2
bisognosa di cure; cosicché, ai doveri di informazione del medico corrisponde
oggi la figura del malato partecipe, che può considerare l’informazione come
un suo diritto irrinunciabile e non più come una gentile concessione”
1
.
Mentre, dunque, la subordinazione dell’attività terapeutica alla semplice
approvazione del paziente mirava unicamente a garantire contro il pericolo di
terapie coattivamente imposte dal medico, il requisito del consenso informato
intende scongiurare che il paziente accetti il trattamento medico in assenza di
una chiara e consapevole rappresentazione del rapporto tra i costi e i benefici
della terapia. Il diritto del paziente di sapere e di consentire rappresenta
l’aspetto cruciale del nuovo modello di atteggiarsi del rapporto medico-
paziente, stretti in un’autentica “alleanza terapeutica”.
In Italia manca una disciplina organica del consenso informato, e ciò
rende ancor meno agevole definire in modo esaustivo tale espressione. In ogni
caso, la prima idea che essa richiama è quella per cui la sfera personale del
paziente può essere invasa solo se questi, preventivamente informato, vi abbia
consentito, mentre nessuna ingerenza è consentita se egli abbia opposto il suo
rifiuto. Il principio del consenso al trattamento medico, dunque, si attaglia
perfettamente al principio personalistico che ispira il nostro ordinamento e
1
GIUNTA, Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni
penalistiche, in RIDPP, 2001, p. 378.
3
risulta, tra gli altri, dagli artt. 13 e 32, 2° comma, Cost.
2
. Infatti, mentre la
prima norma stabilisce il primato della libertà personale, come libertà da
costrizioni, la seconda dispone che il trattamento medico può essere imposto,
in via eccezionale, solo quando risulta necessario per tutelare la collettività
dalla pericolosità della malattia e sempre che, in tali casi, sia previsto dalla
legge. Dalla lettura del combinato disposto delle norme costituzionali sembra
discendere, quindi, che la libertà di autodeterminazione terapeutica assurga a
valore implicitamente costituzionalizzato
3
.
Va ricordato, peraltro, che a questa libertà dispositiva l’ordinamento
pone un solo limite: l’art. 5 c.c., infatti, vieta gli atti di disposizione del proprio
corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica,
nonché quelli che siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico e al
buon costume. Questo divieto non rappresenta, tuttavia, un principio assoluto:
se è vero, infatti, che la salute viene tutelata a livello costituzionale come bene
primario sia per l’individuo sia per la collettività, ne discende che per
conseguire il proprio benessere psico-fisico il paziente ha diritto di sottoporsi
ai trattamenti sanitari ritenuti più efficaci. Escludere la disponibilità di tale
diritto significherebbe negarne in radice la tutela.
2
Vedi già in passato MANTOVANI, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto
italiano e straniero, Padova, 1974, p. 37 e seg.
3
MASSA, Il consenso informato: luci ed ombre, in Questione giustizia, 1997, p. 412.
4
Se, dunque, l’interessato può disporre del diritto all’integrità fisica nei
limiti in cui ciò sia funzionale a finalità terapeutiche, la ratio dell’art. 5 c.c.
viene ad essere circoscritta agli atti che non sono rivolti alla tutela della
propria salute: si pensi, ad esempio, al prelievo di organi in favore di terzi dei
quali siano irrimediabilmente pregiudicate funzioni vitali, o a pratiche quali
l’infibulazione o altre menomative dell’organo genitale femminile. Il disposto
dell’art. 5 c.c., in sostanza, non restringe la libertà di autodeterminazione, ma
al contrario la protegge, poiché vieta l’abuso ma non l’atto dispositivo del
proprio corpo.
5
1.1 Le origini del consenso informato
L’espressione informed consent si fa convenzionalmente risalire alla
decisione della Corte Suprema della California nel caso Salgo v. Leland
Stanford Jr., University, Board of Trustees, del 1957
4
.
