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studiosi hanno sottolineato come, nonostante esista una notevole differenza qualitativa
tra quadri deficitari e quadri psicotici, numerose possono essere le interferenze che tra
essi avvengono.
Bollea ( 1964) ha infatti proposto la seguente distinzione tra :
• Protopsicosi Tale definizione descrive una situazione in cui la distorsione
psicotica si associa ad una mancata evoluzione o ad un arresto dello
sviluppo mentale;
• Psicosi Tale definizione descrive una situazione in cui la distorsione
psicotica si associa a fenomeni di regressione e di
de-strutturazione;
• Psicotizzazione Tale definizione descrive una situazione in cui, sulla base di una
condizione deficitaria, si innesta una reazione psicotica transitoria
come effetto dell’incapacità a contenere esperienze negative.
Da tale distinzione risulta come sia maggiormente corretto parlare di un’eventuale
psicotizzazione, e non di psicosi , nei casi di insufficienza mentale.
Al di là delle diverse specificazioni che la sofferenza mentale ha assunto in campo
medico e psicologico per differenziare le tipologie patologiche, è innegabile che il
confine tra ritardo e malattia mentale risulti nella realtà estremamente labile.
Nella pratica infatti appare arduo, soprattutto in casi in cui ad una compromissione
intellettiva si innesta una dinamica psicotica, separare ciò che proviene dal ritardo
mentale e ciò che proviene da una patologia di tipo psichiatrico.
Vale la pena interrogarsi se sia possibile identificare un'origine comune delle due
manifestazioni o se magari in alcuni casi una sia causa dell'altra.
Si può ipotizzare che un individuo con ritardo mentale, soprattutto durante le fasi
dell'infanzia e dell'adolescenza, possa sviluppare dentro di sé profondi vissuti di ansia
ed insicurezza collegati al rapporto col mondo esterno e all'accettazione della propria
condizione svantaggiata.
A seconda del grado di accoglienza del nucleo familiare ed amicale nei suoi confronti, può
accadere che l'esigenza di controllo che nasce dall'ansia e dalla paura del rifiuto spinga
l'individuo a sviluppare dinamiche di tipo maniacale ( fissazioni e stereotipie) che nella loro
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ripetitività ossessiva costituiscono per lui un rifugio sicuro.
Senza voler generalizzare tale considerazione a tutti i casi di ritardo mentale, è importante
sottolineare come difficilmente si possa distinguere in modo netto e sicuro ciò che è da
collegare al quadro deficitario e ciò che proviene invece da un quadro psicotico.
Nei paragrafi successivi si procederà ad approfondire innanzitutto che cosa si intenda
per "contagio psichico", "contagio emotivo" ed empatia e in che modo sia possibile
applicare tali dinamiche, che si intrecciano tra loro, ai casi di disabilità mentale.
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1.2 Definizione di contagio psichico
“Il contagio psichico colpisce tutte le persone che hanno a che fare con uno psicotico,
modificandone, talvolta in modo ragguardevole la visione della realtà e talvolta
addirittura i caratteri stessi della personalità.” (Volpi, 1998; pag. 17)
Dalle parole di Volpi si evince che coloro che vivono a stretto contatto
con soggetti affetti da malattia mentale possono trovarsi ad assorbire le distorsioni e gli
stati d’animo dei malati stessi. Tale situazione oltre a condizionare la vita dei soggetti
“contagiati” contribuisce ad appiattire le relazioni che ruotano attorno ai portatori della
malattia mentale.
Accade sovente di osservare genitori che inconsapevolmente riproducono i gesti, le parole
e le modalità comunicative tipiche delle patologie dei figli. Addirittura si possono
incontrare interi nuclei familiari che inglobano, fino a farle proprie, alcune dinamiche
patologiche dei membri malati: tali meccanismi diventano così "normali" per tutti coloro
che fanno parte di quella data famiglia. Le conseguenze di tale "contagio" investono così
non solo l'individuo con sofferenza mentale ma anche coloro che in veste di genitori,
fratelli e familiari si occupano di lui rendendo in tal modo ancora più ostico qualsiasi
intervento proveniente dal contesto esterno. Spesso infatti il nucleo familiare che subisce al
suo interno quello che Freud ( 1975) aveva definito "l 'effetto perturbante" della malattia
mentale, non è in grado di analizzare e riconoscere con lucidità la situazione contingente e
quindi vive con ostilità e diffidenza i tentativi di intervento messi in atto da medici,
operatori o, più semplicemente, amici e
parenti. Questo comporta un esacerbimento della tendenza all'isolamento che investe
molte famiglie con figli disabili di cui parlerà in modo approfondito nel secondo
capitolo.
