4
contesto, come quello odierno, in cui le guerre sono essenzialmente mediatiche: i
mezzi informativi diventano dunque, oggi più che mai, fondamentali “armi”
propagandistiche per le parti in lotta. Il capitolo introduttivo definisce anche la figura
del giornalista, che si trova a doversi “districare” tra la propria visione del mondo e
le logiche produttive della sua professione. Questo, a quanto emerge, porta
inevitabilmente a una più o meno accentuata distorsione della realtà: l’obiettività
dell’informazione, ammesso che sia mai esistita, soprattutto in guerra, sembra essere
sempre più un “mito”. Questa prima parte si chiude con la definizione del concetto di
fog of war, a sottolineare che in un conflitto la cronaca dei fatti si divide sempre tra
bugie e verità.
Il secondo capitolo è dedicato alla descrizione delle scelte metodologiche che
hanno guidato la nostra ricerca. Si è trattato di integrare una classica analisi di
contenuto con un’analisi delle modalità di discorso, ritagliata sulla struttura tipica dei
quotidiani e in particolare sulla loro forte tendenza alla gerarchizzazione spaziale e
sequenziale delle notizie, e con un’analisi dell’offerta di originali “percorsi emotivi e
cognitivi di lettura”, fortemente identitari per ogni quotidiano e, di conseguenza, per
ogni suo lettore. Il capitolo descrive dettagliatamente la cronaca dei fatti scelti per
l’analisi del contenuto; le modalità di Newsmaking (confezionamento della notizia),
in particolare la fase di editing, per introdurre l’analisi delle modalità di discorso;
infine, le caratteristiche di ciascuna testata scelta, a partire dall’orientamento politico
che la guida nella creazione della notizia, per l’analisi dell’offerta di un determinato
“percorso fruitivo”.
Il terzo e ultimo capitolo è dedicato all’analisi vera e propria dei quotidiani
sui due case studies scelti e tiene conto di due assunti teorici fondamentali: la teoria
dell’agenda setting e quella della dipendenza dai media. Per ogni testata, abbiamo
preso in considerazione innanzitutto gli editoriali, in quanto espressione del punto di
vista ufficiale del giornale, poi abbiamo analizzato le “scelte formali”
(impaginazione, titolazione, supporto iconografico) che in ogni quotidiano guidano la
costruzione delle singole pagine. Infine, abbiamo analizzato gli articoli, quelli che si
limitano a riportare i fatti e quelli che invece lasciano trasparire il chiaro
orientamento di ogni giornale.
5
CAPITOLO I
L’INFORMAZIONE IN CONTESTO BELLICO
La capacità di comunicare è uno degli elementi decisivi di ogni conflitto. Oggi la guerra
si svolge soprattutto sul versante mediatico, del sapere e del nascondere, del credere e
del diffidare.
Da un punto di vista più generale, se si accetta la visione di Clausewitz
1
secondo
cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ad essa si applicano gli
stessi problemi di schieramenti, di alleanze, di ricerca del consenso, dunque di
comunicazione in senso lato che caratterizzano la politica. Fare paura o cercare di
attirare simpatie alla propria causa, minacciare o fuggire, identificare degli obiettivi e
costruire intorno ad essi uno schieramento vincente sono compiti sia militari sia politici,
la cui realizzazione è in larga parte riconducibile alla comunicazione.
Se è infatti vero che attraverso le parole si arriva a un’idea condivisa di realtà,
questo diventa ancora più evidente in una situazione di conflitto. Gli schieramenti in
campo ricorrono a definizioni, vocaboli e verbi per dimostrare di essere dalla “parte dei
buoni”, per costruire un’immagine positiva di se stessi che possa portare gli altri ad
appoggiare le proprie motivazioni e a mobilitarsi per esse e, allo stesso tempo, a
considerare lo schieramento avversario come il nemico da battere. Ecco allora che
sempre più raramente le azioni di guerra sono compiute semplicemente per il loro
effetto materiale, per i danni fisici che causano all’avversario. Molto più spesso anche i
gesti di violenza della guerra hanno carattere simbolico, sono messi in atto per produrre
delle conseguenze nell’avversario, nei testimoni, negli alleati, cioè per suggerire linee
d’azione, per minacciare, per terrorizzare, per ottenere specifiche reazioni.
Nell’epoca che ha visto fiorire l’opinione pubblica e i mezzi di comunicazione di
massa, questo aspetto diventa ancora più importante che in passato. Determinati fatti
sono destinati a essere amplificati dai mezzi di comunicazione di massa, per il potere
che dimostrano, per il loro “eroismo” o il carattere comunque positivo di chi li compie.
