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condemnationis, vel absolutionis”
4
. Possiamo quindi affermare che il compito del
sapiens è quello di intervenire nell’attività del giudice ad adiuvandum, contribuendo
alla formazione della sentenza, che è atto esclusivo del giudice, il solo titolare della
potestà giurisdizionale.
La non identità tra consilium e sententia può essere osservata anche qualora si tenga
presente il fatto che il giudice non è esonerato da responsabilità riguardo alla
provenienza del parere; non tutti i periti hanno, infatti, uguale fama e il giudice dovrà
allora valutare i consilia prodotti e, talora, richiedere più pareri, per poter così avere una
visione d’insieme più completa ed evitare di basare la sentenza su una tesi minoritaria o
che male si avvicina alla realtà.
Condivido quindi l’opinione di illustri giuristi, quale l’Engelmann, che rifiutano la
teoria del Roberti; a mio avviso, infatti, sarebbe una forzatura tentare di identificare la
sentenza con il consilium, soprattutto perché non si può fare una generalizzazione e
parlare della funzione del consilium in astratto, senza tener presente l’evoluzione storica
dell’istituto. Se, infatti, negli Statuti cittadini vi sono norme che indicano al giudice
come comportarsi di fronte ai vari consilia emessi disciplinando anche l’eventuale
responsabilità del giudicante che non segua il parere richiesto, non si può assolutamente
affermare che nei primi anni di utilizzo di quest’istituto fosse chiaro al giudice come
comportarsi nei casi in cui egli si fosse dovuto avvalere dell’opera consulente di un
dotto. Senza dimenticare poi che la funzione giurisdizionale non poteva essere esercitata
in concreto da un giurisperito, il quale, anche se alle volte più esperto delle norme
cittadine di un giudice proveniente da un’altra città, non era in ogni modo investito
dell’autorità necessaria per emanare un provvedimento conclusivo di una controversia,
anche se vedremo che nei secoli si è fatto sempre più labile il confine tra attività
esercitate dal giudice e dal sapiens, giungendo alcune volte quasi ad una caotica fusione
tra i due ruoli.
4
G. ROSSI, Consilium sapientis iudiciale… cit. p. 108
3
1.2 Elementi costitutivi del consilium sapientis iudiciale
Chiariti alcuni dubbi riguardo l’ambigua definizione dell’istituto, bisogna ora affrontare
il problema di definire concretamente cosa sia un consilium, poiché sotto lo stesso
termine si celano realtà ben diverse.
Il consilium sapientis iudiciale in senso stretto è quello che viene richiesto dal
magistrato cittadino, per la definizione della causa in corso, al giurista dotto; si tratta
quindi di una richiesta di assistenza da parte del giudice ad un giurista di cattedra. Il
consilium ricevuto viene poi riprodotto nella sentenza, operazione questa solitamente
prevista dagli Statuti comunali per i casi in cui siano le parti in causa a farne richiesta.
L’abitudine di seguire i pareri ricevuti trova una spiegazione nel fatto che procura al
giudice un vantaggio non irrilevante: sarà difficile che egli si veda contestata una
sentenza emanata in conformità al consilium di un giurista di indiscussa fama durante la
severa procedura di controllo cui egli sarà sottoposto al termine del suo mandato.
Di diverso tipo sono, invece, i consilia scritti dati dal giurista alle parti, pareri quindi
emessi nell’interesse del cliente, ma pro veritate, una denominazione questa che li
distingue dalle allegationes, le normali comparse e memorie difensive degli avvocati.
Fino al XV secolo Glossatori e Commentatori dedicano parte della loro produzione
proprio alla consulenza privata, dando adito a sospetti di venalità e parzialità nei
confronti di consilia particolarmente diffusi e persuasivi nella pratica giudiziaria.
E’ interessante poi notare come, oltre ai giudici, anche l’imperatore ed il pontefice
chiedano l’intervento dei grandi giuristi, che dal XIV secolo i giuristi inizino a riunirsi
in potenti collegi e centri professionali e che gli onorari corrisposti per i pareri siano
solitamente altissimi. Si può quindi affermare che il consilium si presenta come “una
manifestazione concreta del potere esercitato, in termini di confronto con l’autorità
politica, dal ceto dei giuristi corporativamente e professionalmente organizzati”.