Gli effetti più comuni di tali induzioni sono sensazioni intense di ansia e di angoscia,
senso di fallimento, attacchi violenti di ira e di panico, vissuti di apatia e depressione.
La parola “contagio” rischia di apparire fuorviante: infatti mentre il contagio fisico,
dovuto ad esempio a malattie infettive, fa sì che il soggetto abbia in sé la
causa stessa della malattia (ad es. un virus), quello psichico ed emotivo fanno sì che il
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soggetto del contagio sia portatore solo degli effetti e non delle cause. Inoltre mentre
chi subisce un contagio fisico è consapevole di ciò che gli è accaduto, chi ne vive uno
di tipo psichico non sempre ne raggiunge la consapevolezza e questo lo rende
ancora più pericoloso.
Infatti non rendersi conto che il proprio mondo interiore è stato invaso da vissuti emotivi e
sensazioni provenienti da un'altra persona comporta che si vivano come propri tali
malesseri e non si corra al riparo dalle induzioni che ne sono la vera causa. Questa
condivisione è tanto più pericolosa quanto più va ad alterare la visione della realtà: in forme
avanzate si può assistere ad una sorta di "delirio"condiviso.
Particolarmente interessante a tale proposito mi è apparsa la lettura della testimonianza
riportata qui sotto. Con le parole che seguono Baldini ( 1995; pag. 82) descrive una
visita domiciliare da lui effettuata a casa di un bambino affetto da una grave forma di
tetraparesi distonica: è infatti importante comprendere che non solo la malattia mentale
ma anche i vissuti di sofferenza collegati ad una disabilità fisica possono originare
forme di "contagio" a livello emotivo e psichico.
“Mi aprì una donna ancora giovane, trascurata nella cura dell’abbigliamento e della
persona. Venni introdotto in un ambiente molto grande che probabilmente un tempo
era stato il salone della casa , mentre io lo vidi trasformato in un tempio della
riabilitazione…L’aria della stanza sembrava irrespirabile e sapeva di medicine, urina
e feci o forse risentivo dell’effetto della suggestione che stavo provando o di quello
delle mie fantasie inconsce sui poteri contaminanti della malattia di M.
Cercai di ricostruire un’anamnesi patologica facendo domande, mentre venni
raggiunto da una sensazione di malessere…In terapia è più facile evitare di essere
raggiunti o avviluppati dai fantasmi di disperazione e di morte che abitano le case di
questi bambini.
Mi sentivo come paralizzato, incapace di organizzare qualsiasi reazione.. tutto in quella
casa era distonico come M.In quella casa sembrava che tutto scivolasse verso il basso,
uomini e cose.. sospesi in un pozzo senza fine. “
Baldini conclude questo racconto sostenendo che “la grave patologia che deforma un
bambino catturi facilmente le emozioni, i pensieri e le azioni di chiunque e che
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questa irresistibile attrazione avvicini così tanto alla malattia da esserne invasi, pur
rimanendo sani, da subirne regole e condizioni, illusioni e frustrazioni fino a
raggiungere una dimensione psichica di passività che in fondo coincide ed assomiglia
alla passività indotta nel bambino dalla malattia.
Di fronte al rischio di un simile contagio psichico la reazione istintiva è quella di
ricercare la sopravvivenza dalla fuga dall’handicap nella salute.” ( 1995; pag. 84)
La veridicità di tali affermazioni è facilmente condivisibile da quanti, educatori ed
operatori sociali, si trovino ad intraprendere un percorso educativo con persone con
una disabilità fisica o mentale.
L'esperienza lavorativa da me condotta all'interno di alcune comunità protette per disabili
mentali ha infatti costituito lo stimolo primario verso l'approfondimento dell'argomento di
cui è oggetto tale tesi. Ho potuto infatti sperimentare in prima persona che la convivenza
prolungata con la sofferenza mentale può avere profondi effetti su chi la conduce.