1
C. von Clausewitz, Vom Kriege, Dümmler Verlag, Bonn, 1832, trad. It. Della guerra, Mondadori,
Milano, 1970.
6
Altri eventi invece, più cruenti e vergognosi, sono destinati a restare nascosti
all’opinione pubblica. E’ interesse dei contendenti, in genere, nascondere ciò che il
nemico vorrebbe far conoscere e far conoscere ciò che vorrebbe nascondere:
minimizzare le sue vittorie e il suo potere, amplificare la sua violenza e la sua crudeltà.
Ma neppure questo è sempre vero. Può accadere, infatti, che qualcuno cerchi di trarre
simpatia dall’esaltare la forza del suo avversario o non voglia far conoscere alla propria
opinione pubblica tutta la sua crudeltà.
La situazione comunicativa di una guerra è quindi molto confusa e questo
accade perché diversi e molteplici attori sono in gioco. Vi sono i due Stati (o apparati)
avversari, vi sono le rispettive opinioni pubbliche, inclusa quella particolare forma di
opinione pubblica che è il “morale” delle truppe. Vi sono i terzi, gli altri Stati, con
differenti posizioni politiche che li caratterizzano e le rispettive opinioni pubbliche.
Dunque, i soggetti attivi in un conflitto possono essere numerosi e non solo due, come
prospetta la schematizzazione più semplice; inoltre essi possono essere divisi a loro
volta da interessi e progetti contrastanti, portando così l’informazione all’interno di uno
stesso Paese a rappresentare posizioni e fatti anche molto diversi tra loro a seconda
dell’orientamento adottato.
Meno evidente, ma altrettanto vero, è il fatto che la comunicazione ha una natura
molto vicina a quella del conflitto. E’ noto come i primi esempi di scrittura non
puramente legata ai numeri siano stati quasi universalmente esempi di propaganda e
celebrazione bellica, e come le grandi innovazioni comunicative che hanno segnato il
nostro mondo, dal telegrafo al personal computer fino, esempio su tutti, a Internet, siano
stati sviluppati sotto continua pressione del mondo militare, se non direttamente per fini
bellici.
Se un legame quindi esiste tra comunicazione, informazione e guerra questo è
diventato evidente soprattutto nell’ultimo secolo, con lo scoppio delle cosiddette guerre
moderne.
7
1.1 GUERRA MODERNA, GUERRA MEDIATICA
Sarebbe probabilmente inesatto dire che la comunicazione è oggi un capitolo della
guerra: la simbiosi è ormai molto più stretta. I mezzi di comunicazione di massa hanno
un ruolo pervasivo nelle guerre moderne: la partecipazione dei media è a tal punto
importante da modificare la stessa sostanza degli eventi, adattandone lo svolgimento
alle esigenze di copertura e di formato.
In un suo recente intervento in Italia, Louis D. Boccardi
2
, Presidente
dell’Associated Press, la più grande agenzia di stampa del mondo, ha denunciato che,
dei circa 1300 giornalisti uccisi sul campo negli ultimi duecento anni, 458 sono morti
nei soli anni novanta, in un’escalation, argomentata dalle analisi di numerosi studiosi
3
,
che dimostra quanto la comunicazione sia diventata un fattore tattico e strategico di
primaria importanza nel decidere le sorti dei conflitti armati.
In un mondo che la comunicazione ha contribuito a connettere, la stessa struttura
delle relazioni internazionali è fortemente influenzata dalla necessità di ottenere
consenso presso le opinioni pubbliche; si è così giunti a una mediatizzazione – spesso
declinata in termini spettacolarizzanti – degli “affari” della geopolitica. Il rischio che si
evidenzia è quello di una polarizzazione degli atteggiamenti nelle opinioni pubbliche
4
,
tale da stringere i classici spazi di manovra della diplomazia tradizionale e rendere più
difficile la ricomposizione del conflitto. In tal senso è sempre più frequente in letteratura
il ricorso al concetto di media diplomacy
5
, per sottolineare la centralità dei mezzi di
comunicazione nei conflitti moderni. La media diplomacy è il punto d’arrivo di due
diverse tendenze, una riguardante il cambiamento delle forme di protagonismo dei
leader politici e l’altra inerente allo straordinario sviluppo del mondo della
comunicazione. È così cambiato lo scenario delle relazioni internazionali: le tecniche
della “diplomazia per mezzo dei media”
6
si sono estese a tal punto che il confronto tra le
2
L. D. Boccardi, I media americani dopo l’11 settembre, intervento alla Camera dei Deputati, Palazzo di
S. Macuto, 15 maggio 2002.
3
Si possono vedere, a tal proposito, F.M. Battisti (a cura di), Paura e desiderio di guerra, opinioni
pubbliche, politiche istituzionali e modelli revisionali, Franco Angeli, Milano, 1994; P. Ortoleva, C.