In realtà, il dibattito circa la semplice necessità del consenso del paziente
al trattamento medico ha origini più antiche, risalendo addirittura al XVIII
secolo. Il precedente storico citato nelle pronunce della Suprema Corte è,
infatti, il caso Slater, del 1767: il paziente lamentava che i medici da lui
incaricati di rimuovere le bende che fasciavano la gamba fratturata, e non
ancora totalmente ricomposta, avevano deliberatamente e senza il suo
consenso provocato un’ulteriore frattura dell’arto nel tentativo di risistemarlo
definitivamente con una nuova sperimentale “imbracatura”. La Corte
condannò i medici per aver agito non solo con negligenza ed imperizia, ma
anche senza il consenso del paziente, impedendogli di sottoporsi con
consapevolezza all’operazione.
I primi anni del XX secolo sono contrassegnati da importanti pronunce
giurisprudenziali che rafforzano il principio del consenso. Ricordiamo ad
esempio il caso Mohr, del 1905: la sentenza in questione è significativa
4
Per un’approfondita ricostruzione della storia del consenso informato v. CANESTRARI (a
cura di), Reati contro la vita e l’incolumità individuale, in Reati contro la persona, Torino,
2006, p. 639 e seg.
6
perché, pur non giungendo ancora a parlare di un diritto
all’autodeterminazione o di autonomia del paziente, bensì solo di un diritto su
se stessi, contiene l’affermazione per cui un valido consenso richiede la previa
conoscenza da parte del paziente dei pericoli e dei rischi insiti nella terapia.
La prima vera svolta avviene però nel 1914, quando la Corte afferma che
“Ogni essere umano adulto e capace ha diritto di determinare cosa debba
essere fatto con il suo corpo; un chirurgo che esegue un’operazione senza il
consenso del paziente commette una violenza personale, per la quale
risponderà dei danni”
5
. Viene dunque sancito il principio per cui il consenso è
requisito di liceità del trattamento medico, e in mancanza di esso la condotta
del sanitario sarà qualificabile in termini di violenza alla persona.
Si giunge così al rinomato caso Salgo, cui si deve la nascita
dell’espressione informed consent: nella sentenza la Corte afferma il dovere
del medico di comunicare al paziente ogni fatto che sia necessario a formare la
base di un consenso intelligente al trattamento proposto. Per la prima volta,
peraltro, la Corte non circoscrive la sua indagine alla sussistenza o meno di un
esplicito consenso, ma concentra l’attenzione sulla presenza di un consenso
previamente informato al momento in ci viene prestato. Il caso Salgo è inoltre
il primo caso americano in cui si uniscono le due teorie della responsabilità
medica fondate sul consenso: quella che lo richiede come aspetto della
5
CANESTRARI (a cura di), op. cit., p. 641.
7
diligenza medica (good medical care), e quella che lo interpreta come dovere
di rispettare l’autonomia del paziente (duty to respecting).
Il dibattito statunitense sul consenso informato, ancora oggi aperto
soprattutto con riguardo al riconoscimento del right to die, ovvero del diritto
del paziente di rifiutare i trattamenti medici anche se life-saving, ha avuto
ampia eco anche in Europa sin dagli anni Cinquanta.
Un significativo punto di riferimento del pensiero europeo è costituito
dalla Guida Europea di Etica Medica
6
, documento fondamentale cui si sono
ispirati tutti i codici di deontologia medica della Comunità Europea. La Guida
pone opportunamente l’accento sulla necessità di un’adeguata informazione
prima di acquisire il consenso del paziente, informazione che deve riguardare
sia gli effetti che le prevedibili conseguenze della terapia. Viene poi
specificato che il consenso del paziente deve essere richiesto specialmente per
il compimento di atti che comportino un rischio serio, mentre in merito alla
forma del consenso la Guida non fornisce alcuna direttiva.
Altra tappa importante è poi la Convenzione Europea di Oviedo sui
diritti dell’uomo e la biomedicina del 4.4.1997, ratificata dall’Italia con legge
28.3.2001, n° 145
7
. La Convenzione dedica al consenso l’intero capitolo II,
stabilendo che “un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona
6
Approvata a Parigi nel 1982, è stata poi modificata nel 1987 prendendo il nome di “Principi
di etica medica europea”.
7
Sulla Convenzione v. SAPIENZA, La convenzione europea sui diritti dell’uomo e la
biomedicina, in Riv. dir. intern., 1998, p. 456 e seg.