Ho avuto occasione di osservare che, a conclusione del turno lavorativo, molti
educatori avevano spesso un tono dell'umore alterato, un malessere diffuso, vissuti di
ansia ed apatia. Senza voler chiamare in causa fenomeni più complessi, come ad
esempio la sindrome da "burn-out", è facilmente ipotizzabile che trascorrere molte ore
immersi nella malattia mentale possa predisporre a fenomeni quali il contagio emotivo
e psichico. Anche per questo vengono predisposti all'interno dei servizi dei preziosi
momenti di confronto e di supervisione che possono offrire agli operatori uno
strumento per analizzare con maggiore consapevolezza ciò che sta accadendo loro.
Sembra evidente che tali meccanismi possano avvenire, indubbiamente
amplificati, nei familiari di soggetti che vivono un handicap fisico o mentale.
Il Centro Italiano di Ricerca Scientifica Operativa nella Psicanalisi e nell’ Educazione
(Cirsope) ha dedicato molta attenzione all’analisi e all’approfondimento di tale
dinamica, concentrando i propri studi sulle reazioni emotive degli operatori e
successivamente su quelle di familiari di bambini affetti da autismo. I risultati di tali
ricerche sembrano confermare che gli operatori che lavorano quotidianamente con
bambini autistici presentano induzioni emotive provenienti dai casi che stanno
seguendo.
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Proprio tali induzioni, se assunte e vissute con consapevolezza, costituiscono uno
strumento assai prezioso per costruire e vivere correttamente una sana relazione
educativa: non essere investiti da un contagio psichico ed emotivo, ma addestrarsi ad
un ascolto empatico consapevole diventa un obiettivo primario.Vivere in parte su di sè
le emozioni e le sensazioni provate da un'altra persona consente infatti di entrare con
essa in stretto contatto: il passo successivo diventa però, per non essere risucchiati nel
malessere dell'altro, imparare a vivere con una "giusta" distanza e con consapevolezza
il materiale emotivo indotto.
Gran parte degli studi e delle ricerche sul contagio psichico sono state inizialmente
condotte in ambito psicanalitico (prevalentemente dalla scuola Junghiana) e i risultati
ottenuti sono stati applicati alla relazione terapeuta-paziente psicotico.
Per comprendere come tali riflessioni possano essere una risorsa preziosa anche nel caso di
bambini con disabilità mentale, può essere utile leggere ciò che Misès R. (1978, pag. 26)
afferma:
“Le linee di demarcazione tra suddetti quadri patologici (insufficienza mentale,
demenza, psicosi, disarmonia evolutiva) sono difficili da stabilire poiché il deficit
mentale è sempre associato ad un cambiamento qualitativo dell’intera struttura
psichica.”
Cannao (1996; pag. 22) così introduce un interessante approfondimento del
rapporto tre sé e cervello:
“E’ molto frequente un processo di psicotizzazione di quadri di insufficienza mentale:
infatti la fragilità dei riferimenti intellettivi ed operativi determina facilmente
profonde distorsioni del rapporto con la realtà.
A nostro avviso, comunque, la necessità di affrontare queste situazioni (solo
funzionalmente assimilabili alla psicosi) non autorizza a confondere uno stato di
grave insufficienza mentale con una psicosi su base essenzialmente psicogena.
Questo non esclude l’esistenza di quadri a genesi mista : anche noi abbiamo avuto
spesso occasione di osservare soggetti in cui non era possibile discriminare il
versante psicotico da quello deficitario.”
In molti casi ci si trova quindi davanti ad una commistione tra il deficit mentale
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(quantitativamente e qualitativamente dimostrabile) e quelli che vengono definiti
“innesti psicotici”.
Come tutte le definizioni, queste parole raccontano poco o nulla della realtà concreta
degli individui che si trovano a viverle, ma ci possono aiutare a procedere con
maggiore chiarezza nel mondo della disabilità mentale.