5
E’ doveroso poi ricordare che l’attività consulente si può manifestare anche in altre
forme; può essere richiesto dalla corte un parere esterno non vincolante, il quale ha un
alto grado di obiettività, in quanto reso da dottori estranei e disinteressati all’esito della
vicenda processuale; degno di nota è poi il consilium chiesto entro la corte a
composizione mista, formata appunto anche da soggetti dotti, più “tecnici” di altri;
5
A. CAVANNA, Storia del Diritto Moderno in Europa – Le fonti e il pensiero giuridico, Milano,
Giuffrè, 1982, p. 149
4
infine il parere può essere richiesto da un ufficio ad un consultore “pubblico”, al
servizio di un ente che vuole essere sicuro di muoversi entro i confini della legittimità.
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Quello di cui qui ci occupiamo è il consilium inteso come attività ad adiuvandum del
giurista nei confronti del giudice, il parere richiesto sempre più spesso ad un dotto per
poter orientare la sentenza nei confronti della teoria maggioritaria e per sciogliere dubbi
che altrimenti avrebbero potuto portare ad uno stallo del processo. Questo tipo di
consilium è un elemento permeante quasi tutto il periodo medievale e si avvia al declino
solo con l’affermarsi nei vari Stati assoluti della prestigiosa giurisprudenza dei Grandi
Tribunali, composti da giuristi di alta qualificazione e funzionanti secondo la regola che
“iura novit curia”.
Il procedimento per richiedere un consilium diventa standard con il passare degli anni e
viene riportato nel Tractatus de consiliis habendis
7
, una summa inserita nel Consilia,
quaestiones et tractatus di Bartolo di Sassoferrato
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, l’opera di base per analizzare e
conoscere la problematica consiliare.
Passiamo quindi a vedere il metodo previsto per poter chiedere l’intervento di un
giurista sui fatti della causa, come descritto nel Tractatus.
Il giudice, in mancanza di regole negli statuti e nelle consuetudini locali, si rivolgerà
alle parti informandole che intende avvalersi del parere di un dotto riguardo una certa
“quaestio” e chiederà alle stesse di presentare entro un certo termine la lista di quei
giuristi “sospetti” che nel linguaggio odierno vengono individuati come i soggetti
ricusati dalle parti, fermo restando che, il giudice si potrà avvalere dell’opera consultiva
del sapiente anche se una o entrambe le parti sono contrarie. Seguirà poi la nomina,
anche di più sapientes, secondo la volontà delle parti o il tipo di causa.
Il tractatus prevede che il giudice acconsenta sempre al consiglio, anche se egli è “bene
peritus in iure”, solitamente per ridurre i motivi di lite (salvo, naturalmente, che la
richiesta abbia evidente intento defatigatorio), anche se vi sono opinioni contrastanti da
parte di vari giuristi, alcune delle quali ritengono che il giudice abbastanza dotto non
6
M. ASCHERI, Le fonti e la flessibilità del diritto comune: il paradosso del consilium sapientis, in M.
ASCHERI, I. BAUMGARTNER, J. KIRSHNER, Legal consulting in the Civil Law tradition, Berkeley,
The Robbins Collection, 1999, pp. 15-17
7
M. ASCHERI, Le fonti e la flessibilità del diritto comune… cit. pp. 42-47
Le regole esposte sono tratte dal Tractatus, coordinato con la trattazione Durante-d’Andrea, che ha
sopperito ad alcune mancanze o imprecisioni rilevate nel Tractatus stesso.
8
M. ASCHERI, Le fonti e la flessibilità del diritto comune… cit. pp. 42-47
L’ opera è stata attribuita da Tommaso Diplovatazio a Alberto Ramponi, con additiones di Bartolo, anche
se altri testi l’hanno assegnata a Iacopo d’Are. Lo stesso Diplovatazio riteneva, poi, di dover vedere sullo
stesso tema Bartolo, Giovanni d’Agnani, Bertacchini e Spandei.
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possa essere obbligato a chiedere il consiglio e che, viceversa, lo sia il giudice non
perito o semplicemente giovane.
Il consultore così individuato non potrà esimersi dall’assumere l’impegno, poiché egli è
assimilato ad un giudice delegato e la sua attività è considerata un “publicus munus”,
salve le deroghe previste per parentela con una delle parti o per non appartenenza
all’ordinamento in cui si giudica (non si tratterebbe, infatti, più di un dovere civico).
Vista la rilevanza della sua attività, il giurista deve dare un parere giusto, ma spetta al
giudice valutare caso per caso la necessità di sottoporlo a giuramento, che ovviamente
non sarà reiterato qualora si tratti di funzionario che già presta un giuramento annuale; il
giuramento è poi escluso per gli ecclesiastici, salvo caso di necessità.
