7
declinata in vari modi all’interno del mondo dei consumi, poiché il
concetto di etica stesso si presta a molteplici interpretazioni a seconda dei
tempi, delle circostanze e degli individui coinvolti. Col crescere della
complessità del prodotto e del servizio di cui si usufruisce, l’attenzione
che un individuo pone nelle proprie scelte aumenta, fino alla
strutturazione di uno stile di vita che può spaziare dall’impegno in ambito
sociale, alla finanza etica, dal boicottaggio al turismo responsabile. Il
consumo critico si traduce in comportamenti ed acquisti guidati da una
spiccata attenzione alla sobrietà.
Ritengo che le virtù civili dei cittadini, traslate nel mondo dei consumi,
rappresentino la leva in grado di attivare le potenzialità virtuose
dell’attuale sistema economico-sociale, e possano essere considerate
validi strumenti per la costruzione dal basso dell’economia, segnalando gli
elementi che devono essere cambiati all’interno del mercato. Il
cambiamento dei consumatori si può dunque considerare all’origine del
lento mutamento delle imprese, che in alcuni casi stanno cominciando a
mettere al centro del proprio sviluppo l’attenzione all’ambiente e all’uomo,
in una graduale presa in carico delle proprie responsabilità sociali.
Nel terzo capitolo ho descritto alcuni esempi di importanti aziende che
hanno creato disagi e gravi danni ai consumatori, ai lavoratori e al luogo
in cui si sono stabilite, a causa di atteggiamenti sconsiderati e scorretti.
Attualmente, però, stanno cominciando ad aumentare le imprese che
hanno compreso come l’attenzione etica stia iniziando a influenzare le
decisioni di acquisto degli individui e vada dunque soddisfatta per
rimanere all’interno del mercato.
Si chiude con questo capitolo una prima parte preparatoria all’analisi di
una particolare declinazione dell’etica nei consumi e più ampiamente nel
mercato; in seguito, infatti, ho analizzato l’introduzione del Commercio
Equo nell’economia tradizionale. Ho ritenuto questo movimento un
calzante esempio del processo di concretizzazione del desiderio di un
8
numero sempre maggiore di individui di rendere paritari i rapporti
commerciali tra Nord e Sud del mondo, per portare prosperità e sviluppo
senza sradicare i popoli dalla propria terra e dalla propria cultura. Il
commercio alternativo riesce a traslare le aspirazioni utopiche degli
attivisti e della società civile nel mercato, mediando tra le due realtà per
farle convivere e spingerle alla completa fusione. Sebbene questo
progetto sia ancora ben lungi dal realizzarsi, permette agli individui di
operare nel quotidiano affinché questa unione si realizzi.
Nel quinto capitolo ho delineato l’evoluzione storica del Commercio
Equo e la sua diffusione a livello globale, passando poi a definire le
caratteristiche principali dei consumatori che conoscono questo tipo di
commercio, la comunicazione che le organizzazioni importatrici rivolgono
al proprio pubblico di riferimento (con particolare attenzione all’operato di
CTM Altromercato) e i canali distributivi che il Fair Trade ha oggi a
disposizione. La principale differenza tra le Botteghe del Mondo e la
Grande Distribuzione, con la quale le associazioni di Commercio Equo
collaborano da pochi anni, sta principalmente nell’apporto comunicativo
dato al cliente. Nelle botteghe si dà maggior peso all’informazione
rispetto ai supermercati, ma non si può affermare che quest’ultimo canale
sia improprio per i prodotti etici, poiché un importante pregio della
grande distribuzione è quello di aumentare tra gli individui la notorietà del
Commercio Equo. I due tipi di punto vendita si completano
vicendevolmente favorendo la crescita di un pubblico sempre più
variegato ed eterogeneo dal punto di vista economico, sociale e
comportamentale.
Nella conclusione ho prospettato le linee di sviluppo di uno stile di vita
non ancora del tutto formato, forse destinato a crescere e a diffondersi
anche tra stili di vita differenti ed ora apparentemente lontani da questo
modo di consumare, di pensare ed agire.
9
PARTE PRIMA:
AGIRE ETICO
10
VERSO IL CAMBIAMENTO
1. Un’etica polimorfa
Le difficoltà che si incontrano analizzando il concetto di etica non
stanno tanto nello stilarne una definizione teorica, quanto nel valutare il
grande numero di valori e comportamenti che orbitano nell’area dell’etica
stessa.