Uno studio di Montobbio e Grondona (1990) mette in evidenza come si possa parlare
di "stabile identità precaria" nei casi di disabilità mentale. I due autori sottolineano
come tali individui nella maggior parte dei casi mettano in atto importanti meccanismi
di difesa nei confronti della realtà creando reazioni a catena, assimilabili al contagio
emotivo, in coloro che li circondano. Si tratta di una serie di operazioni mentali che le
persone con un handicap mentale mettono in atto inconsciamente al fine "di
neutralizzare una parte del proprio mondo interno ritenuto inaccettabile".( 1990; pag. 30)
Tali meccanismi possono prendere l' aspetto di forme persecutorie, maniacali o
depressive: da qui in alcuni casi può generarsi un pericoloso fraintendimento tra
handicap mentale e psicosi.
I giovani con disabilità mentale inseriti nello studio di Montobbio e Grondona
evidenziano coi loro vissuti l'insorgere di meccanismi difensivi che originano dalla
paura o dall'ansia derivanti dalla presa di coscienza della propria condizione.
Per sfuggire alla dolorosa realtà di scoprirsi "diversi" si rifugiano in mondi fatti di
ripetizioni ossessive, gesti o parole stereotipate, atteggiamenti maniacali che
svolgono la funzione, grazie alla loro ripetitività, di anestetizzare l'ansia di ciò che è
sconosciuto e di rifugiarsi in ciò che è sempre uguale e, perciò, controllabile.
Analizzando tali meccanismi nei giovani inseriti nel progetto di Montobbio e
Grondona, gli stessi autori affermano:
"Alcuni dei nostri giovani presentano tratti psicotici (psicosi di innesto), sono cioè più
o meno asintonici, incapaci di un rapporto autentico con il reale, a testimonianza di
un mondo interno che detta in modo obbligatorio i significati dei loro comportamenti.
Alcuni giovani si costruiscono un guscio difensivo formato da identificazioni adesive
con personaggi, con pseudo-ruoli, o ancora con argomenti monotematici.
Si tratta di elementi di falso Sé, poco utilizzabili nella vita reale e invece costantemente
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presenti nelle relazioni interpersonali."( 1990; pag. 30)
Tali dinamiche difensive, messe in atto inconsciamente al fine di negare o di non
affrontare qualcosa che spaventa, comportano dolorosi meccanismi di scissione
interna. Gli eventi, i comportamenti, le parole che provengono dal mondo esterno
vengono negate, mentalmente frantumate e scisse: da qui " vengono immediatamente
proiettate sul mondo esterno e inevitabilmente tornano sull'handicappato " ( Montobbio,
Grondona, 1990; pag. 32) provocando dolore e sofferenza.
Ciò che spaventa, provoca dolore, pone l'ansia del dubbio e dell'incomprensione non
viene tollerato psicologicamente da tali giovani affetti da disabilità mentale e così
tale bagaglio di sofferenza viene da essi inconsciamente proiettato sul mondo
esterno, in particolare, su coloro che lo abitano ( in primis i familiari).
Da qui deriva quello che Freud ha chiamato "effetto perturbante" della malattia
mentale (Opere, vol. 11, 1975) e che nella tesi in oggetto assume la definizione di
"contagio psichico".
Infatti i meccanismi che vengono proiettati su coloro che vivono a stretto contatto con
chi ha un handicap mentale provocano un "ritorno del rimosso ", cioè una presa di
contatto con parti del nostro mondo interno ancora presenti e non risolte in modo
definitivo.
"Inoltre il fatto che l'handicappato attraverso l'identificazione proiettiva interagisca
con parti di sé poste ( appunto proiettivamente) nell'interlocutore, determina in
quest' ultimo un comprensibile disorientamento e spesso un senso di frustrazione."
(Montobbio, Grondona, 1990; pag. 33)
Se coloro che subiscono questa proiezione di vissuti psicologici ed emotivi non sono
in possesso degli strumenti necessari per riconoscere che questi provengono dalla
sofferenza di un altro individuo, ma li vivono come propri si origina un vero e
proprio "contagio emotivo " e "psichico". E' quindi indispensabile che non solo gli
operatori ma soprattutto i familiari di persone che vivono la sofferenza mentale
vengano messi nella condizione di gestire con consapevolezza e con la giusta distanza
emotiva ciò che viene proiettato su di essi.
