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Credo sia corretto sottolineare che l’analisi dello psicologo Israeliano
si focalizza maggiormente, anche se non esclusivamente, sulle
infrastrutture psicologiche che egli ritiene essere proprie del popolo
Israeliano, il suo popolo.
Nella redazione di questa tesi tenterò, inoltre, di approfondire la
comprensione del conflitto, avendo sempre ben presente la convinzione,
propria dell’approccio definito realismo pluralista che: “Le teorie e i
modelli adottati stanno alla realtà che cercano di descrivere e spiegare
come una ‘mappa geografica’ sta al territorio. Però la mappa non è il
territorio […].” e che “Confonderli genera il cosiddetto “realismo ingenuo”
oppure un certo tipo di ‘imperialismo disciplinare’. ”. E ancora ”La
costruzione di una mappa fa si che il territorio perda il suo carattere di
insieme incoerente di fenomeni o di cose, entrando strategicamente o
tatticamente nei domini della ragione: tuttavia pur essendo postulato come
realtà esso è e rimane inaccessibile. Per il realista interno (o ipotetico) la
realtà del territorio è legata alle regole di traduzione, selettive e parziali,
che una mappa porta con sé.” (Salvini, A. 1998, pag. 37).
Negli ultimi quattro anni la situazione in Medio Oriente ha raggiunto
livelli di esasperazione tali da far dichiarare a Bar-Tal : “Il mio mondo ha
collassato perché al giorno d’oggi non solo non vedo la luce alla fine del
tunnel, ma non vedo neppure il tunnel.”
2
2
Bar-Tal, D. (2002). Is There a Way Out? Occupation, Terror and Understanding. Pubblicato sulla rivista
on-line Counterpunch, consultabile nel sito http://www.counterpunch.org/bartal0422.html
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Egli è estremamente critico nei confronti dell’attuale governo
Israeliano guidato dal Primo Ministro Ariel Sharon, appartenente al partito
di destra Likud; sostiene infatti che i passi nella direzione della
riconciliazione, tema centrale della sua idea di pace, che erano stati
compiuti negli anni precedenti grazie agli sforzi congiunti di Rabin, Peres e
di Arafat, sono stati cancellati in pochi mesi da una politica arrogante e
sprezzante che, se da una parte rende la vita dei Palestinesi odiosamente
intollerabile, dall’altra consuma gli Israeliani con una lenta ma continua, e
perciò logorante, minaccia del terrore.
Nella considerazione dell’inasprimento del conflitto non vanno certo
misconosciute le responsabilità di organizzazioni Arabe quali Hamas e Al-
Fatah che utilizzano come kamikaze esseri umani per i quali il valore della
vita è ormai pressoché nullo, in conseguenza di detta politica.
E non va neppure misconosciuta l’oggettiva responsabilità del
Presidente Yasser Arafat; per quanto unico vero rappresentante del popolo
Palestinese (eletto “democraticamente”), Arafat ha dimostrato in più di una
occasione di non essere un politico lungimirante, capace di imporsi (se non
sul suo popolo) e, nonostante la grande propaganda degli accordi di pace
siglati ad Oslo, di non essere stato in grado di ottenere un miglioramento
sensibile delle condizioni di vita del suo popolo. Il livello di democrazia e
di libertà all’interno dei territori controllati dall’Autorità Palestinese è,
infine, quasi inesistente; Arafat ed il suo entourage sono più volte stati
sospettati di essere coinvolti in episodi di corruzione finanziaria.
D’altronde, la continua pulizia etnica, le umiliazioni quotidiane, le
punizioni collettive su vasta scala, l’appropriazione delle terre, la
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costituzione di bantustan da parte di Israele, non permettono che i
Palestinesi si organizzino e si diano nuove regole ed una nuova classe
dirigente. Una lucida analisi di questa situazione è reperibile nei testi di due
grandi intellettuali Palestinesi.
