla discrezionalità dei
destinatari la scelta dei modi e dei mezzi per realizzare l’obiettivo. Se si
verificasse un’economia che distrugge posti di lavoro anche nelle fasi di
crescita sarebbe difficile immaginare che si possa evitare di influire su un
nuovo dosaggio tra la rigidità dello statuto protettivo standard e la
flessibilità delle tipologie di modelli di lavoro alternative. Maggiore sarà la
rigidità dello statuto protettivo standard, più il processo di diversificazione
tipologica sarà destinato a non arrestarsi, né a regredire, rischiando di
rendere sempre più in comunicanti il mercato del lavoro standard e i
mercati alternativi del lavoro flessibile, e sempre meno accettabile la
mancanza di un criterio che giustifichi la distribuzione nella società delle
occupazioni destinatarie di maggiore protezione. Nel caso di ricerca di
nuove tipologie che intendano aumentare il tasso medio di occupazione
bisogna evitare che le nuove tipologie favoriscano processi di turn over.
L’evoluzione della disciplina del contratto a termine rappresenta il
riscontro dei principi di tutela del lavoratore subordinato. Innanzitutto, la
tutela del dipendente può essere affidata non più solo alla normativa legale
inderogabile, ma anche all’intervento della mediazione amministrativa o
sindacale; inoltre, i rapporti di lavoro a termine sono ormai una costante e
assumono sempre maggiore importanza come strumento di ingresso nel
mercato del lavoro.
La discontinuità tra vecchia e nuova normativa in materia di lavoro a
termine riguarda quindi anche il ruolo attribuito alla contrattazione
collettiva in questo rapporto. Il ridimensionamento di tale ruolo rispetto al
passato rappresentava una delle innovazioni introdotte dal decreto
legislativo n. 368/2001, costituendo uno dei punti di maggiore distanza tra
la nuova normativa e quella abrogata. Il dissenso della Cgil fu infatti
generato dalla parziale esclusione della contrattazione collettiva dalla
2
facoltà di apposizione del termine, depotenziando ed impoverendo il suo
ruolo sindacale nella gestione della flessibilità del mercato del lavoro.
La disciplina del lavoro a termine dovrà essere orientata ad
individuare la necessità di garantire al lavoratore una tutela non
differenziata rispetto al lavoratore assunto a tempo indeterminato, al fine di
attribuirgli il ruolo di strumento volto a soddisfare esigenze connesse
all’andamento economico dell’impresa, e cogliere opportunità
occupazionali soprattutto con riguardo alle fasce deboli sul mercato del
lavoro. Il contratto a termine sta diventando sempre più un modello
concorrente con il contratto di lavoro a tempo indeterminato.
L’accresciuta importanza dell’utilizzo del contratto a termine è inoltre
sottolineata dall’intervento attuato a livello comunitario con l’introduzione
della Direttiva n. 99/70/Ce, la quale ha la funzione di armonizzare la
disciplina in Europa, stabilendo dei principi generali, quali ad esempio il
principio di non discriminazione, che devono essere uniformemente adottati
in tutto il territorio europeo.
La direttiva n. 99/70/Ce ha rappresentato l’occasione per rimeditare la
regolamentazione previgente nel nostro Paese, che deve essere finalizzata
ad “un migliore equilibrio fra la flessibilità dell’orario di lavoro e la
sicurezza dei lavoratori”.
L’orientamento espresso dalla Ces ha segnato l’assetto dell’accordo
comunitario; da questo risulta il bisogno di coniugare “desideri dei
lavoratori ed esigenze della competitività”, “flessibilità e sicurezza”.
Inoltre, “le parti firmatarie riconoscono che i contratti a tempo
indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti
di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori”, e tali contratti “contribuiscono
alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento”.
La “volontà delle parti sociali” è quella di “stabilire un quadro
generale che garantisca la parità di trattamento ai lavoratori a tempo
determinato, proteggendoli dalle discriminazioni, e un uso dei contratti di
3
lavoro a tempo determinato accettabile sia per i datori di lavoro che per i
lavoratori”; sussiste quindi la necessità di “migliorare la qualità del lavoro a
tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non
discriminazione” e di “creare un quadro normativo per la prevenzione degli
abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di
lavoro a tempo determinato”.