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1.3 Contagio psichico, contagio emotivo ed empatia
Il concetto di "contagio psichico", considerato come trasmissione di materiali psichici
da un soggetto ad un altro, contiene al suo interno quello di "contagio emotivo",
considerato come trasmissione e compartecipazione di vissuti emotivi.
Si può anzi affermare che il contagio emotivo sia una tappa che può portare
all'innescarsi di quello psichico: nel senso che la condivisione emotiva, non mediata
dalla consapevolezza della separazione tra ciò che proviene da me e ciò che proviene
dall'altro, consente il passaggio di contenuti emotivi nonché psichici. Il contagio
emotivo costituirebbe la base di quello psichico. Sembra quindi importante
approfondire cosa sia il "contagio emotivo" e in che modo si attui.
Per fare ciò è necessario introdurre un ulteriore concetto: l'empatia.
Una definizione di empatia si può ritrovare nel Webster’s Third New International
Dictionary,71 che ne dà la seguente descrizione:
“ La capacità di partecipare o di avere un’esperienza vicaria dei sentimenti, delle
intenzioni o delle idee e talvolta dei movimenti di un’altra persona, al punto da
eseguire con il corpo i movimenti che li rispecchiano.”
Per capire in che senso possa inserirsi l’empatia nella trattazione del tema in oggetto,
bisogna approfondirne origini e caratteristiche. Infatti solo un’analisi storica del
concetto aiuta a cogliere le diverse accezioni che il termine ha assunto nella letteratura
psicologica.
La parola “empathy” è stata coniata da Titcherner nel 1909 ed è stata applicata
inizialmente al godimento estetico. E’ stato successivamente Lipss ad utilizzare in
ambito psicologico la relativa traduzione tedesca , “einfuhlung”.
“Einfuhlung implica che chi osserva un certo gesto in un’altra persona proietti sé
stesso sull’altra persona e provi perciò ciò che l’altro sta provando, manifestando la
tendenza ad imitare il suo gesto.” ( Bonino, Lo Coco, Tani, 1998; pag. 9)
Da un piano puramente estetico si passa a sottolineare la sfera più affettiva del
termine “empatia” dando valore alla tendenza naturale a “sentire dentro”, a
compartecipare all’emozione di altre persone. La capacità di sentire come propria
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l’esperienza di un altro individuo era già stata descritta da Freud. Questi aveva ripreso
il concetto di empatia adattandolo all’ambito psicoanalitico e definendolo come
“ identificazione isterica”. Tale fenomeno descrive proprio l’attitudine di alcuni
pazienti di esprimere nei loro sintomi le esperienze di altre persone e di soffrire ciò che
gli altri soffrono.
In ambito clinico tale concetto è stato successivamente applicato con attenzione alla
relazione terapeuta-paziente. Molti infatti hanno visto nell’empatia uno strumento
fondamentale della relazione psicoanalitica e non solo.
Gustav Jung (1946; pag. 13)approfondisce tale tematica affermando:
“Le ripercussioni sul medico o sulla curatrice possono essere in certe circostanze
assai profonde. Conosco dei casi in stati-limite di schizofrenia in cui furono
“rilevati”, cioè assunti dal medico, perfino brevi intervalli psicotici…La cosa non
stupisce in quanto certi disturbi psichici possono essere estremamente contagiosi.”
Jung sottolinea inoltre come la traslazione dei contenuti emotivi dal paziente al
terapeuta avvenga in primis nei confronti dei familiari: la profonda differenza sta nel
fatto che i familiari nella maggior parte dei casi non sono in possesso di quegli
strumenti analitici che permettono di prendere le giuste distanze dal materiale
emotivo indotto.
Anche tra gli studiosi di psicologia sociale l’empatia ha riscosso un fervente interesse
già a partire dagli anni Trenta, in particolare con le osservazioni di Allport
(1937) e di Murphy (1947) sulla tendenza all’imitazione motoria delle posture e delle
espressioni facciali degli altri individui.
Pur partendo da prospettive e da obiettivi di interesse diversi, sia gli studi clinici,
che psicologici, sociali e della personalità hanno tutti riconosciuto all’empatia una
matrice affettiva, considerandola un’esperienza di condivisione emotiva.
