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CAPITOLO I
L’ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO
1. Profili storici del reato di associazione per delinquere nelle esperienze pre-codicistiche
A. Le fattispecie congegnate nel codice Zanardelli: dai lavori preparatori alla successiva
ricostruzione dottrinale
Con il codice Zanardelli del 1889 l'Italia viene unificata, non senza difficoltà, anche sul piano della legislazione
penale. Si trattava di un risultato faticosamente raggiunto alla fine di un lungo percorso durante il quale si
confrontarono culture e tradizioni giuridiche diverse, ampiamente rappresentate nelle sedi istituzionali dai più
eminenti studiosi di diritto penale dell'epoca e ciascuna portatrice di una pregressa e consolidata esperienza
codicistica. Da questo punto di vista, anche il dibattito che si sviluppò tra i giuristi intorno alla lotta criminalità as-
sociata in genere, nonché le stesse le soluzioni normative che al riguardo maturarono nel codice, ben
rispecchiano quell'esigenza costantemente avvertita nel corso dei lavori preparatori di prescegliere moduli
incriminatori dotati di una certa attitudine unificante rispetto a quelli adottati nei codici preesistenti.
Al di là della disputa teorico-dottrinale sul modello di reato associativo preferibile tra quelli offerti dalle
legislazioni penali preunitarie, bisognava al quel tempo infatti fare i conti con la variegata fenomenologia
criminale di tipo associato che imperversava nelle diverse regioni del neonato Stato unitario. In proposito,
quindi, é plausibile ritenere che «dovendosi sostituire le numerose fattispecie associative con un unico modello di
incriminazione», il legislatore del codice del 1889 sia rimasto soprattutto condizionato dalla necessità di
«elaborare una previsione normativa il più possibile comprensiva, e quindi inevitabilmente ancor più generale e
astratta, con conseguente eliminazione di ogni elemento normativo troppo specifico, in quanto ricavato da una
particolare fenomenologia criminosa»
1
.
In questo senso appare senz'altro spiegabile l'abbandono da parte del legislatore unitario di tutti quei
requisiti oggettivi di fattispecie, come l'organizzazione gerarchica per bande o lo scorrere armati nelle
campagne, che caratterizzavano, rispettivamente, l'associazione di malfattori di matrice francese accolta nei
codici sardo-piemontesi, e la comitiva armata del codice napoletano del 1819. Ad ogni modo, limitandosi l'art.
248 a prevedere che «Quando cinque o più persone si associano per commettere delitti contro
l'amministrazione della giustizia, o la fede pubblica, o l'incolumità pubblica, o il buon costume e l'ordine della
famiglia o contro le persone o la proprietà, ciascuna di esse è punita, per il solo fatto dell'associazione, con la
reclusione da uno a cinque anni se vi siano promotori o capi dell'associazione la pena per essi è della
reclusione da tre a otto anni», la fattispecie associativa del codice Zanardelli finiva per guardare prevalentemente
- ma non esclusivamente - al modello di reato associativo accolto nel codice toscano del 1853, ove la definizione di
associazione penalmente rilevante si esauriva nell'accordo tra più persone finalizzato al perseguimento di
1
Ingroia, L’associazione di tipo mafioso, Milano, 1983 p. 8
2
determinate tipologie delittuose
2
. Prevalentemente, dicevamo, non esclusivamente, in quanto prevedendo il 1° cpv.
del medesimo articolo un sensibile aumento di pena qualora «gli associati scorrano le campagne o le pubbliche vie, e se
due o più di essi portino le armi o le tengano in luogo di deposito», si recuperavano in guisa di aggravante le note
tipiche della comitiva armata del codice napoletano del 1819
3
.
Sul versante della repressione delle condotte di contiguità alle associazioni criminose, invece, il codice unitario
sembrava maggiormente in sintonia con quello piemontese e napoletano, giacché non rinunciò come quello
toscano a prevedere espressamente la fattispecie di «assistenza agli associati» (art. 249), e ripropose in buona
parte il modello incriminatorio di matrice francese: «chiunque, fuori dai casi preveduti nell'art. 64, dà rifugio o
assistenza, o somministra vettovaglie agli associati, o ad alcuno tra essi, è punito con la reclusione sino ad un
anno. Va esente da pena colui che somministri vitto o dia rifugio ad un prossimo congiunto». Alcune
importanti novità, però, erano state introdotte.