Fermo restando che “l’utilizzazione di contratti a tempo determinato
basata su ragioni oggettive è un modo di prevenire gli abusi”, le parti
sociali, anziché indicare i casi in cui è consentita la stipulazione di un
contratto a termine (difficilmente individuabili a livello comunitario), hanno
redatto un accordo-cornice volto a stabilire “i principi generali e i requisiti
minimi relativi al lavoro a tempo determinato, riconoscendo che la loro
applicazione dettagliata deve tener conto delle realtà specifiche delle
situazioni nazionali, settoriali e stagionali”. Gli Stati membri e le parti
sociali potrebbero quindi “mantenere o introdurre disposizioni più
favorevoli per i lavoratori” di quelle stabilite dall’accordo-quadro, la cui
applicazione non può tuttavia costituire “un motivo valido per ridurre il
livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto
dall’accordo stesso”.
La nuova disciplina del lavoro a termine può essere correttamente
compresa e valutata solo nell’ambito del complessivo sistema
giuslavoristico; occorre quindi inquadrare ogni problema nei principi e nelle
linee evolutive dell’intero ordinamento del lavoro nazionale e comunitario.
4
Capitolo 1
IL LAVORO A TERMINE IN ITALIA:
EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA.
1. Le origini del “contratto a termine”.
La disciplina del contratto di lavoro a termine fonda la propria origine
su peculiari esigenze dell’organizzazione tecnico-produttiva delle imprese o
su caratteristiche del tutto particolari della prestazione di lavoro
1
. Il
legislatore, pur rispettando il ruolo fondamentale ed assolutamente
importante del contratto di lavoro a tempo indeterminato
2
, ha previsto la
possibilità di apporre un termine al contratto di lavoro, subordinando tale
possibilità ad una giustificazione obiettiva, fondata su elementi intrinseci e
collegati con la natura della prestazione o con la reale breve durata del
lavoro da svolgere.
La legge n. 230/62 ha introdotto una disciplina del contratto di lavoro
a termine che evidenzia l’atteggiamento di iniziale sfavore nei riguardi del
contratto a termine; questo perché l’esperienza aveva dimostrato che,
mediante questa figura contrattuale, si frustravano diversi interessi del
lavoratore tra i quali quelli riguardanti la maturazione dell’anzianità di
servizio nell’impresa, cui la legge e i contratti collettivi hanno connesso
sempre più rilevanti effetti. Proprio in opposizione a questa tendenza alla
1
BALZARINI G., La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, Milano, 1966, p. 40.
2
La durata indeterminata del rapporto di lavoro consente un progressivo miglioramento della
posizione del lavoratore, collegata con il grado di anzianità e quindi in stretta dipendenza con la
continuità della prestazione che realizza una tutela del lavoratore più completa sotto il profilo
economico, normativo e assistenziale, soprattutto in relazione alla carriera nell’ambito
dell’impresa (BALZARINI G., La disciplina, cit., p. 9, n. 33. Osserva il CASSI’, La durata della
prestazione di lavoro, 1956/1961, p. 79, che con il progredire del tempo l’obbligo di concessione
delle indennità di cessato rapporto costituisce un freno e una remora ai licenziamenti, a beneficio
della continuità e della stabilità).
Il prestatore di lavoro tende alla continuità dell’occupazione per la necessità di sostentamento
proprio e dei suoi familiari. Tale finalità viene perseguita soprattutto col garantirsi la più lunga
permanenza alle dipendenze di uno stesso datore di lavoro; la giurisprudenza compie uno sforzo
continuo per rendere sempre più valido il principio di continuità ai fini delle maggiori garanzie
dell’occupazione, e ciò anche in relazione ai contratti a tempo indeterminato.
5
fraudolenta applicazione del contratto a termine, e per garantire a tutti i
lavoratori i benefici derivanti dall’anzianità, è intervenuto il legislatore,
vietando con limitatissime eccezioni questo tipo di contratto.