Ottaviano, Guerra e mass media: strumenti e modi della comunicazione in contesto bellico, Liguori,
Napoli, 1994; R. Savarese, Guerre intelligenti: stampa, radio, tv, informatica: la comunicazione politica
dalla Crimea alla Somalia, Franco Angeli, Milano, 1995; A Matterlart, La comunicazione mondo, Il
Saggiatore, Milano, 1997.
4
F. M. Battisti, (a cura di), Paura e desiderio di guerra…op. cit., pp. 57-60.
5
R. Savarese, Guerre intelligenti:stampa…, op. cit., p. 82.
6
R. Savarese, Guerre intelligenti:stampa…, op. cit., p. 60.
8
parti in guerra si svolge non solo tramite i canali diplomatici della politica tradizionale
ma anche (per non dire principalmente) via etere, su un’ideale piazza elettronica sotto
gli occhi dell’opinione pubblica mondiale. I protagonisti-antagonisti si parlano dai
teleschermi e dalle pagine dei giornali, da qui annunciano e dissimulano le loro mosse e
rilasciano interviste. Il mondo intero è chiamato così a schierarsi dagli appelli dei due
leader e lo spazio simbolico della mediazione si restringe progressivamente. Come
sostiene Battisti: «Perché la guerra sia messa in atto, non basta che il Governo la
promuova, ma occorre che il popolo, che deve realizzarla a livello esecutivo, ne
comprenda e ne condivida le motivazioni e partecipi alle ostilità. Di qui la crescente
importanza dei media quali agenti di formazione di un’“opinione pubblica” di guerra, a
partire dal primo conflitto mondiale fino ad arrivare agli episodi più recenti ripresi in
diretta»
7
. La tecnologia e l’informazione sembrano così rivelarsi le vere armi delle
“nuove guerre”. Non a caso Marshall McLuhan parla di “guerra delle icone”:
«Inchiostro e fotografia stanno soppiantando carri armati e soldati. La penna diventa di
giorno in giorno più potente della spada»
8
.
Nel XX° secolo gli eventi bellici hanno in qualche modo costituito una “molla
d’innovazione tecnologica” per le comunicazioni di massa: lo stesso McLuhan ricorda
che «tutte le guerre si sono combattute con la tecnologia più nuova che ogni cultura
aveva a sua disposizione». La guerra e l’industria culturale, le armi di distruzione di
massa e la comunicazione di massa sono nate negli stessi anni e i loro passi successivi
hanno portato i segni di questo incontro originario. Tutte le maggiori guerre del
ventesimo secolo, dai conflitti mondiali alle recentissime guerre in Afghanistan e in
Iraq, hanno favorito l’innovazione tecnologica nel campo dei media e sono state a loro
volta condizionate dai cambiamenti nel modo di comunicare. Siamo di fronte a un
processo bi-direzionale: se da un lato, infatti, i conflitti moderni hanno riportato
l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sull’uso dei mezzi di comunicazione
di massa come strumenti di guerra, dall’altra hanno rimesso proprio la guerra al centro
dell’informazione scritta e audiovisiva, trasformando le cronache dal fronte in un
“genere” giornalistico tra i più seguiti. Occorre inoltre ricordare come spesso le guerre
siano servite e servano tuttora da stimolo per lo sviluppo tecnico e commerciale
7
F. M. Battisti (a cura di), Paura e desiderio di guerra…, op. cit., pp. 50-51.
8
M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore Est, Milano, 1997, p. 361.
9
dell’industria delle comunicazioni di massa: lo scoppio di una nuova guerra è spesso
coinciso con il lancio di nuove testate o il rilancio di quelle già esistenti e con la
sperimentazione di nuove tecniche di rilevazione e trasmissione delle informazioni. Ad
esempio Studio Aperto, telegiornale di Italia 1, esordisce nel mondo dell’informazione
dando per primo la notizia dell’inizio della guerra del Golfo del 1991. Inoltre, come ha
sottolineato Paolo Galimberti in un suo intervento presso la facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Roma Tre: «Dal punto di vista editoriale, le esperienze della guerra
del Golfo, della Bosnia, del Kosovo e dell’Afghanistan, hanno provocato un aumento
delle vendite per i grandi quotidiani, ricchi di analisi di specialisti, esperti e firme
autorevoli […]. Tra gli inviati di guerra del passato non possiamo non ricordare Ed
Morrow, corrispondente della Cbs di Londra, che inaugurò, durante il secondo conflitto
mondiale, uno stile giornalistico del tutto nuovo, raccontando in diretta via radio, sotto
il fuoco tedesco, la dinamica delle azioni militari e delle esplosioni delle bombe.
