Introduzione
Parlare della percezione in Merleau-Ponty, così come del rapporto tra il visibile e
l‟invisibile, significa affrontare contemporaneamente i temi del confine, dell‟evasione,
della relazione e dell‟esperienza. A ben vedere, la percezione non fa altro che farci esi-
stere insieme al mondo: essa non può non essere riconosciuta come una forma di rela-
zione. Lo stesso concetto merlopontiano di “chiasma” può essere descritto come una re-
lazione nel pieno dei suoi poteri, un‟esperienza da interrogare, da vivere in prima perso-
na. La percezione, secondo il filosofo francese, è una continua esperienza di sconfina-
mento, di attraversamento vivificante, di evasione. Siamo inestricabilmente implicati nel
mondo che ci circonda, siamo compresi in un‟unica immagine insieme agli altri, pas-
siamo continuamente da una parte all‟altra. Costituiamo l‟incarnazione stessa della rela-
zione: siamo quel punto di incrocio dove avviene il miracolo della fuga, del passaggio
dell‟uno nell‟altro. Grazie all‟esistenza del mondo, io posso uscire da me stesso;
l‟evasione che così si rende disponibile, è un dono fatto apposta per me, tutto è una
“dimensione” che mi serve per uscire dai miei limiti, per andare incontro al mondo nella
sua alterità. Niente, me compreso, può essere più considerato come un semplice „ogget-
to‟: ogni soggetto diventa “un‟unità di trasgressione o di sopravanzamento”, che ap-
prende dall‟esperienza della visione che sconfinare è la sua norma. Tutto è fatto a mia
misura ed è proprio questo che mi consente una fuga, una relazione. Solo ciò che è altro
da me può offrirsi come una via di fuga da attraversare, per andare verso quel mondo in
cui io stesso sono implicato. La visione mostra il miracolo dell‟uscita da sé nel simulta-
neo: io esco fuori da me ma non scompaio, l‟alterità rimane esterna ma mi definisce
normalmente nell‟intimo. I confini, con l‟esperienza, diventano sempre più incerti e il
pensiero dialettico di cui parla Merleau-Ponty ha lo scopo di sfumare i confini, non per
distruggerli, ma per mostrarne la permeabilità, per rendere possibile la relazione, grazie
alla quale, con quell‟unico movimento di evasione, io posso uscire da me per andare in-
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contro a tutto, me compreso. E‟ così che dentro e fuori si richiamano l‟un l‟altro infini-
tamente, che l‟invisibilità che accompagna ogni visione non si rivela una catastrofe, ma
la possibilità stessa di accedere ad un di più, ad un oltre, ad un “essere di latenza”. Il
pensiero dialettico assume così le fattezze di un pensiero ispirato dall‟altro, modellato,
rivolto alla relazione, alla sua esperienza. In questo modo, noi scopriamo di non essere
né fuori, né dentro di noi, ma all‟incrocio dei due, in quel luogo in cui i confini si rige-
nerano continuamente e in cui è possibile sconfinare per andare incontro alla vita stessa.
I confini rimangono, dunque, perché solo così è possibile perpetuare la relazione: la
separazione tra l‟io e l‟altro è necessaria. Anche in Lévinas la separazione tra il Mede-
simo e l‟Altro viene considerata irrimediabile, irrinunciabile. Avere dei confini, per dir-
la nei nostri termini, è una condizione imprescindibile per creare una relazione: l‟alterità
non scompare, la distanza non si colma, perché è essa stessa a consentire l‟evasione
senza far scomparire i soggetti. L‟evasione si verifica, lo scambio avviene: i limiti reci-
proci diventano i garanti e i veicoli della relazione, i confini si superano ma non scom-
paiono, ed è così che i soggetti non muoiono, conservando la propria libertà. Con la re-
lazione, si può esistere lontano e al di fuori di sé, e questo non solo è possibile, ma è
normale. Ed è proprio il volto, quell‟agente che fa a pezzi il sensibile, che mi rivolge il
suo invito cruciale, fatidico: mi chiama ad andare oltre il mero dato reale, mi dice di e-
vadere dai miei limiti per andargli incontro, di dirigere la mia fuga verso di lui, di scon-
finare per poter essere insieme. L‟evasione, dunque, mi accompagna ad un appuntamen-
to, si muove verso l‟avvenire per dare corpo ad una realizzazione reciproca. Ogni con-
tatto, per quanto limitato possa essere (come la carezza), serve sempre per immettere in
un al di là; ogni limite è in grado di trasformarsi, ma non deve scomparire. Per quanto la
simultaneità della relazione scardini le dicotomie vigenti (grazie all‟esperienza),
l‟adeguamento dell‟altro al proprio sé, magari nell‟ipostasi di una rappresentazione, è
comunque quel limite che permette una relazione „virtuosa‟, in cui cioè l‟altro si deter-
mina attraverso il medesimo senza comprometterne la libertà. I punti di contatto tra
Merleau-Ponty e Lévinas risultano dunque abbastanza evidenti. E il ritratto?