In essa infatti si riscontrano contemporaneamente due dimensioni,
una individuale-soggettiva e una sociale-normativa, che comportano il
coinvolgimento di innumerevoli elementi: ogni individuo, nel tempo,
costruisce una propria scala di valori, che varia a seconda delle
caratteristiche specifiche del soggetto e dell’influenza che la società (con
le sue norme civiche, politiche e religiose) ha sulla persona.
La parola ethos, in greco, significa comportamento, costume, ma
nell’accezione comune si parla di comportamento etico per indicare
un’azione “corretta”, che non reca danno ad altri e non trasgredisce le
norme implicite ed esplicite della società d’appartenenza. In quest’ottica è
evidente la natura relazionale dell’etica e ha senso parlare di atti etici e
non, solo se le azioni in questione comportano ripercussioni sugli altri o
sulla comunità in generale.
Ognuno si ritrova a dover analizzare le proprie azioni considerando
danni e vantaggi ottenibili per sé e per la società, ma valutazioni simili
sono spesso complesse, in quanto le variabili in gioco sono in genere
molto numerose, ed una stessa azione può essere un bene per alcuni e
un male per altri.
E’ per questo che spesso si originano veri e propri dilemmi che non
hanno però un’unica soluzione, poiché le risposte variano in base ai
portatori d’interesse coinvolti e alla situazione.
11
Ognuno ha dunque una propria concezione dell’etica e delle regole che
essa impone (o propone) e questa condizione sfumata e polimorfa crea
difficoltà, soprattutto nella gestione di organismi politici ed economici che
dovrebbero valutare le proprie azioni considerando le necessità di tutti i
portatori di interesse, che in questi casi sono davvero numerosi. Ognuno,
inoltre, dà un peso diverso all’agire etico, passando da atteggiamenti
radicali, come accade per ciò che Weber definisce “agire razionale
rispetto a un valore” (per cui si intraprende un’azione solo in relazione ad
uno specifico credo), a posizioni più blande, per cui si combina l’agire
etico con valutazioni del contesto.
Nonostante il concetto di etica sia sfumato, e vari nei diversi individui,
nelle società e nel tempo, non significa che non si possano mai
individuare azioni definibili etiche o non etiche; esistono infatti dei
metavalori,
1
ovvero dei valori tendenzialmente stabili nel tempo e
presenti (ad un livello più o meno rilevante) nella scala valoriale della
maggior parte delle persone, che costituiscono la base per le valutazioni
dei comportamenti: questi principi universali, come l’onestà e il rispetto
per gli altri e per la vita, costituiscono il cuore dell’etica.
In questo primo capitolo vorrei analizzare il percorso dell’etica nel
contesto politico, economico e sociale, passato ed odierno, per
individuare i cambiamenti in atto e, se possibile, quelli ancora in fase
embrionale, con un’attenzione particolare ai consumi, che ritengo
altamente significativi per cercare di comprendere le linee evolutive della
società rispetto al concetto di etica.
1
Cfr E. Giaretta, Business ethics e scelte di prodotto, L’etica: alcune questioni
definitorie, CEDAM, Milano, 2000.
12
2. Le tappe del cambiamento nella società dei
consumi
Lo stile di vita improntato sui consumi è nato negli Stati Uniti, nel
momento di abbondanza iniziato dopo la Seconda Guerra Mondiale, e si è
notevolmente sviluppato nel corso del tempo, tanto che oggi, nei paesi
industrializzati, il consumo permea anche i valori sociali. Per molti è
diventato una necessità imprescindibile, ma non sempre consumare crea
benessere reale per gli individui: ognuna delle fasi del ciclo di vita dei
prodotti (la produzione, la distribuzione, l’uso e l’eliminazione del prodotto
stesso) può causare danni a se stessi o agli altri. Queste considerazioni
mostrano come esistano delle implicazioni etiche nelle scelte di consumo,
e come l’acquisto di prodotti apparentemente banali e innocui possa
influire su di noi e sul contesto.