In primo luogo, con il collocare tutte le condotte propriamente associative nel medesimo articolo del codice
(art. 248) e disciplinando, invece, quelle di fiancheggiamento esterno in un'altra norma (art. 249), si dava
visibilità ad una netta cesura che si voleva determinare, sul piano tanto morfologico che sanzionatorio, tra le
due ipotesi criminose: con ciò raccogliendo la tradizione napoletana che già, come segnalato, aveva esercitato
verosimilmente il suo influsso nella codificazione piemontese. Le prime risultavano così imperniate sul
semplice fatto di associarsi, o eventualmente sulla più grave attività di promozione o di comando svolta nella
compagine criminale, accompagnato dallo scopo di commettere in comune una serie indeterminata di delitti. Le
altre, invece, si riducevano alla realizzazione di singole prestazioni di vettovagliamento, ricovero e assistenza
nei confronti degli associati medesimi, senza che fosse richiesta una specifica proiezione psicologica dell'agire.
Conseguentemente, per le condotte associative la pena poteva variare da un minimo di un anno di reclusione
ad un massimo di cinque anni (da tre a dieci anni con l'eventuale aggravante dello scorrer armati), mentre per il
fiancheggiamento la pena non poteva comunque superare un anno di reclusione.
In secondo luogo, e questa è una novità gravida di conseguenze per il futuro legislatore italiano, con
l'inserimento nell'art. 249 della clausola «fuori dei casi preveduti dall'art. 64», norma quest'ultima che disciplinava
le varie ipotesi di complicità punibile, veniva sancita l'autonomia della fattispecie di assistenza agli associati dal
concorso criminoso e, per converso, si riconosceva esplicitamente uno spazio di operatività a quest'ultimo
interposto tra la punibilità degli intranei e quella degli estranei: e anche stavolta, invero, parrebbe aver «pesato»
la tradizione napoletana, visto che per primo il codice del 1819 aveva contemplato una analoga clausola di
riserva in favore del concorso di persone.
Proprio su questo punto il Ministro Zanardelli, nell'illustrare il progetto presentato il 22 novembre 1887, ebbe
cura di sottolineare che la formulazione in esso proposta (che a parte la successiva aggiunta della condotta di
«vettovagliamento» sarà poi quella accolta nel codice) mirava, tra l'altro, a fugare le incertezze generate dalle
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Insolera, L’associazione per delinquere, Padova, 1983, p. 13
3
Calleri, l’art. 248, capov. 1, c.p., in scuola Positiva, 1930, 249
3
proposte contenute nei progetti immediatamente precedenti, le quali, richiamando le pene del concorso
criminoso, inducevano a ritenere «che si trattasse di formule dichiarative, per le quali s'intendesse soltanto di
assicurare l'applicazione delle norme sulla complicità nei fatti ivi preveduti, con l'effetto quindi di lasciare in
dubbio la loro applicazione, ove il reo dimostrasse di non avere agito nei termini della complicità (...), e rite-
nuto che in questo articolo non si vuol fare un riferimento alle norme della complicità, ma prescindere anzi da
questa e colpire quei manutengoli che di complicità non si possono convincere, ma senza dei quali le
associazioni di delinquenti non potrebbero sussistere, sono ritornato volentieri ai Progetti del 1868 e del 1870,
facendo salvi i casi della complicità, anziché richiamarne le norme, ed applicando al colpevole una pena
determinata, per quanto mite, come di ragione, e perciò più sicura»
4
.
E però, come risulta dai verbali della Commissione Reale di revisione del progetto istituita con decreto regio
nel dicembre 1888, la soluzione proposta da Zanardelli non mancava di sollevare perplessità sotto vari aspetti.
Nella stessa Commissione di revisione, chiamata a pronunciarsi sulla fattispecie di assistenza agli associati per
delinquere, si riaccese peraltro il dibattito attorno al profilo psicologico occorrente per la punibilità dell'agente, a
seguito del rigetto della proposta della Commissione senatoriale tesa ad inserire l'inciso «fuori del caso di morte
o minaccia». L'incipit fu dato dall'interrogativo posto da Brusa su una ipotesi da lui ritenuta destinata ad
affacciarsi facilmente nella prassi: «quando non concorressero i veri estremi d'una coazione e non sia pro-
priamente applicabile l'art. 50, si dovrà condannare l'individuo che somministri vitto o ricovero ad una
associazione o banda, quando lo faccia per timore o per evitare danni o mali probabili?» Sulla questione
posta dall'illustre penalista, il presidente Eula si limitò ad osservare che «è impossibile dare una risposta assoluta;
che la questione dovrà risolversi caso per caso, secondo le circostanze»; e comunque, aggiunse Lucchini, non era
possibile «prevedere una scusante speciale; sarebbe come distruggere l'articolo; o si è nei termini dell'art. 50, e
allora c'è l'impunità, o mancano i requisiti della scusante e si deve punire», anche se, commentò Ellero,
qualora «taluno agisse per mera apprensione, per salvare sé o la sua famiglia, rientrerebbe nella scusante
dell'art. 50»
5
.