Edward W. Said, professore alla Columbia University, nel suo “Fine
del processo di pace. Palestina / Israele dopo Oslo” sostiene che : “In tutto
il mondo non mancano certo i Palestinesi, giovani e meno giovani,
assolutamente esasperati, costernati e definitivamente disgustati da una
leadership che è passata da un disastro all’altro senza mai mostrarsi
responsabile, senza mai dire la verità, e senza mai chiarire i propri obiettivi
e le proprie mire (fatta eccezione per quel che riguarda la propria
sopravvivenza).” (p. 53, tr.it)
Il concetto viene ampliato e completato da Eyad El Sarraj, psichiatra,
fondatore e direttore del Gaza Community Mental Health Programme, il
quale, nell’intervista “Il padre, la casa…”, apparsa sul numero 116
dell’Ottobre 2003 del mensile “Una città”, spiega che “I Palestinesi oggi si
trovano davanti ad un dilemma. L’Autorità Palestinese non ha più
l’appoggio popolare. Ma allo stesso tempo è l’unico orizzonte che
conosciamo in quanto società minacciata dall’esterno. E quando ti senti
minacciato da un pericolo esterno sei portato ad appoggiarti a qualcosa che
almeno in teoria ti possa proteggere. Hai bisogno di tracciare una linea e
questa oggi è l’Autorità Palestinese. Noi sappiamo che questa linea è molto
fragile e anch’essa minacciosa e insicura, ma è l’unica che abbiamo. Resta
il fatto che l’Autorità Palestinese ha perso popolarità molto tempo fa a caua
della corruzione, del malgoverno, del non rispetto delle leggi e dei principi
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democratici; questa direzione inoltre non ha mai trasmesso alla gente un
messaggio chiaro.” Più avanti, nello stesso articolo, El Sarraj conclude :
“[…] proprio a causa della minaccia esterna, ci si compatta attorno
all’Autorità Palestinese. Ora, questa è anche la ragione per cui oggi non
siamo in grado di cambiarla. Perché ci sentiamo mortalmente minacciati
dagli Israeliani. […]. Voglio dire: oggi non possiamo votare, non possiamo
spostarci, non abbiamo libertà di movimento. C’è proprio un’impossibilità
di fatto.”
Questa situazione, lungi dal favorire la possibilità che tra i due popoli
si instaurino la fiducia, il rispetto e la tolleranza (condizioni necessarie per
una convivenza sotto le insegne della giustizia e della pace), ha come unico
risultato quello di accrescere ancor più la diffidenza e l’odio che
necessariamente portano ad ulteriori insopportabili versamenti di sangue su
entrambi i fronti.
Oggi, in Israele, sono non pochi gli intellettuali, i civili, i militari ed i
professionisti di ogni genere che sostengono una posizione di questo tipo.
La loro voce, debole ma in costante crescita, è però sovrastata dai canti di
guerra della politica ufficiale, dei media israeliani e delle alte cariche
dell’esercito, che non provano vergogna nel propagandare menzogne al
fine di perseguire “la difesa e la sopravvivenza” di Eretz Israel.
Riveste un’importanza del tutto particolare, a mio modo di vedere, la
posizione dei Refusenik, militari israeliani, per la maggior parte membri
dell’aviazione, ma non solo, che ultimamente, dando ascolto alla voce della
propria coscienza oltre che prova di grande coraggio, si sono rifiutati di
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eseguire missioni di rappresaglia o di gestione della sicurezza all’interno
dei territori occupati. Tali missioni generalmente prevedono:
- bombardamento di case o palazzine sospettate di essere
residenze di membri di organizzazioni terroristiche (con il
necessario corredo di vittime accidentali tra i civili inermi),
- sottoposizione di civili Palestinesi ad interminabili attese ed
insopportabili umiliazioni ai check point,
- supporto logistico-militare all’insediamento di nuove colonie
e, successivamente, difesa armata delle stesse,
- sradicamento di alberi di ulivo e da frutta in generale,
appartenenti a contadini Palestinesi e successivo spianamento
della terra necessaria alla costruzione del muro.
Tali azioni, contestuali alla più generale condotta politica “di difesa”
di Israele, sono, anche a mio modo di vedere, vere e proprie violazioni dei
diritti umani, nella definizione di questi propria delle Nazioni Unite
3
.
Durante il processo a suo carico, svoltosi presso la Corte Marziale di
Jaffa il 24 Giugno 2003, il Refusenik Matan Kaminer, illustrando i motivi
che lo hanno condotto alla decisione di disertare, ha sostenuto che: “La
privazione del diritto di democrazia dei Palestinesi è la radice causale di
tutti i crimini che si accompagnano all’occupazione, sia quelli degli
occupanti, dei quali ho in parte parlato, sia di quelli degli occupati, spinti a
metodi di lotta immorali e disumani. Nessuno dei due tipi di crimini è
giustificabile in alcuna maniera. Entrambi sono derivazione diretta
3
Mi riferisco, in particolare, ai diritti di tutti gli uomini e le donne a vivere in libertà, in eguaglianza e
senza nessun tipo di discriminazione, espressi nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni
Unite del 1948.
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dell’occupazione e possono essere eliminati solo eliminando l’occupazione
stessa.”