L’evoluzione delle norme in materia ha portato, in relazione ai mutati
interessi e alle nuove esigenze del mondo del lavoro, al rovesciamento della
norma di cui all’art. 1628 del codice civile del 1865, per tutelare l’interesse
del lavoratore quanto alla stabilità del rapporto, resa precaria dall’uso
eccessivo di contratti stipulati a breve termine, diretti ad escludere sia gli
effetti dell’anzianità sia i controlli sulle circostanze giustificative dei
licenziamenti
3
.
L’art. 1628 del codice civile del 1865, secondo il quale nessuno
poteva “obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una
determinata impresa”
4
, evitava che il lavoratore vincolasse la propria
attività lavorativa per un tempo così lungo da restargli preclusa la libertà di
disporre del proprio lavoro, instaurando un vincolo per l’intera durata della
propria vita
5
.
Tutto questo è convalidato dall’applicazione analogica di tale
principio anche al contratto di lavoro, derivante dal recesso dalla locazione
di cose stipulate senza prefissione di tempo (art. 1609 del codice civile del
1865). Ciò completò la disciplina della locazione delle opere (artt. 1627 e
1628), e limitò gli effetti dell’art. 1628 ai casi di contratti servili o a vita.
In caso contrario la situazione era tale che il lavoratore, vincolato da
un contratto a tempo indeterminato, si sarebbe trovato in posizione di
soggezione nei confronti del datore di lavoro, poiché non essendo ammesso
il recesso sarebbe stato necessario il mutuo consenso per la risoluzione del
3
CASSI’, La durata, cit., pp. 97-98.
4
La norma si ispirava all’art. 1780 Code Napoleon: “On ne peut engager ses services qu’à temps
on pour enterprise determinée”.
Il principio del Code Napoleon è stato accolto, oltre che dal codice italiano, da varie altre
legislazioni che ne hanno riprodotto quasi integralmente la disposizione: così in Belgio la legge 10
marzo 1900 e in Spagna il codice civile e il codice del lavoro. Altre legislazioni stabilivano
addirittura una durata legale al contratto di lavoro.
5
Si vietava così la stipulazione di contratti di lavoro senza prefissione di termine; divieto che
venne inteso nel senso di impossibilità di stipulazione di contratti servili.
6
contratto. Tale posizione veniva ulteriormente aggravata dall’inesistenza di
norme che ponessero limiti massimi all’età lavorativa.
Le prime notizie riguardanti il favore della legge per il lavoro a
tempo indeterminato sono riscontrabili nel D. luog. n. 1440 del 2 settembre
1917. Tale decreto regolava il rapporto di impiego privato, e per la prima
volta citava questo contratto a tempo determinato. Tale norma riprodotta nel
capoverso dell’art. 1 d. 9 febbraio 1919, è stata poi integralmente riportata
nel cpv. del decreto 13 novembre 1924; le leggi citate fecero sorgere
l’interrogativo se le disposizioni in esse contenute potessero trovare
applicazione nel contratto di impiego privato a scadenza prefissa
6
.
Il diritto sostanziale riafferma il principio della totale e assoluta
inapplicabilità delle norme stesse al rapporto d’impiego privato a tempo
determinato.
In seguito la giurisprudenza del Supremo Collegio cominciò a deviare
dalla iniziale posizione di intransigenza, aumentando le incertezze circa la
regolamentazione giuridica da applicare al rapporto in oggetto, per giungere
infine a dichiarare che “al contratto d’impiego con prefissione di termine
devono essere applicate le norme della legge speciale, escluse soltanto
quelle che presuppongono il contratto a tempo indeterminato”
7
.
La dottrina è stata quasi unanime nel ritenere applicabili al contratto
d’impiego privato a termine le disposizioni della legge speciale non
riflettenti esclusivamente il contratto d’impiego a tempo indeterminato; la
differenza delle opinioni si aggirava pertanto sull’applicabilità o meno di
alcune delle singole disposizioni della legge stessa.