Affinché venissero rispettati dalle imprese gli elementi basilari per la
conservazione della dignità e dei diritti umani, i consumatori, nel corso
del novecento, hanno intrapreso diverse battaglie, che hanno preso forme
e direzioni diverse andando a coprire numerosi aspetti del consumo e del
rapporto che gli individui hanno con esso.
Negli anni venti, in America, con la nascita del supermercato
2
e la
crescita dei negozi a libero servizio, venne messa in luce la necessità dei
consumatori di avere notizie precise sulle caratteristiche e sulla
provenienza dei prodotti che acquistavano. Il movimento consumerista ha
avuto origine proprio a partire dall’assoluta mancanza d’informazione ai
consumatori, che impediva di effettuare scelte consapevoli. Lo scopo era,
ed è ancora oggi, sopperire alla carenza di rappresentanza istituzionale,
per unire e canalizzare le proteste ancora sparse e disunite. Gli individui si
ponevano innanzitutto l’obiettivo di tutelare i propri interessi e la qualità
dei prodotti che le aziende immettevano (e immettono) sul mercato e di
2
In Italia il primo supermercato (Esselunga) fu aperto nel 1957, a Milano.
13
far quantomeno diminuire il numero di truffe e raggiri per contrastare il
potere delle aziende. In seguito il ruolo del consumerismo consisterà
anche nel fungere da punto di riferimento per i consumatori e da stimolo
alla creazione di una coscienza etica nel mondo della produzione e della
distribuzione.
Parallelamente allo svilupparsi del fenomeno consumerista, cominciava
a diffondersi anche una sensibilità ambientalista sempre più spiccata, che
univa la passione per la ricerca scientifica alla volontà di tutela degli
ambienti naturali per contrastare gli squilibri ambientali causati dallo
sviluppo industriale. Si inaugurò in questo modo un filone protezionistico
sfociato nelle moderne associazioni ecologiste, che cominciarono a
nascere negli anni cinquanta.
3
Fu però tra gli anni sessanta e settanta che si verificarono vistosi
cambiamenti nella sensibilità degli individui; il ’68 portò con sé la
rivoluzione sessuale e le rivendicazioni femministe, une forte
partecipazione alla vita politica del proprio paese e la certezza che la
protesta (pacifica e non) fosse uno strumento irrinunciabile per far valere
la propria opinione e partecipare in prima persona alle decisioni politiche.
In Italia, l’ambientalismo moderno nacque proprio in quegli anni, accanto
al movimento di protesta antinucleare e pacifista. Da qui si originarono le
battaglie contro l’installazione di centrali nucleari, tanto che dopo la
tragedia di Cernobyl
4
venne depositata la richiesta di un referendum
popolare che ebbe esito positivo per il movimento ambientalista. Ciò
accadde anche grazie al successo delle liste verdi, che ha comportato una
sensibile modificazione nel panorama politico-istituzionale.
5
3
Italia Nostra fu fondata nel 1955, Pro Natura nel 1959, la LIPU (Lega Italiana
Protezione Uccelli) nel 1965. Il WWF internazionale, nacque in Svizzera nel 1960.
4
Il 26 aprile 1986, a causa di una serie di guasti al sistema di raffreddamento, uno dei
reattori della centrale nucleare cominciò a surriscaldarsi e a fondersi, generando una
nube radioattiva che si estese in gran parte di Asia e Europa.
5
Il Ministero dell’ambiente venne insediato nel 1984 ed il primo responsabile del
dicastero fu il liberale Biondi.
14
Tra gli anni ottanta e novanta, si è verificata una sorta di anestesia
della protesta della gente comune: dopo i fermenti degli anni settanta,
mentre proseguiva l’attivismo di alcuni gruppi, la società civile nel suo
complesso ha trascorso un periodo nell’ombra, godendo del benessere
che le multinazionali sembravano portare sul mercato senza porsi troppe
domande sulla provenienza di tanta ricchezza. Le cose cambiarono a
partire dalla fine degli anni novanta: un anno simbolico è sicuramente il
1999, quando a Seattle si tenne un incontro del WTO, aspramente
contestato da manifestazioni di piazza.
La politica ufficiale dei vertici e delle grandi corporations fu costretta
ad iniziare a confrontarsi concretamente con il punto di vista dei no-
global, cioè di chi rifiutava gli aspetti negativi della globalizzazione
economica, come lo strapotere delle multinazionali, lo sfruttamento dei
lavoratori, l’omologazione culturale e il degrado ambientale creato
dall’inquinamento industriale.