Morrow riuscì, con la collaborazione dei tecnici statunitensi, a realizzare il
collegamento contemporaneo con gli altri campi di guerra, offrendo l'informazione sul
conflitto, minuto per minuto, da tutto il Paese. Una trasmissione che negli Stati Uniti
ebbe un successo straordinario non solo di audience ma anche politico, tanto che
Morrow venne convocato alla Casa Bianca per capire se la situazione occidentale era
così grave da richiedere un intervento. Dopo la seconda guerra mondiale l'altro conflitto
fondamentale per il binomio media-guerra è stato quello del Vietnam. Proprio qui si è
formata la più grande generazione del giornalismo americano: ricordiamo, tra gli altri,
James Reston, Johnny Apple, Peter Arnett e Walter Cronkite. […]». Le guerre spesso
compattano e “rivitalizzano” il lavoro in redazione. A pochi giorni dall’inizio della
guerra del Golfo, ad esempio, i quotidiani inaugurarono rubriche di vario genere: dai
“Diari di guerra” della Stampa, affidati a membri della redazione o a esperti militari,
alle “Schede” del Manifesto, relative a popoli, terre e risorse del Medio Oriente. Per
quanto riguarda le tecniche di rilevazione e trasmissione delle informazioni, se durante
il conflitto del ’91 Peter Arnett utilizzava ancora telecamere analogiche, ingombranti e
molto costose e la gestione delle apparecchiature era appannaggio di una copiosa
squadra di tecnici, da allora sembra passato un secolo. Oggi abbiamo telefoni cellulari,
telecamere satellitari e “videotelefoni”. Impossibile non ricordare lo scoop mondiale
dell’inviata Rai Giovanna Botteri la sera del 20 marzo 2003 quando, bruciando sul
10
tempo i network americani riuscì, tramite il suo M-Motion (nome tecnico del
“videotelefono”) a mostrare le prime immagini della 3° Guerra del Golfo
9
. Altra novità
è il cosiddetto weblog, strumento comunicativo a metà fra giornale on line e diario
privato. Se dunque la campagna militare in Vietnam fu la prima guerra televisiva e il
conflitto del Golfo di Bush Senior la guerra della tv satellitare, oggi la vera novità è la
Rete.
L’informazione non ha certo inventato la guerra, ma ne è ormai la sublimazione,
lo strumento indispensabile per confermare o distruggere le ragioni stesse di un conflitto
e attribuire a una parte la medaglia del “buono” o la condanna di “cattivo”. Oggi più che
mai, quindi, l’informazione è una vera e propria arma nelle mani di chi ha la
responsabilità politica e militare di condurre un conflitto: un buon generale deve saper
manovrare con la stessa accortezza le troupe televisive e i commandos di carta stampata,
esattamente come muove la fanteria, le truppe corazzate, l’artiglieria e l’aviazione.
Come la guerra di Troia ha avuto Omero, e prima e dopo di quella, mille altre guerre
hanno avuto mille altri cantori
10
, le guerre di oggi hanno a loro volta bisogno di un
cantore moderno, cioè dei media, per essere portate all’opinione pubblica e “consumate
a domicilio”.
Perché le guerre invisibili non si raccontano, quindi non esistono.
9
La prima è generalmente considerata quella tra Iran e Iraq. La seconda inizia con l’invasione del Kuwait
da parte dell’Iraq il 2 agosto 1990 e prosegue con la reazione di una coalizione di 49 paesi (tra cui l’Italia)
sotto la guida dell’America di Bush Senior.
10
D. De Michelis, A. Ferrari, R. Masto, L. Scalettari (a cura di), L’informazione deviata, Zelig, Milano,
2002, p. 87.
11
1.2 LA STAMPA VA ALLA GUERRA
Se fosse lasciato a me decidere
se è meglio un governo senza la stampa
o una stampa senza il governo,
non esiterei nemmeno un istante
per la seconda soluzione.