Come è agevole avvedersi si trattava di dubbi e perplessità non nuovi, che avevano costellato le precedenti
esperienze giuridiche italiane in materia contiguità alla criminalità associata e in particolare al banditismo e al
brigantaggio. E ad uno sguardo d'insieme, il codice Zanardelli parrebbe aver accolto, perfezionandolo, il
modello su cui sembrava essersi attestata la giurisprudenza in relazione alla interpretazione delle fattispecie
associative e di contiguità del codice sardo-italiano, e, ancor prima, del codice delle Due Sicilie.
Emblematica, da questo punto di vista, l'inclusione del vettovagliamento a fianco del ricovero ai banditi nella
fattispecie di assistenza agli associati, poiché rappresentava una risposta ai problemi applicativi che il reato
aveva sollevato sotto questo profilo durante la vigenza del codice sardo-italiano.
4
Crivellari-Suman, Il codice penale pel Regno d’Italia, Vol. VII, Torino, 1896, 45
5
Crivellari-Suman, Il codice, cit., 48
4
Ma anche la scelta di espungere dalla medesima fattispecie la fornitura alle bande di armi, munizioni o altri
strumenti di delitto e, al contempo, di inserire la clausola di riserva per i casi di complicità, lasciando in tal
modo al concorso criminoso e al relativo trattamento sanzionatorio la eventuale punibilità di condotte di
sostegno esterno diverse da quelle espressamente previste dal reato di assistenza agli associati, finiva per
riproporre lo schema che abbiamo visto tendeva già a seguire la giurisprudenza negli anni precedenti
all'emanazione del codice unitario. La diversità di pena che in siffatta maniera poteva derivarne per condotte
prima comprese entro la stessa fattispecie, ossia il ricovero prestato ai banditi da un lato e la fornitura di armi et
simila dall'altro, pareva oltretutto corrispondere anche ad una precisa valutazione politico criminale che portava
a ritenere di maggiore gravità la seconda tipologia rispetto alla prima: il che giustifica anche l'inserimento
nella fattispecie di assistenza agli associati della clausola di non punibilità in favore dei prossimi congiunti (art.
249, secondo comma).
In questo quadro, la fattispecie di assistenza agli associati poteva magari fungere da «sbarramento», da argine,
alla vocazione espansiva delle norme sulla complicità, nel senso che riservava una pena comunque ridotta a
condotte di per sé dipendenti «dalle lecite ed ordinarie relazioni sociali, quantunque la persona che se ne giova
possa essere membro di una associazione criminosa», tenuto conto che soltanto nei casi in cui ci si trovi «istato
di guerra guerreggiata colla società può derogarsi alle leggi naturali della sociale convivenza, che riconoscono
in ogni uomo, il diritto, anzi il dovere di apprestare vitto e ricovero a chi ne avesse bisogno»
6
.
L'articolata discussione che su tali questioni precedette il varo del codice Zanardelli, comunque, non si
interruppe, e riaffiorò successivamente nei commentari e nei manuali di cui sovente erano autori gli stessi che
avevano partecipato in prima persona ai lavori preparatori.
Rimaneva aperta, soprattutto, la questione dei rapporti e delle differenze tra complicità nel reato associativo e
assistenza agli associati e, conseguentemente, la definizione dei requisiti oggettivi e soggettivi di quest'ultima
fattispecie (con riferimento sia alla banda annata sia all‘associazione per delinquere).
Nocito, ad esempio, rimase fermo nella sua critica all'impostazione codicistica imperniata sulla coesistenza del
reato di assistenza agli associati con la complicità nel reato associativo, mettendo in luce la debolezza dei
parametri che erano stati proposti per fissare una linea di confine tra le due diverse ipotesi
7
.
Errata appariva, anzitutto, la distinzione fondata sul quando della condotta, a seconda cioè se l'assistenza era
prestata dall'extraneus contestualmente alla formazione dell'associazione o dopo che essa era già formata,
configurandosi nel primo caso la complicità nel reato associativo, mentre nel secondo la fattispecie di parte
speciale
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: «questa distinzione non doveva essere fatta, perché anche quando la banda sia stata formata, il fatto
che la costituisce perdura, e quindi l'aiuto od assistenza che si dà alla medesima è un caso di complicità».