Il popolo di Seattle ha cominciato a seguire con determinazione le
mosse dei Grandi 8, in un contrappunto politico fatto di controvertici,
controinformazione, proteste e rivolta, a volte anche violenta. Prima della
politica e delle ideologie però, si è manifestata una sensibilità nuova, che
ha fatto emergere le paure di molti, come l’ansia per il futuro
dell’ambiente, la volontà di diminuire le disuguaglianze o di non perdere
le diversità culturali.
A Seattle, la globalizzazione ha cessato di essere un tema per
specialisti, diventando un argomento sulla bocca di tutti.
Il sorgere della protesta, secondo Igniacio Ramonet
6
, appare come il
primo embrione di una società civile internazionale che unisce un gran
numero di associazioni, organizzazioni non governative e singoli cittadini.
6
Citato in: V. Giacobini, No-global, tra rivolta e retorica, Eleuthera, Milano, 2002.
15
I contestatori di Seattle hanno cioè iniziato a costruire, sebbene
ancora in forma approssimativa, un contropotere mondiale, che potrebbe
essere un’opportunità concreta per riformare l’assetto economico-sociale
mondiale. Per essere utile al cambiamento, però, la protesta deve essere
propositiva, creare apertura e spazio per il dialogo, suggerendo soluzioni
concrete e percorribili, senza chiudersi nel rifiuto totale dell’oggetto della
propria protesta.
16
3. Il bisogno di etica nell’era della globalizzazione
Negli ultimi anni una svolta decisiva nel percorso di crescita
dell’attenzione del consumatore all’etica è stata data dall’emergere lento,
ma continuo, di un atteggiamento critico nei confronti della
globalizzazione e delle conseguenze che essa comporta.
Da quando lo studio dell’economia si staccò dalla morale, diventando
scienza, con l’opera di Adam Smith, le questioni attinenti all’etica erano
state demandate ad altre discipline,
7
ma in questa fase di globalizzazione
economica le imprese stesse e i consumatori hanno ricevuto una forte
spinta a ricercare nuovamente un contatto tra il mondo dell’etica e il
mercato.
Non credo che si debba tentare di costruire un ethos al di fuori del
Mercato per combatterlo, ritengo invece necessario promuovere una
mutazione del mercato stesso che porti a definire dei confini etici, non
imposti dall’esterno, ma prodotti degli agenti economico-politici che lo
costituiscono. Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Centesimus annus, propone
una riflessione sulla possibilità di conciliare Etica e Mercato:
8
Sembra che, tanto a livello delle singole nazioni, quanto a quello dei rapporti
internazionali, il libero mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e
rispondere efficacemente ai bisogni. Ciò, tuttavia, vale solo per quei bisogni che sono
“solvibili”, che dispongono di un potere d’acquisto, e per quelle risorse che sono
“vendibili”, in grado di ottenere un prezzo adeguato. Ma esistono numerosi bisogni
umani che non hanno accesso al mercato. E’ stretto dovere di giustizia e verità che i
bisogni umani fondamentali non rimangano insoddisfatti e che gli uomini che ne sono
oppressi non periscano. E’ inoltre necessario che questi uomini bisognosi siano aiutati
ad acquisire le conoscenze, ad entrare nel circolo delle interconnessioni a sviluppare le
loro attitudini per valorizzare al meglio capacità e risorse. Prima ancora della logica
dello scambio degli equivalenti e delle forme di giustizia che le sono proprie, esiste un
qualcosa che è dovuto all’uomo perché è uomo in forza della sua eminente dignità.
Questo qualcosa di dovuto comporta inseparabilmente la possibilità di sopravvivere e di
dare un contributo attivo al bene della comunità.
7
Cfr T. Perna, Fair Trade, Etica e capitalismo: le risposte della società civile
internazionale, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 1998.
8
Citato in P. Del Debbio, Global, Verso un ethos globale della competizione e della
compassione, Mondatori, Milano, 2002.