Dagli anni Sessanta in poi l’interesse per l’empatia si è modificato con gli studi di
psicologia dello sviluppo che hanno posto l’accento sul carattere cognitivo del
fenomeno. L’empatia viene ad essere considerata come la capacità di assumere il
ruolo e la prospettiva di un’altra persona.
Questo breve excursus storico serve a mettere in risalto come nel corso di questo
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secolo l’empatia sia stata identificata via via con fenomeni diversi ( contagio
emotivo, imitazione motoria, condivisione affettiva, compartecipazione di
prospettiva). La ricerca attuale tende a fornire un modello multi-dimensionale di
empatia che, a livello diverso, viene a comprendere tutti i meccanismi sopra
evidenziati. Ciò che interessa per la nostra analisi è porre l’attenzione sulla forma più
primitiva di empatia: il contagio emotivo.
Bonino-Lo Coco-Tani definiscono il contagio emotivo come un insieme di “tutte
quelle forme di condivisione emotiva immediata e involontaria, caratterizzata da
assenza di mediazione cognitiva. Si tratta di reazioni automatiche agli stimoli
espressivi manifestati da un’altra persona: l’emozione è dunque condivisa non in
modo vicario, ma in modo diretto.” ( 1998, pag. 27)
L’ipotesi dell’esistenza di una tendenza innata al contagio emotivo risale agli studi di
Darwin (1872) per il quale tale condivisione emotiva aveva una funzione
comunicativa e sociale. Egli cioè intravedeva nella condivisione di un’emozione un
segnale per attivare negli altri individui dello stesso gruppo una reazione immediata al
pericolo.
Queste osservazioni sono state poi riprese dall’etologia moderna che ha
cercato di approfondire il valore adattivo che può avere il contagio di emozioni
negative, ed in particolare del dolore e della sofferenza. Tale condivisione sembra
infatti essere la molla che fa scattare nell’uomo la tensione alla cooperazione,
all’altruismo e all’accudimento dei più piccoli e dei più deboli. Proprio verso
quest’ultima direzione si sono orientati alcuni studi di psicologia dell’età evolutiva.
In particolare è stata posta attenzione al ruolo che il contagio emotivo ha nella
relazione affettiva tra il bambino e l’adulto. In questo gruppo di studi si inseriscono le
ricerche svolte da Bulher (1930) sulla concordanza mimica tra la madre e il neonato,
definita anche “mimetismo affettivo”. Tra le teorizzazioni più recenti si inseriscono i
lavori di Stern sulla sintonizzazione emotiva (1985) e di Trevarthern
sull’intersoggettività (1993).
Già dagli anni Ottanta è stato grazie ad Hoffman (1987) che l’interesse è tornato sulla
matrice più originaria dell’empatia: egli infatti ha collegato il contagio alla
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condizione di fusione, o per lo meno di mancanza di una netta separazione tra sé e
l’altro (empatia globale).
Secondo il modello multi- dimensionale più attuale il contagio si colloca all’origine di
un continuum che va a toccare tutte le altre forme di empatia, anche quelle più
evolute, caratterizzate da un livello crescente di mediazione cognitiva e di
differenziazione tra sé e l’altro.
Trascurando la funzione positiva che il contagio ha come fattore di crescita di un
individuo e della specie in generale, bisogna sottolinearne anche una funzione
negativa. Infatti, implicando un’immedesimazione con le emozioni altrui, ne consegue
una perdita dei confini della propria differenziazione e un annullamento nell’altro.
Una conferma si può avere anche dalle parole di Bonino-Lo Coco-Tani ( 1998, pag 56)
“Il contagio nell’adulto può collegarsi alla riattivazione di processi confusivi,
assimilativi ed imitativi che in età precoce sono del tutto funzionali, ma che in età
adulta configurano una condotta più primitiva che riflette una situazione di
disagio.”
E’ quindi comprensibile come il contagio di emozioni e di vissuti negativi rappresenti
un pericolo ancora più evidente per ogni individuo: infatti spesso vengono attivati
importanti meccanismi di difesa al fine di scongiurare tale contagio.
Gli individui che non possono fuggire o evitare la situazione di sofferenza -
psicoterapeuti, operatori sociali e sanitari, familiari e congiunti - corrono
maggiormente i rischi del contagio che può tradursi in forme, anche lievi, di patologia
fisica e psichica.