L‟esperienza artistica del ritratto non ci interessa soltanto per il suo possibile paral-
lelismo con il ritratto mentale, ma anche per la sua capacità di assurgere a vero e proprio
esempio di sconfinamento. Il ritratto pittorico, così come cercheremo di delinearlo in
queste pagine, accoglie in sé l‟assenza, la mancanza, si incardina su di essa per subli-
marla: da limite restrittivo, una mancanza si trasforma nel mezzo per andare, infinita-
mente, verso il soggetto altro. L‟assenza del soggetto, in nuce, diventa (in un certo sen-
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so) la condizione fondamentale per poterlo incontrare. Se un quadro, come sembra sug-
gerire Merleau-Ponty, viene pensato come un oggetto che ha il compito di portarci al-
trove, allora possiamo ben dire che esso serve a farci sconfinare, ad indicare un cammi-
no, a suscitare un‟esperienza, a procurare un incontro. Serve per farci evadere, per supe-
rare i nostri confini nella direzione di un incontro con l‟altro: è così che l‟evasione, inte-
sa in questo modo, non diventa altro che un modo della relazione, una parte del suo più
ampio percorso. Il ritratto sconfina, induce a scompaginare le categorie concettuali
(anch‟esse dei confini, a ben vedere) attraverso il confronto con l‟alterità sfuggente, che
sola sa suscitare un‟esperienza concreta, all‟ennesima potenza. Il ritratto è attraversa-
mento, passaggio, è una delle innumerevoli „dimensioni‟ merlopontiane che servono per
evadere e, al contempo, per andare incontro al mondo. Il ritratto, pittorico e mentale, co-
sì come l‟immagine in senso lato, mette in comunicazione chi guarda, avvicina due enti-
tà separate senza azzerare le distanze, è un “plesso di relazioni”, come scrive Ghilardi,
un viluppo dall‟elevata densità. Questa rappresentazione, in quanto „luogo‟, non è altro
che una mediazione costruita per favorire un incontro, in virtù del movimento incessan-
te che la costituisce: quello dell‟evasione. Il ritratto cerca sempre di andare oltre sé stes-
so, lo sguardo che lo anima punta sempre oltre, si riproduce in una fuga inesausta, che
costringe continuamente a ripensare il rapporto, a cercare nuovi incontri. Lo sguardo è
erratico perché cerca una relazione, i limiti si superano perché serve un incontro, il ri-
tratto (come l‟uomo) non riesce a rimanere presso di sé: l‟evasione, come necessità, è il
suo normale funzionamento, il suo modo di essere più istintivo.
Dunque, tre capitoli, per parlare di più argomenti tutti strettamente intrecciati, per
sviluppare un discorso incardinato costantemente su più fuochi: il confine, l‟evasione, la
relazione e l‟esperienza. Perché parlare di questi temi in ambito interculturale? Perché
un incontro con l‟altro diventa significativo se assume i connotati dell‟esperienza, quel
„qualcosa da vivere‟ che non lascia inalterati. Perché uscire da sé significa andare incon-
tro non solo all‟altro, ma anche a sé stessi, mettendo in atto una relazione sempreverde.
Perché chi scrive non è d‟accordo con quella concezione che vede la cultura come una
gabbia da cui non è possibile uscire, che si riceve dall‟alto una volta per tutte, una cultu-
ra come identità principale all‟interno (e in funzione) della quale tutte le altre identità
derivanti dal vivere sociale vengono gerarchizzate (e subordinate), assumendo
“l‟identità culturale come l‟essenza più profonda di una persona” (Binsbergen, 2002,
p.10). Non credo in un‟identità fossilizzata sulla cultura di appartenenza, che “defini-
rebbe non solo un aspetto parziale della vita di un individuo, non solo uno degli specifi-
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ci ruoli, ma l‟intero mondo della vita, le cui parti si assemblano in una totalità di senso”,
con il risultato di “una situazione in cui il soggetto può rapportarsi al mondo come se
quello stesso soggetto fosse un intero monolitico” (Binsbergen, 2002, p.10). In accordo
con Wim van Binsbergen, rifiuto il principio che considera le culture come delle “totali-
tà confinate e integre […] nelle quali un essere umano conduce un‟intera vita dalla mat-
tina alla sera, dalla nascita alla morte, senza minimamente essere influenzato da altre
culture” (Binsbergen, 2002, p.31). Il fatto di essere singoli individui dotati di pensiero e
di creatività, è propriamente ciò che ci permette di comunicare con gli altri: se venissi-
mo perfettamente programmati dalle nostre culture di appartenenza (intese in senso re-
strittivo, ovviamente), diverrebbe sistematicamente impossibile intenderci su qualunque
cosa che non mostrasse un accordo sin da subito. Le culture invece, vorremmo suggeri-
re, sono degli strumenti, degli arnesi progettati per un novero indefinito di azioni. Ogni
arnese ha i suoi limiti, i suoi confini, ma sono di tipo particolare: abbiamo tra le mani e
nella mente degli elementi malleabili, disegnati per portarci oltre noi stessi, per aggior-
nare i nostri confini, per condurci ad un incontro. Abbiamo, e siamo, dei confini che
forgiano altri confini. Comprendere questa natura mobile dei nostri limiti, che sono de-
gli utensili, più che dei prodotti finiti, significa riconoscere che siamo progettati per
l‟evasione; e coltivando l‟evasione, non faremo altro che coltivare la relazione.
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