Thomas Jefferson
Perché gli operatori non si sono mai stancati di riportare la guerra durante il ventesimo
secolo? La risposta più ovvia e semplice è: per informare.
Quando parliamo di informazione pensiamo a essa come al frutto della volontà
dei giornalisti e di coloro che la controllano di dare alla gente una conoscenza obiettiva
e approfondita del mondo in cui vive. A tal proposito, si può fare riferimento a quella
«teoria della responsabilità sociale» formulata dalla Commission on Freedom of the
Press, che ancora oggi regolamenta la “filosofia” della prestazione della professione
giornalistica
11
, secondo cui una stampa responsabile deve attenersi a «un resoconto
completo, fedele, esauriente e intelligente degli avvenimenti quotidiani in un contesto
che renda possibile la loro comprensione; fungere da tribuna per lo scambio di opinioni
e di critiche, da veicolo dell’opinione pubblica e rappresentare la complessità della
realtà sociale»
12
.
Accanto a questo “nobile” intento, ve n’è anche un altro per decidere di seguire,
taccuino alla mano, i combattimenti e tutto ciò che ruota intorno a una guerra.
L’informazione, infatti, non è mai una pura descrizione di ciò che accade. I giornalisti
che seguono un conflitto partono, in molti casi, da una loro opinione già definita su ciò
che sta accadendo ed è questa visione che cercano di dimostrare e giustificare nei propri
articoli. Inoltre, essi lavorano alle dipendenze di determinati editori o società produttrici
che hanno clienti con specifiche esigenze e punti di vista da soddisfare.
11
Per una illustrazione approfondita della materia della «prestazione» si veda il volume di D. McQuail,
Media Performance. Mass Communication and the Public Interest, London, Sage, 1992; trad.it. I media
in democrazia. Comunicazioni di massa e interesse pubblico, Bologna, Il Mulino, 1995.
12
J. P. Robinson e M. R. Levy, The Main Source, cit. in G. Mazzoleni, La comunicazione politica,
Bologna, 1998, p. 76.
12
Tanto più aperta e liberale è una società, tanto meno schierata da un unico lato
potrà essere la sua informazione. Da questo punto di vista la comunicazione di ciascuna
delle parti in gioco, così come quella dei diversi schieramenti presenti in uno stesso
Paese, può essere più o meno portata ad amplificare, nascondere, smascherare i fatti in
maniera analoga o contrastante rispetto alla propaganda ufficiale della sua parte.
La stampa diventa così una delle armi propagandistiche delle parti in gioco. I
giornali diventano lo strumento per descrivere la realtà in modo che questa risulti
coerente con quanto sostenuto da un determinato governo, coalizione o partito. Gli
eventi verranno selezionati sulla base di questo bisogno e descritti tenendo conto di
questo obiettivo. Il compito dei mezzi di comunicazione risulta così in contrasto con
due altre forme ideologiche presenti negli apparati informativi: l’idea che la stampa
debba essere “contropotere” e darsi come compito principale quello di controllare e,
eventualmente, denunciare e smascherare gli altri poteri e i giochi politici, come è nelle
intenzioni del watchdog journalism
13
, e l’idea che la concorrenza fra le diverse testate
induca ogni giornale a offrire al pubblico un servizio diverso dagli altri, quindi
un’informazione più completa e, per questo, meno parziale.
Considerando l’ambiguità della stampa durante un conflitto e il suo oscillare fra
nazionalismo, censura, indipendenza e ricerca dello scoop, le parti in guerra la
considerano uno dei soggetti del gioco strategico dell’informazione e della
disinformazione, decisiva per la vittoria finale. Negli articoli di giornale così come nei
tg non dobbiamo quindi cercare la “realtà” della guerra, ma una sua rappresentazione
che sia accettabile per l’opinione pubblica. Ecco dunque che gli organi di informazione
risultano più utili per comprendere il Paese o lo schieramento che li ha prodotti, i suoi
dirigenti e la sua popolazione che non ciò che sul campo di battaglia realmente accade.
13
Letteralmente “giornalismo cane da guardia”. Il termine si riferisce alla funzione di controllo che i
media dovrebbero esercitare nei confronti del potere politico, economico e militare per scongiurare abusi
e malefatte che i potenti riparano dietro la loro impunità. La stampa così intesa dovrebbe rappresentare i
diritti e le istanze del pubblico dei cittadini davanti alle istituzioni politiche, per mezzo di
un’informazione attiva, di indagine e di sorveglianza nei confronti dei poteri” in G. Mazzoleni, La
comunicazione politica, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 77.