17
Da queste parole pare di capire che il Papa esponga una propria
opinione riguardo a una realtà (certamente non ancora drammaticamente
esplosa nel 1991) in cui la rete globale di commerci è ormai costituita, e
in cui vengono riconosciute le leggi di un mercato che ha bisogno di
essere integrato da altri organismi, come le organizzazioni non profit, al
fine di promuovere la soddisfazione dei bisogni basilari dell’uomo e
mantenerne la dignità.
E’ ormai chiaro che non è più possibile fare a meno del mercato, e la
sua distruzione sicuramente non gioverebbe né ai paesi ricchi, né a quelli
più arretrati; non è un’entità costruita per rispondere a tutti i bisogni
umani, ma non deve nemmeno calpestarli o ignorarli. Credo sia possibile
modificare la situazione per ridistribuire più equamente le ricchezze,
salvaguardare i consumatori e i lavoratori, aumentare il benessere di tutti,
senza perdersi in utopie lontane. L’etica, per preservare la propria natura,
non può rimanere avulsa dal contesto, ma è necessario che influenzi
positivamente la realtà economica, che entri in simbiosi con essa affinché
una non possa fare a meno dell’altra per guidare l’economia nel tempo e
nel luogo a cui è correlata.
Come sostiene il noto economista indiano Amartya Kumar Sen,
9
uno
stretto contatto tra etica ed economia può essere utile non solo alla
seconda, ma anche alla prima, a patto di capire che la logica del mercato
capitalistico non può essere semplicemente eticamente aggiustata, ma
vada trasformata. A questo proposito ha rilasciato un’intervista in cui
espone le proprie idee sulla globalizzazione e l’etica:
10
“…una delle mie maggiori preoccupazioni è il problema dell’equità, delle pari
opportunità sia nelle nazioni che tra le nazioni. La natura del mio lavoro mostra che
sono molto a favore dell’economia di mercato, ma ciò che in essa più mi interessa non
è il mercato in sé, ma l’insieme delle cose che si possono fare con l’economia di
mercato e che il mercato da solo, invece, non può fare. E’ necessario promuovere le
9
Sen ha vinto nel 1998 il premio Nobel per l’economia.
10
Intervista riportata in D. Demichelis (a cura di), NO global, Il popolo di Seattle? Più
globalizzato di così, di F. Scaglione, Zelig, Milano, 2002. Parte dell’intervista è stata
anche pubblicata in Famiglia Cristiana, n. 40, ottobre 2000.
18
libertà, tutte le libertà, che sono tante e diverse e che si integrano l’una con l’altra. Lo
sviluppo e le pari opportunità sociali per tutti i cittadini non arrivano con la sola libertà
del mercato, così come non arrivi da nessuna parte eliminando il mercato. Ecco perché
del popolo di Seattle ho più in simpatia le domande che le risposte. Non sono affatto
convinto che il popolo di Seattle possa essere descritto come contrario alla
globalizzazione. Tutte queste persone che si mobilitano da una parte all’altra del
pianeta formano esse stesse un movimento politico globalizzato, anche se protesta
contro l’economia globalizzata. (…) Le multinazionali non sono nate per promuovere la
democrazia nel mondo, è inutile accusarle di non farlo. Le multinazionali esistono per
fare affari. Ciò a cui bisogna badare è: fino a che punto questa loro natura danneggia
la democrazia? E la democrazia, ma in questo caso è meglio dire la giusta miscela tra
gli interessi del mercato e quelli della democrazia, è affare dei popoli e delle loro
leadership politiche. (…) Tutto il progresso del mondo, in economia come in ogni altro
ramo del sapere, deriva dai contatti, dagli scambi, dall’incontro tra persone e civiltà
diverse. L’ultima cosa da fare è trasformare la sacrosanta protesta contro le ingiustizie
in un tentativo di fermare gli scambi su scala mondiale.”
Il percorso d’integrazione tra etica e mercato non può essere
intrapreso esclusivamente dagli economisti e dai filosofi, o deciso a
tavolino da aziende e multinazionali desiderose di migliorare la propria
immagine agli occhi del pubblico, ma deve essere stimolato e rinnovato
costantemente dall’apporto concreto di chi costituisce il mercato stesso,
ovvero i lavoratori, i consumatori, i movimenti… che possono realmente
riavvicinare l’economia al rispetto di valori imprescindibili.