8
interessata abbia prestato il proprio consenso libero e informato” e che il
paziente è libero in qualunque momento di revocarlo. Tale principio subisce
una deroga solo nei casi di urgenza, ove il medico è pienamente legittimato ad
intervenire per tutelare la vita del paziente in stato di incoscienza, dovendo
tuttavia tenere in considerazione le volontà precedentemente espresse dal
soggetto in merito ad un determinato trattamento.
Per quanto riguarda l’evoluzione del principio del consenso informato in
Italia, esso ha avuto pieno riconoscimento giuridico solo negli anni Novanta.
In passato, infatti, il problema della disciplina dei rapporti tra medico e
paziente veniva affrontato in un’ottica tendente a respingere l’idea
dell’autodeterminazione della persona in ordine alla propria salute e alla
propria vita: era prevalente l’idea della sussistenza di un dovere morale di
curarsi, cui si affiancava un dovere di farsi curare. “L’ordinamento giuridico
attribuisce alla vita del singolo anche un valore sociale, e ciò in considerazione
dei doveri che all’individuo incombono verso la famiglia e verso lo Stato”
8
.
Il legislatore non si era quindi mai occupato esplicitamente del consenso
informato, limitandosi a richiamare una tantum la libertà di scelta del paziente
e il rispetto della sua dignità, nonché l’attività informativa del medico:
affermazioni ancora lontane dalla concezione del consenso elaborata dalla
Corte Suprema statunitense.
8
ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, Milano, 2002, p. 43.
9
Solo negli anni Novanta il consenso informato inizia ad essere oggetto di
specifiche disposizioni legislative in ambito sanitario: ricordiamo, ad esempio,
la legge 4.5.1990, n° 107, in materia di attività trasfusionali, ove si stabilisce
che il ricevente la trasfusione di sangue, preventivamente informato che tale
procedura può non essere esente da rischio, è tenuto ad esprimere per iscritto il
proprio consenso o dissenso. Nello stesso senso è orientata la disciplina in
materia di radiazioni ionizzanti (d. lgs. 17.3.1995, n° 230), nonché la legge
19.2.2004, n° 40, sulla procreazione medicalmente assistita. L’art. 6 prevede,
infatti, l’obbligo del medico di informare le coppie che a lui si rivolgono “sui
metodi, sui problemi bioetici e sui possibili effetti collaterali sanitari e
psicologici conseguenti all’applicazione delle tecniche stesse, sulle probabilità
di successo e sui rischi da esse derivanti, nonché sulle relative conseguenze
giuridiche per la donna, per l’uomo e per il nascituro”.
L’esigenza di adeguare le regole etiche al cambiamento del rapporto
medico-paziente ha condotto poi all’adozione di ben tre codici di deontologia
medica nell’arco di soli dieci anni. Il susseguirsi di tali codici ha evidenziato
una crescente considerazione, da un lato, della maggiore consapevolezza da
parte del cittadino delle proprie prerogative in campo medico; dall’altro, delle
nuove conquiste avvenute grazie al progresso delle scienze biomediche e
farmacologiche, nonché dei relativi problemi etici che sono stati sollevati e
approfonditi.
10
1.2 I requisiti di validità del consenso del paziente
Premesso che i modelli di consenso informato indicati dalla legislazione
speciale sanitaria presentano delle peculiarità ad hoc, e non possono pertanto
costituire il parametro generale di riferimento, è comunque possibile ricavare
dalle decisioni giurisprudenziali, dagli strumenti internazionali e dalla stessa
normativa, alcune indicazioni utili circa i requisiti di validità del consenso del
paziente, nonché circa i caratteri necessari dell’informazione medica
9
.
In quanto espressione di autodeterminazione terapeutica, il consenso
all’atto medico deve essere anzitutto personale, non essendo ammessa alcuna
forma di rappresentanza se non in caso di incapacità (soggetti minori o infermi
di mente)
10
. Dal punto di vista giuridico è del tutto irrilevante il consenso di
terzi o degli stessi familiari quando il paziente è capace di intendere e di
volere, poiché egli è l’unico soggetto legittimato a consentire trattamenti che
incidono sul proprio corpo e sulla qualità della vita.