6
La questione dovette affrontare il principio in tema di competenza delle commissioni arbitrali,
istituite dal citato decreto n. 1440 del 1917, per risolvere le controversie riflettenti contratti di
impiego privato a termine. La giurisprudenza ritenne che i contratti di impiego con prefissione di
termine si dovessero ritenere sottratti alle norme speciali del decreto, quasi tutte incompatibili con
la precarietà del rapporto, e quindi non fossero soggetti al controllo dell’organo istituito ad hoc col
decreto medesimo.
7
Cass. 15 aprile 1931, in Foro it., 1931, I, 1225.
7
Tali problemi vennero risolti con il nuovo codice del 1942; la
disciplina del contratto di lavoro infatti venne considerata unitariamente per
tutti i rapporti di lavoro e non soltanto per i rapporti di impiego, chiarendo
ed innovando la precedente disciplina.
La fonte normativa essenziale per il contratto a termine nel
codice civile del 1942 era costituita dall’articolo 2097, da cui già emerge la
tendenza dell’ordinamento a considerare tale forma di contratto come
eccezionale rispetto a quella a tempo indeterminato. In essa non si
riscontrava una costruzione in forma positiva dell’istituto del contratto di
lavoro a tempo determinato, ma una trattazione tendente alla limitazione del
contratto a termine
8
.
Il contratto di lavoro si riteneva infatti a tempo indeterminato, qualora
il termine non risultasse dalla specialità del rapporto o da atto scritto; ma in
tal caso l’apposizione del termine si considerava priva di effetto se fatta per
evitare le disposizioni riguardanti il contratto a tempo indeterminato. Inoltre
se la prestazione proseguiva dopo la scadenza del termine il contratto si
considerava a tempo indeterminato, sempre che non risultasse una contraria
volontà delle parti. L’articolo 2097 infine stabiliva una durata massima del
contratto a tempo determinato, però soltanto a favore del lavoratore il quale,
se il contratto era stato stipulato per una durata superiore ai cinque anni (o
dieci se dirigente), poteva recedere allo scadere del quinquennio (o del
decennio), mentre un analogo potere non era riconosciuto al datore di
lavoro.
La formulazione della norma determinò innanzitutto l’esigenza di
chiarire il nesso tra l’atto scritto e la specialità del rapporto. Dall’analisi
della norma citata poteva infatti apparire che tra le due forme non
intercorresse rapporto alcuno e che perciò l’atto scritto prescindesse dalla
specialità del rapporto e viceversa.
8
Cfr. CASSI’, La durata, cit., p. 78.
8
L’articolo 2097 c.c. sembrava quindi richiedere come requisiti
alternativi la forma scritta e la specialità del rapporto, e in questi termini
esso avrebbe consentito la stipulazione di contratti a termine al di fuori
della specialità del rapporto, purché si osservasse una prescrizione
puramente formale (atto scritto) e non vi fosse frode alla legge
9
. Veniva
però rilevata “la incongruenza della soluzione legislativa data, sotto questo
aspetto, al problema del contratto a termine: soluzione da ritenere
innovatrice in peius anche rispetto alla disciplina posta dal r.d.l. 13
novembre 1924 n. 1825; il quale richiedeva in ogni caso la forma scritta-
nonostante che nella relazione ministeriale n. 848 si manifestasse
l’intenzione di chiarire semplicemente a tal riguardo l’ordinamento”
10
.
Tale alternatività venne riaffermata fino a sostenere che un’esatta
concezione della fraus legis porterebbe alla conclusione che “la frode
prevista dall’art. 2097 c.c. non può che riferirsi alle ipotesi di rinnovazione
successiva di contratti a tempo determinato”
11
.
Parte della dottrina riteneva che l’interesse realizzato attraverso il
contratto di lavoro a termine consistesse nello “scambio fra retribuzione e
lavoro per un dato periodo di tempo, cosicché, se effettivamente lo scambio
dura per il periodo pattuito, il datore di lavoro non è in nessun caso in grado
di conseguire un risultato diverso di quello previsto dal legislatore all’atto
di disciplinare questo contratto. Il negozio viene, dunque, utilizzato in
questo caso secondo la tipica funzione e destinazione e non in elusione di
essa”
12
.