Alcuni studi clinici hanno infatti confermato che “ i rischi di una
condivisione empatica non controllata degli stati emotivi del paziente da parte del
terapeuta può comportare effetti negativi, non solo per il terapeuta, ma anche per il
paziente, che può, in questi casi, finire col sentirsi invaso più che compreso.”
( Marcia, 1987; Pao, 1979)
Il contatto e la condivisione emotiva non devono essere evitati, anzi bisogna trasformarli in
preziosi strumenti di aiuto soprattutto nella relazione con persone che
vivono un disagio o una sofferenza. Bisogna cioè passare da un livello di
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immedesimazione non consapevole ad uno di empatia cognitivamente mediata.
Ciò comporta che i professionisti che lavorano con la disabilità mentale e soprattutto i
familiari di chi ne è affetto vengano sostenuti ad intraprendere un percorso che
addestri la loro capacità di ascolto empatico.
Come si è approfondito con l'excursus
storico sopra esposto l'immedesimazione emotiva con chi soffre è una tendenza insita
nell'essere umano: è quindi una molla indispensabile verso l'accudimento e la cura
degli altri, ma nei casi di convivenza prolungata con le situazioni di disagio può
diventare estremamente rischiosa. Una condivisione im-mediata con la sofferenza può
infatti provocare l'attivazione di reazioni concitate, prorompenti e istintive che si
esauriscono con la stessa velocità con cui si sono attivate.
Ne sono un esempio eclatante tutte quelle situazioni, purtroppo estremamente frequenti
all'interno delle numerose associazioni di volontariato sorte per sostenere ed aiutare chi
vive un handicap, in cui i volontari motivati da una forte immedesimazione iniziale col
dolore dell'altro non reggono nel tempo l'impegno preso a causa anche del non riuscire a
trasformare la forte condivisione emotiva iniziale in un più moderato, ma più utile e
duraturo approccio empaticamente fondato.
La fuga, esito di tale incapacità, se può essere una strada risolutiva per il volontario, non
può esserlo per familiari ed operatori.
Essi devono forzatamente devono intraprendere un percorso per arrivare a
condividere, senza esserne invasi e contagiati, le emozioni e le sofferenze dei loro
pazienti o congiunti.
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1.4 Sindrome “Folie à deux” e contagio psichico
Interessanti ai fini del discorso intorno al "contagio psichico" appaiono le riflessioni
sorte nel secolo scorso su una sindrome rara che ha preso il nome “ folie à deux”
( letteralmente “follia compartecipata”). La dimostrazione dell'esistenza di tale
patologia condotta in ambito psicanalitico è stata soggetta a molte critiche ma offre
comunque spunti preziosi da ricollegare all'ipotesi dell'innescarsi di un contagio
emotivo e psichico in coloro che vivono con una persona affetta da sofferenza mentale
di qualsiasi tipo ed origine.
Due studiosi, Lasègue e Falret in alcuni articoli pubblicati nel 1887 sugli “ Annales
Mèdico-psychologigues” e sugli “Aerticles gènèrales de Mèdecine” per primi parlarono
di “folie à deux” ed esposero i meccanismi connessi a tale patologia attraverso
la presentazione di diversi casi trattati ed osservazioni personali relative a questi. Essi
identificarono una serie di regole necessarie per stabilire la comparsa e/o scomparsa
della “folie à deux”.
Secondo la loro trattazione in condizioni normali non vi può essere trasmissione del delirio
da un malato a un individuo sano di mente; come pure è estremamente raro lo stesso
contagio da un paziente all’altro. Dunque il contagio può verificarsi solo in alcune
particolari condizioni che appunto danno luogo alla “folie à deux”. Tali condizioni sono:
• uno dei due individui, l’elemento attivo, crea il delirio e lo passa all’altro,
l' elemento passivo. Quest’ultimo, dopo aver cercato di resistere cede ma
corregge il delirio, cercando di renderlo più verosimile. Questa nuova
formazione delirante diviene il delirio condiviso da entrambi e a questo
punto non è più possibile distinguere clinicamente il malato induttore da
quello indotto.
• affinché tutto ciò possa avvenire, occorre che le due persone vivano
lungamente nello stesso ambiente e che condividano parte della propria
vita.