Le dichiarazioni dei prossimi congiunti possono al più acquisire una
funzione probatoria della volontà del paziente che si trovi in stato di
temporanea incoscienza. Ci si è chiesti quale tipo di indagine debba svolgere il
9
Sui requisiti del consenso e i caratteri dell’informazione v. BILANCETTI, La responsabilità
civile e penale del medico, Padova, 2001, p. 336 e seg.
10
Sul punto vi è larghissima convergenza di opinioni: tra gli altri v. GIUNTA, Il consenso
informato, cit., p 382; MASSA, Il consenso informato: luci ed ombre, in Questione giustizia,
1997, p. 418; ABBAGNANO – TRIONE, Considerazioni sul consenso del paziente nel
trattamento medico chirurgico, in Cass. Pen., 1999, p. 322.
11
medico per risalire a tale volontà: certamente egli dovrà assumere le opportune
informazioni dai familiari, ma pare eccessivo ipotizzare che debba aprire una
vera e propria istruttoria al fine di ricercare, ad ogni costo, l’intendimento del
paziente, posto per altro che lo svolgimento di tale compito investigativo
potrebbe ostacolare un sollecito intervento terapeutico
11
.
Bisogna poi tenere presente che nei confronti del soggetto incapace la
liceità dell’attività medica può ricondursi al più ampio dovere di solidarietà
sociale espresso dall’art. 2 Cost. e dalla indiscussa posizione di garanzia che il
medico assume in relazione alla salute della persona assistita. In questa
prospettiva, la volontà del paziente è un elemento di cui il medico deve tener
conto solo quando la si possa facilmente appurare in modo non equivoco,
ovvero allorché essa emerga da elementi sufficientemente certi e concordanti.
In caso contrario, il medico non ha l’obbligo di svolgere attività istruttorie,
assumendosi un compito non solo impegnativo, ma anche estraneo alla sua
formazione professionale.
Questa soluzione, tuttavia, presuppone che il trattamento terapeutico sia,
in concreto, a vantaggio del paziente, nel senso che “il bilanciamento tra
benefici e rischi si deve risolvere a favore dei primi: in caso contrario (si pensi
ad un intervento demolitivo, con limitazione della funzionalità di organi vitali)
prevale il dovere di astensione, in attesa del ritorno di coscienza del paziente,
11
Così GIUNTA, op. cit., p 383.
12
sempre che l’inizio della terapia sia rinviabile senza pregiudizio per la salute
del medesimo”
12
.
Oltre che personale il consenso deve essere esplicito: il paziente, cioè,
deve manifestare il consenso in modo espresso, univoco e non condizionato,
rispetto ad atti medici specifici e determinati. Sarà quindi cura del medico
accertare che il consenso ricevuto dal paziente, oltre ad essere libero ed
espressione di una scelta volontaria, sia reale e genuino: si pensi, ad esempio,
ad un consenso generico per imprecisate esigenze terapeutiche, oppure
prestato a seguito di una non corretta comprensione del trattamento proposto o
della natura e dell’entità dei rischi.
La questione, però, merita attenzione, perché sempre più spesso l’attività
medica è svolta in équipe, o comunque è articolata in una sequenza di fasi e
caratterizzata da diverse competenze e specializzazioni: l’informazione data al
paziente dovrà riguardare i rischi insiti in ogni singola fase, per cui il relativo
dovere graverà su ciascuno dei medici competenti per ognuna di esse (ad
esempio il radiologo, l’anestesista, il chirurgo).
Da questo tipo di attività terapeutica, che si può definire complessa, in
quanto coinvolge fasi diverse con altrettanti fattori di rischio, devono invece
distinguersi le ipotesi di trattamento terapeutico ciclico, in cui la terapia viene
ripetuta, con i medesimi fattori di rischio, in un determinato arco temporale,
12
CANESTRARI, Reati contro la vita, cit., p. 653.
13
come nel caso della chemioterapia: il consenso iniziale al ciclo terapico,
preceduto da un’informazione completa, non deve essere di volta in volta
rinnovato dal paziente ad ogni applicazione del trattamento, anche se il medico
che esegue una fase della terapia sia diverso da quello che ha ricevuto l'iniziale
consenso.