I movimenti di protesta nascono dalla consapevolezza che le imprese
non sono solo le fornitrici dei beni di consumo che noi chiediamo, ma
sono anche potenti forze politiche ed economiche a cui non si vuole più
lasciare l’intero potere decisionale.
La globalizzazione ha generato una folla di attivisti con la stessa
mentalità globale delle aziende che cercano di colpire: sono studenti,
anziani, rappresentanti di gruppi religiosi o sindacali, intellettuali e gente
comune, che si possono difficilmente tenere sotto controllo, proprio per la
loro l’eterogeneità e mutevolezza.
L’attacco al potere del marchio può di conseguenza assumere varie
forme, a partire da comportamenti socialmente accettati, come le
manifestazioni pacifiche, fino ad arrivare ad atti che violano la legge o
addirittura al terrorismo.
19
Le campagne anti marchio, ad esempio, sono nate per contrastare le
aziende colpendone il cuore: l’immagine di un’impresa può crollare
repentinamente sotto i colpi dello sdegno popolare ed il potere del logo
può diminuire impietosamente se i consumatori decidono che ciò che
rappresenta deve essere combattuto. Un esempio di risposta alla
pubblicità delle multinazionali è il fenomeno dell’interferenza culturale o
culture jamming,
11
una pratica che consiste nel parodiare gli annunci
pubblicitari e nel deturpare i cartelloni per alterarne drasticamente il
messaggio.
I sabotatori partono dal presupposto che tutti hanno il diritto di
controbattere a immagini che non hanno mai chiesto di vedere,
rispondendo alle imprese trasformando i loro stessi messaggi. L’azienda
così subisce un doppio danno: uno economico, che consiste nella spesa
(ormai inutile) fatta per l’acquisto dello spazio pubblicitario e uno
simbolico, che consiste nel danneggiamento evidente della propria
immagine.
Immagine n°1: un esempio di culture jamming contro le sigarette KOOL,
fornito da Ron English, tratto da No logo, di N.Klein.
11
Cfr a Naomi Klein, No logo, L’interferenza culturale, Baldini e Castoldi, Milano, 2000.
20
Un altro tipo di lotta intrapresa contro le multinazionali durante gli
anni novanta, a seguito di un consistente aumento del potere delle grandi
aziende transnazionali, riguarda lo sfruttamento minorile e dei lavoratori
in generale. Un caso emblematico è quello della Nike:
12
nel 1996 la
rivista Life pubblicò le fotografie di bambini pakistani molto piccoli, pagati
meno di 6 centesimi l’ora, ricurvi su palloni da calcio con l’inconfondibile
marchio Nike.
Non esistono statistiche complete sul lavoro minorile, nella gran parte
dei casi i governi e i datori di lavoro si rifiutano di ammetterne l’esistenza,
o non compiono rilevazioni statistiche ufficiali. Secondo stime dell’UNICEF
il numero di bambini lavoratori nel mondo oscilla intorno ai 211 milioni.
13
L’impiego di manodopera minorile, in molte zone è tollerato perché
funzionale al sistema economico nazionale, che diventa così più
competitivo e attira capitali esteri. I bambini costretti a lavorare pagano
spesso lo scotto di politiche economiche miopi, attuate in paesi costretti a
far fronte ai numerosi debiti contratti.
A fronte di questa complessa ed estesa realtà, l’UNICEF interviene, in
collegamento con le organizzazioni non governative locali e con gli uffici
nazionali dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) con due tipi
di azioni: da un lato programmi di sostegno all’economia familiare, che
rendano meno necessario il ricorso al lavoro dei più piccoli, dall’altro
interventi a favore dei bambini lavoratori, per tutelarli (anche legalmente)
e per garantire loro la possibilità di andare a scuola o ricevere
un’istruzione professionale.
Non è comunque possibile che il lavoro minorile scompaia dal mondo
oggi, e neppure domani. Crisi economiche, conflitti, spostamenti di
popolazione per cause naturali e non, creano continuamente nuovi spazi
per lo sfruttamento economico dei più piccoli.
12
Cfr a N. Klein, No logo, Cresce il malumore, Baldini e Castoldi, Milano, 2000.
13
Questi dati e i seguenti sul lavoro minorile sono stati tratti dal sito www.unicef.it.