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Proseguendo nella sua dichiarazione difensiva, Kaminer ha
affermato, con estrema lucidità : “Alcuni dei miei compagni erano molto
arrabbiati con me; mi chiedevano: come fai a rifiutarti di prestare il servizio
militare quando accaddono fatti così [riferendosi ad un attacco suicida con
molte vittime compiuto qualche giorno prima]. Io risposi: questa è
esattamente la ragione per cui sono Refusenik; la permanenza dell’esercito
nei territori non è un modo per fermare gli attacchi terroristici, essa ne è la
causa.”
Le parole di questo giovane Israeliano, forse a digiuno di nozioni di
psicologia, dovrebbero farci istantaneamente riflettere per la loro assonanza
con la descrizione del rinomato effetto della “profezia che si autoavvera”
proposta da Snyder nel 1984. Questo effetto si riferisce alla tendenza degli
individui ad agire in maniera congruente con le proprie previsioni, credenze
o cognizioni a riguardo di un evento o di un comportamento, con ciò
aumentando la probabilità che tale evento o comportamento si verifichi.
Nonostante sia stato ideato per descrivere comportamenti individuali,
questo effetto ha, a mio parere, validità applicativa anche in situazioni
sociali.
In dettaglio, aumentando le misure repressive volte ad evitare
l’ingresso in Israele di attentatori kamikaze, aumentando necessariamente
insieme ad esse la disperazione, la povertà e l’umiliazione dei cittadini
Palestinesi, aumenterà, come effettivamente temuto, il numero degli
attentatori suicidi. Questo modello fa parte di quelle mappe di cui parlavo
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Reuven, K. (2003). Drama at the Jaffa Military Court. Pubblicato sulla rivista on-line Counterpunch,
consultabile nel sito http://counterpunch.org/kaviner07022003.html
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in precedenza; pur offrendo una schematizzazione di una dinamica (nel
tentativo quindi di semplificarla), è ben lungi dal fornirne una spiegazione
esaustiva.
In conclusione, nei quattro capitoli centrali cercherò di presentare il
cuore delle concettualizzazioni proposte da Daniel Bar-Tal in merito alle
dinamiche ed alle strutture cognitive che favoriscono il perpetrarsi del
conflitto. Nel capitolo conclusivo, invece, sarà dato risalto alle proposte
operative ed ai mutamenti cognitivi che lo psicologo di Tel Aviv ritiene
necessari per intraprendere un cammino verso la pace. Mi piacerebbe,
infatti, che questo mio lavoro potesse servire a divulgare le teorie di Daniel
Bar-Tal e dei suoi colleghi, dal momento che, almeno in Italia, sono quasi
sconosciuti i loro lavori e completamente inascoltate le loro proposte
operative in direzione della pace.
2) UN CAPITOLO NON SCRITTO
Non è certo obbiettivo di questa tesi quello di essere un compendio
storico delle vicende Medio Orientali. Ciononostante ho a lungo riflettuto
sull’opportunità di inserirvi un capitolo contenente una narrazione storica
degli eventi. Procedendo nel lavoro ho però capito che non sarebbe stato
coerente né con i miei obiettivi né, soprattutto, con le finalità di questa tesi.
Come si vedrà procedendo, la narrazione storica degli eventi è uno dei
punti cruciali del disaccordo tra Israeliani e Palestinesi. Una delle proposte
cardinali di Bar-Tal riguarda la necessità di riscrivere una storia comune,
capace di rendere giustizia ad entrambi i popoli. Pur avendo un’opinione
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personale sulle vicende storiche Medio Orientali, non mi sono sentito in
grado né in diritto, di scriverne a riguardo. La consapevolezza della
difficoltà di riportare una storia senza assumere punti di vista parziali,
seppur involontariamente, mi ha spinto a desistere. Qualsiasi tipo di
ricostruzione storica, fosse essa una scarna cronologia od una più articolata
narrazione, avrebbe potuto essere tacciata di parzialità, lacunosità e
mancanza di equilibrio da chi conosca anche solo superficialmente la storia
del Medio Oriente. Aspirando ad una pretesa neutralità, avrei anch’io,
invece, cercato di far affacciare i lettori alla “mia” finestra.
La sola selezione degli eventi da citare o da escludere nasconde
un’enorme insidia, tanto che risulta difficile anche trovare accordo nella
letteratura in materia. Ho quindi ritenuto più utile inserire nella bibliografia
una serie di testi a carattere storico che possono aiutare chi fosse interessato
a formarsi una propria idea.