La manifestazione del consenso è a forma libera, non essendo richiesta
per la sua validità una forma ad substantiam; salvo diverse disposizioni di
legge, è sufficiente che il consenso sia espresso oralmente, purché in modo
non equivoco. Del resto anche la stessa attività informativa di regola viene
compiuta oralmente: nessuna particolare formalità è infatti prescritta, fermo
restando che il sanitario può utilizzare e sottoporre al paziente materiale scritto
ed illustrato, a fini di maggiore chiarezza. L'oralità su entrambi i fronti,
informazione e consenso, bene si addice alla relazione fiduciaria tra medico e
paziente e all'esigenza di evitare ogni forma di spersonalizzazione e
burocratizzazione della relazione di cura.
In ogni caso, il consenso scritto è da ritenersi quantomeno opportuno in
tutti quei casi in cui le prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche in ragione
della loro natura (per il rischio che comportano, per la durata del trattamento,
per le implicazioni personali e familiari, per la possibilità di opzioni alternative
tra le quali va anche compresa l’eventualità di scelta di un altro medico
14
curante o di altra struttura sanitaria) sono tali da rendere necessaria una
manifestazione inequivoca e documentata della volontà del paziente
13
.
Questo significa che la diffusa prassi di far sottoscrivere al paziente il
c.d. “modulo di consenso informato” non esime affatto il medico dal fornire
tutta l'informazione necessaria ed adeguata al caso di specie, né lo esime dal
ricevere il consenso esplicito del paziente: tale modulo, infatti, costituisce solo
un segmento probatorio del consenso informato, ma certo non lo sostituisce.
E’ necessario evitare che, per mezzo del modulo, il consenso informato si
traduca in una pratica burocratica formale, o addirittura in uno strumento
finalizzato alla sola difesa preventiva del medico, essendo nato, invece, per
valorizzare un rapporto così importante e delicato per la vita dei pazienti.
La dottrina ha evidenziato, infatti, che “la formalizzazione del consenso
informato deve essere intesa non come l’espletamento sbrigativamente
liberatorio di un onere burocratico in più, né come l’omaggio ad un mito
retorico, ma quale prova trasferibile di un colloquio personale realmente
avvenuto nei tempi e modi più adatti a promuovere un’autentica
comunicazione, nel corso della quale il medico deve avere cercato sia di
comprendere la personalità del paziente, le sue preferenze soggettive ed
opzioni morali, sia suscitato una chiara comprensione delle alternative
13
In tal senso si esprime l’art. 32 del codice di deontologia medica: “Il consenso, espresso in
forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni
diagnostiche o terapeutiche o per le possibili conseguenza sulla integrità fisica si renda
opportuna una manifestazione inequivoca della volontà del paziente, è integrativo e non
sostitutivo del processo informativo”.
15
terapeutiche e dei rispettivi rischi e benefici”
14
. A ciò si aggiunga che il
dialogo e l’informazione contribuiscono a creare un clima di fiducia nella
capacità del medico di tenere conto delle scelte e dei valori del paziente, in
modo da. agevolare la formazione di un comune sentire rispetto alle decisioni
da assumere e di un’autentica volontà ferma, univoca, persistente,
razionalmente motivata.
Il modulo di consenso informato svolge dunque una funzione
essenzialmente probatoria. Nell’ambito dell’attività medico-chirurgica, infatti,
la necessità di documentare adeguatamente il consenso del paziente mediante
la sottoscrizione di un apposito modulo ha la funzione primaria di dare atto
della completezza dell’informazione fornita dal sanitario e della volontà
espressa dal paziente: ovviamente, tanto più precisa e completa è la
specificazione delle modalità del trattamento chirurgico, tanto maggiore è la
certezza che il malato sia stato correttamente portato a fornire il suo assenso.
Peraltro, qualora la manifestazione del consenso non risponda ai requisiti della
precisione e della completezza, ciò non può ritenersi conseguenza automatica
del fatto che il paziente non abbia ricevuto una corretta informazione: in
questo caso, sarà necessario accertare rigorosamente la mancanza di tale
corretta informazione e la responsabilità di tale fatto in capo al sanitario.
14
CANESTRARI (a cura di), Reati contro la vita, cit., p. 654.