9
Così ASSANTI, Il termine finale nel contratto di lavoro, 1958, p. 89.
10
CALABRò, Contratto di lavoro a tempo indeterminato e contratto di lavoro a termine
prestabilito, in Dir. Lav., 1962, I, 183, p. 182.
11
BALZARINI G., La disciplina, cit., p. 22. Questa maggior libertà introdotta dall’art. 2097 c.c.,
in relazione alla legge del 1924, viene giustificata col rilievo che, essendo i fattori che rendono il
contratto a tempo indeterminato più vantaggioso per il lavoratore più rilevanti per il lavoro
intellettuale piuttosto che per quello manuale, nel riordinare la materia si sia voluto lasciare alle
parti un più ampio margine di discrezionalità . Ma questa giustificazione contrasta apertamente
con quanto affermato dalla relazione al codice.
12
BALZARINI G., La disciplina, cit., p. 22.
9
Questa opinione, oltre ad apparire in contrasto con la ratio legis, trova
anche un ostacolo nella stessa norma in cui si dice: “In quest’ultimo caso
l’apposizione del termine è priva di effetto…”.
Il problema si considerava invece sotto un altro aspetto, e cioè dal
punto di vista dei limiti all’autonomia privata nel determinare il contenuto
del contratto; quindi si può innanzitutto obiettare che l’interesse che il
datore di lavoro voleva perseguire poteva essere realizzato sia mediante il
contratto a termine sia mediante il contratto a tempo indeterminato; pertanto
il divieto di stipulare contratti a tempo determinato doveva essere
inquadrato nei limiti posti all’autonomia negoziale, se non nei casi
contemplati dalla legge.
La disposizione relativa all’inefficacia del termine apposto per eludere
le norme sul contratto a tempo indeterminato metteva dunque in evidenza il
problema del nesso fra atto scritto e specialità del rapporto; si è sostenuto
che ai fini della legittima apposizione del termine la condizione formale
dell’atto scritto si risolve nella condizione sostanziale della specialità del
rapporto
13
.
Tale opinione deve però essere correttamente intesa, nel senso che
pur essendo chiara la distinzione tra le due situazioni, in sostanza si fanno
coincidere le due ipotesi, poiché occorrendo una giustificazione obiettiva
dell’apposizione del termine questa seconda condizione si verifica in
presenza della condizione richiesta dalla legge nel primo caso (cioè quando
il termine risulti giustificato dalla specialità del rapporto).
E’ quindi valida l’osservazione che la mancanza dell’elemento della
specialità del rapporto contribuisce a comprovare la frode; questa
interpretazione ha il pregio di una stretta aderenza allo spirito della legge
che tutelava l’effettiva libertà di contrattazione del lavoratore, impedendo
13
CASSI’, La durata, cit., pp. 60, 61.
10
che fosse reso vano l’apparato di norme fissate dalla legge o dall’autonomia
collettiva a tutela del lavoratore
14
.
Dall’esame della originaria disciplina del contratto a termine
emerge con particolare evidenza come non si possa far derivare la
possibilità di stipulare tali contratti da esigenze particolari dell’azienda, ma
dalla natura della prestazione; per questo il requisito di temporaneità deve
riguardare propriamente l’attività svolta. Ne consegue che il carattere
fondamentale del contratto a termine è dato dalla sua provvisorietà e
precarietà, ed è legato alla struttura e funzionalità del rapporto: natura e
termine devono rilevare oggettivamente, e la temporaneità dell’interesse
dell’imprenditore alla collaborazione del lavoratore deve risultare dalla
particolare posizione di questo nell’azienda.
14
Si può correttamente considerare l’apposizione del termine come una clausola vessatoria;
pertanto la legge richiedendo l’atto scritto si ricollega ai principi di cui all’art. 1341 c.c. per evitare
che l’apposizione del termine sia stata troppo largamente valutata dal lavoratore o addirittura non
conosciuta.
11