6
Crivellari-Suman, Il codice, cit., 46
7
Nocito, Corso di diritto penale, Roma, 1901, 69 ss.
5
Parimenti inconsistenti si giudicavano le tesi di chi poneva l'accento sul carattere «momentaneo», «transitorio» o
«accidentale» della condotta punita dalla fattispecie di assistenza per differenziarla dalla complicità nel reato
associativo: «la complicità non dipende dal tempo più o meno lungo, ma dalla natura del fatto.
Non conducenti, infine, si reputavano i criteri che facevano riferimento al profilo psicologico, che secondo
alcuni nell'ipotesi del reato di assistenza agli associati doveva essere caratterizzato, a differenza dalla
complicità, dal lucro personale oppure da timore: ciò in quanto «la veduta del lucro non toglie la volontà di
partecipare al fine per il quale è costituita la banda», e il timore «non solo non è costitutivo di dolo, ma toglie
ogni dolo per la coazione psicologica che esercita».
Di tutt'altro tenore, invece, la ricostruzione operata da Impallomeni, secondo il quale il favoreggiamento alla
banda si distingueva dalla complicità e «nel modo, in quanto sia un aiuto prestato transitoriamente; se fosse un
fatto permanente, sarebbe una cooperazione alla banda, e perciò un vero fatto di complicità», e «nel fine, in
quanto che l'aiuto non sia prestato con lo scopo di concorrere allo stesso fine cui tende la banda, ma per
timore, per lucro, ecc.»
8
. Anche se, proprio sotto quest'ultimo profilo, il penalista siciliano aveva cura di
precisare, con riferimento esclusivamente all'associazione per delinquere, che non poteva considerarsi
volontario e quindi punibile «l'ausilio imposto dall'altrui minaccia, la quale, del resto, non è necessario che sia
espressa, ma basta che sia presunta nel contegno e nella qualità dei malfattori; non essendovi legge che imponga
ai privati cittadini l'eroica virtù di combattere contro la forza del delitto, ma incombendo invece all'autorità il
dovere di proteggere la proprietà e la sicurezza personale dei cittadini»
9
.
.
Considerazioni, queste, che per un verso, sul piano empirico-criminologico, erano verosimilmente sollecitate
dalla particolare tipologia di criminalità associata che imperversava soprattutto nel meridione italiano e, per un
altro, risentivano anche di una concezione di reato associativo che affondava le sue radici nella tradizionale
categoria della vis pubblica. Ed invero, ancorché l'associazione per delinquere del codice Zanardelli si
presentava depurata dagli elementi di fattispecie caratterizzanti la vecchia comitiva armata del codice napoletano,
o comunque li manteneva in forma soltanto eventuale come circostanze aggravanti (e cioè lo «scorrere armati
nella pubbliche vie o nelle campagne e il portar armi»), continuava comunque ad esercitare una certa influenza in
sede interpretativa il bagaglio di esperienza accumulatosi sotto l'impero delle precedenti leggi penali.
Risultava così inscindibile il nesso strumentale tra la pubblica intimidazione, ottenuta mediante violenza o
minacce, e la fisionomia, nonché le modalità operativa delle formazioni criminali che nella prassi erano destinate
ad essere sussunte entro il paradigma incriminatorio dell'associazione per delinquere. Ben si comprende,
allora, la preoccupazione di Impallomeni, già peraltro manifestata come abbiamo visto in precedenza da altri
autorevoli studiosi durante i lavori preparatori, circa la sorte giudiziaria cui potevano andare incontro tutti
coloro che entravano in contatto con gli esponenti di quelle consorterie criminali che si avvalevano sistematica-
mente del timore incusso nell'ambiente ove operavano. La distinzione tra le vittime e i complici delle
8
Impallomeni, Il codice penale italiano, Vol. II, Firenze, 1898, p. 101
9
Impallomeni, Il codice, cit., 321
6
organizzazioni criminali mafiose o, se si preferisce, proto-mafiose, tornava dunque ineluttabilmente a porsi in
termini problematici, senza che gli strumenti della dogmatica, dell'interpretazione sistematica riuscissero a
fornire soluzioni univoche e rassicuranti.