Il sapiens ha la possibilità di chiedere di essere esonerato dall’attività che deve prestare
ma solo per giusto impedimento e, qualora egli nutra dei dubbi sulla questione tali da
non permettergli di rendere il parere potrà richiedere l’assistenza di un altro consulente,
ammessa in questo caso per analogia con quanto avviene nel caso di discordanza tra
arbitri.
Il consigliatore redigerà quindi il suo parere tenendo conto delle possibilità sopra
elencate e lo consegnerà al giudice, il quale conserva in ogni caso una sua responsabilità
sulla decisione finale, poiché, come evidenziato nel paragrafo precedente, il consilium
diventa la parte precettiva della sentenza, ma non la sentenza stessa, che rimane pur
sempre atto esclusivo del soggetto esercitante la funzione giurisdizionale. Sarà quindi il
giudice a valutare la possibilità di poter cambiare il consilium consegnato, per
emendarlo o chiarirlo, in caso di esistenza della “bona ratio” o di una “aliqua lex”.
Se la consulenza consegnata è stata redatta nel rispetto di tutte le regole previste dal
Tractatus, il giudice sarà costretto ad osservarla. Ma questo vale anche se essa è “contra
legem vel ius”? Ovviamente si renderà necessario rispettare il generale obbligo di non
tollerare ciò che è illegale, come anche nel caso in cui intervenga un problema di
incompatibilità tra il tempo dell’elezione e quello della pronuncia, caso in cui il
consulente verrà rimosso.
Il parere redatto in conformità con le regole espresse nel Tractatus viene quindi
consegnato al giudice sigillato o per atto pubblico; l’apertura avverrà davanti alle parti e
la lettura avrà valore di adesione allo stesso, con conseguente condanna o assoluzione,
dopo di che il parere diverrà parte integrante degli atti processuali.
Un problema sorge per quanto riguarda il pagamento dell’opera consiliare; problema
non tanto riguardo alla necessità o meno di questo pagamento, in quanto si guarderà
6
prima alla normativa locale e, in mancanza di una disciplina espressa, pagherà la parte
che l’ha richiesto, il giudice o entrambe le parti. La questione riguarda piuttosto la
cosiddetta deriva della scienza giuridica, denunciata da Alciato
9
, che aveva portato a
considerare i responsa come un efficace mezzo di arricchimento e di affermazione
professionale e promozione sociale, perdendo di vista il vero scopo dei consilia, ossia
quello di dare un “contributo essenziale alla sussistenza di un sistema
pluriordinamentale che deriva proprio dalla sua eccezionale complessità e plasticità
anche una pronunciata precarietà di funzionamento”.
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Due questioni estremamente rilevanti, che non sono affrontate nel Tractatus, bensì nel
Durante-d’Andrea, riguardano l’ipotesi di discordanza tra i consulenti e il problema
degli obblighi del consulente stesso.
Per quanto riguarda il primo elemento, il conflitto viene risolto con la nomina di un
ulteriore sapiens, salvo il caso di conflitto in mala fede, nel qual caso il giudice intimerà
ai consulenti di pronunciarsi secondo verità sotto minaccia della scomunica, oppure li
costringerà a giurare.
Per quanto riguarda invece gli obblighi cui è sottoposto il consigliatore, naturalmente
egli dovrà dare un parere nell’interesse di entrambe le parti e sarà ritenuto responsabile,
in caso di dolo, per aver consigliato ingiustamente. E’ prevista una condanna a pagare i
danni, nell’interesse della parte lesa dal comportamento del sapiens, o una rimessione in
pristino per il caso di impossibilità al pagamento dei danni; il consulente, poi, potrà
eventualmente essere dichiarato infame, o scomunicato e sospeso dall’ufficio. Per
contro, gli potrà essere imputata anche la semplice imprudenza, anche se in questo caso
si potrebbe avanzare l’ipotesi di una responsabilità del giudice per aver nominato
“imperitum consiliarum”. Si avrà invece nullità della sentenza in caso di corruzione del
consulente.
Dalla delineazione di questi caratteri generali emerge l’autonomia della posizione del
consultor rispetto al ruolo del giudice, anche se quella del sapiens rimane una figura
istituzionalmente ambigua, che oscilla tra l’arbitro privato (alla base della sua nomina vi
è solitamente l’accordo delle parti) e il giudice delegato (il sapiens riceve una
commissio formale dal giudice). Il motivo si può probabilmente ravvisare nel ruolo di
sostanziale continuazione della precedente giustizia arbitrale assunto dal consilium,
tuttavia l’ambiguo status processuale del consultor non venne chiarito, almeno nel corso
9
G. ROSSI Teoria e prassi nel maturo diritto comune… cit.
10
G. ROSSI Teoria e prassi nel maturo diritto comune… cit. p. 283