Né, al riguardo, poteva ritenersi risolutivo l'approccio di chi, per la punibilità dell'extraneus ai sensi degli artt. 132 e
249, non considerava sufficiente accertare che egli avesse «conoscenza del carattere e dello scopo delle
bande», ma richiedeva la consapevolezza che la propria condotta potesse avere «un'influenza diretta o
indiretta nel raggiungimento dello scopo»
10
, se poi il ragionamento era completato dalla convinzione che in
tali casi la somministrazione «può anche essere fatta in buona fede, questa però dovrà esser dai colpevoli
provata, onde distruggere la presunzione che sorge contro di loro di somministrazione delittuosa»
11
.
Ogni dubbio, perplessità, sembra invece gradatamente dissolversi nell'opera «sistematica» per eccellenza,
ossia il Trattato di Manzini, ove sul tema della complicità nell'associazione o banda criminale e sulla
possibile sovrapposizione tra tale forma di manifestazione del reato e i requisiti della fattispecie di
assistenza agli associati, non si riscontra il grado di problematicità che invece abbiamo visto caratterizzare il
pensiero di molti altri penalisti sull'argomento.
Intanto, in ordine all'applicabilità del concorso di persone alle associazioni o bande criminose, Manzini non
scorge alcun impedimento dogmatico di sorta, una volta riguardati tali reati sia come fattispecie a concorso
necessario sia come reati a carattere permanente.
Sotto il primo profilo, le norme sul concorso criminoso potranno infatti applicarsi a «quelle persone il cui
intervento nell'intrapresa delittuosa non è richiesto indispensabilmente dalla nozione di reato, e la cui attività si
svolge a concretare fatti di correità (ove possibile) o di complicità a cooperazione, istigazione, od aiuto di
una, di più o di tutte le persone indispensabili». Sicché, esemplifica l'autore, risponde di complicità in adulterio
colui che presta assistenza all'uomo o alla donna, correi necessari; o, ancora, risponde di complicità in duello il
maestro di scherma che concede l'uso della sala e somministra le armi, senza che rilevi il fatto che la legge già
incrimini forme di compartecipazione mediante fattispecie sui generis quali la cooperazione dei portatori di
sfida, i padrini o i secondi
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Sotto il secondo profilo, e cioè della natura permanente del reato associativo, «posto che la consumazione di esso si
avvera ma non si esaurisce nel momento in cui si integrano gli elementi e le condizioni della punibilità, è naturale
che colui il quale dà opera alla protrazione degli atti consumativi, sia da considerarsi correo a norma dell'art.
63 c.p.», così come, continua Manzini, «riguardo alla complicità tutte le sue forme sono possibili». Né, secondo il
medesimo autore, «gli artt. 132 e 249 derogano alla regola generale, quantunque prevedano certi fatti d'ausilio
prestati durante la permanenza», poiché essi «eccettuano espressamente il caso che si tratti d'ausilio prestato in
seguito a precedente concerto, nella quale ipotesi è applicabile l'art. 64 n. 1, o prestato durante il fatto
all'intento di facilitare i delitti di banda armata e di associazione di malfattori, nel qual caso è applicabile l'art. 64
10
Crivellari, Il codice penale, cit., vol. V, 337
11
Crivellari-Suman, Il codice penale, cit., Vol II, 57
12
Manzini, Trattato di diritto penale italiano, Vol. II, Torino, 1904, 444
7
n..3»; rimarranno applicabili, invece, le fattispecie di favoreggiamento speciale ove «l'ausiliatore, pur sapendo che
si tratta di bande armate o associazioni criminose, presti volontariamente assistenza o aiuto per tutt'altro scopo
che di concorrere al reato»
13
.
Nella parte del Trattato dedicata specificamente alla banda armata, Manzini, inoltre, elenca più dettagliatamente
tutte le ipotesi in cui si ha complicità e non il titolo speciale di cui all'art. 132: «se l'assistenza o l'aiuto, prestati
dopo la formazione della banda, erano stati promessi prima; ovvero se furono prestati prima o durante il
periodo di formazione della banda; se si diedero istruzioni o si somministrarono mezzi per formare la banda».
In poche parole, ogni ausilio prestato o promesso nella fase di formazione della banda finiva in tal modo per
ricadere nell'ambito della complicità. In tutti gli altri casi e in particolare per le condotte realizzate dopo la
formazione della banda, la soluzione era, secondo l'illustre autore, altrettanto semplice: «siccome il delitto di
banda armata è reato necessariamente permanente, così a quel modo stesso che si rende correo colui che entra
a far parte della banda dopo la formazione di essa, si rende complice, e non semplice favoreggiatore, quegli
che commette il fatto preveduto nell'art. 132 allo scopo di concorrere nel delitto di banda armata»
14
.
Con riferimento, infine, all'assistenza agli associati per delinquere Manzini, dopo aver richiamato il
ragionamento già sviluppato in sede di commento al reato di banda armata, ha cura di segnalare la maggiore
tassatività della fattispecie rispetto a quella di assistenza alla banda armata, poiché in quest'ultima, a differenza
della prima, accanto al dare rifugio, assistenza o somministrare vettovaglie, era prevista anche la condotta del
«favorire in qualunque modo le operazioni della banda», con la conseguenza che «il favorire le operazioni
dell'associazione per delinquere rientra nel titolo generale del favoreggiamento (art. 225), quando non
costituisca ricettazione o compartecipazione»
15
.
Ora, ad una valutazione complessiva dell'impianto ricostruttivo proposto da Manzini con riguardo ai
rapporti tra il concorso criminoso e le fattispecie di assistenza agli associati o alle bande, ciò che in
conclusione si ricava è un unico criterio differenziale a cui, in ultima analisi, rimane affidato il compito di
segnare il confine tra l'una e l'altra ipotesi delittuosa, ossia il riscontro o meno della volontà, la cui natura in
termini tecnici non è peraltro meglio specificata, di concorrere nel sodalizio criminoso in capo al
fiancheggiatore. Per il resto sembra prevalere una incondizionata operatività delle norme incriminatrici del
concorso criminoso: come se la tipizzazione delle figure concorsuali fissata dagli artt. 64 e 63, più che
fungere da limite all'estensione dell'area di punibilità delle singole fattispecie tramite il meccanismo concorsuale,
finisse piuttosto per esaltare proprio la vocazione espansiva di quest'ultimo.
13
Manzini, Trattato, cit., Vol. II, 451
14
Manzini, Trattato, cit., Vol. IV, 362
15
Manzini, Trattato, cit., Vol. V, 668
8
B. La contiguità al brigantaggio e alla mafia tra complicità, favoreggiamento e
assistenza agli associati in alcune pronunzie giurisprudenziali
Nonostante le preoccupazioni manifestate nel corso dei lavori preparatori del codice Zanardelli in merito
al rischio di una indiscriminata criminalizzazione delle condotte di contiguità, soprattutto con riguardo
alle ipotesi in cui risultava labile la distinzione tra vittime e complici delle associazioni delittuose, in
giurisprudenza non mancarono prese di posizione improntate al massimo rigore che sembravano non
farsi del tutto carico delle questioni discusse a livello teorico e progettuale.
Così, ad esempio, la Cassazione affermava in punto di diritto nel 1894 che «rispondono del delitto di
associazione per delinquere coloro che, in numero maggiore di cinque e d'intesa fra loro, aiutano o favo-
reggiano la latitanza di temuti briganti, sia eludendo le investigazioni dell'autorità, sia somministrando ad essi il
necessario per vivere, quand'anche ciò facciano sotto l'incubo della paura, che non può giammai costituire un
pericolo grave e imminente da dar vita allo stato di necessità»
16
.
Sulla stessa falsariga, qualche anno dopo, si pronunziava la Corte d'Appello di Palermo
17
, secondo la quale
«sono responsabili di favoreggiamento verso gli imputati di associazione per delinquere coloro i quali per
essere sicuri negli averi e nella vita pagano periodicamente agli associati a delinquere premi in denaro o in
derrate»
Anche sul rapporto tra concorso criminoso e reato associativo la giurisprudenza sembrava attestarsi su
posizioni rigoristiche, visto che non rinunciava a sperimentare fino in fondo le potenzialità repressive
offerte dal concorso criminoso, arrivando a configurare non solo la complicità, ma anche la correità
nell'associazione per delinquere, preferendo quindi applicare l'art. 63 e l'art. 248, in luogo del reato di favo-
reggiamento o di assistenza agli associati, a condotte ritenute di cooperazione immediata allo svolgimento
della trama associativa, come si evince da una sentenza del 1903.
Secondo la Cassazione, in particolare, «risponde di correità in associazione per delinquere, e non di semplice
favoreggiamento, chi presti la casa per discutere sui delitti da compiere, per assumere informazioni e per
ripartire gli utili, prendendo parte ai convegni e alle operazioni»
18
.
Tale pronunzia — che confermando la decisione di merito finiva per ammettere l'irrogazione della pena
prevista per l'autore (in tal caso il partecipe dell'associazione) anche al correo «esterno» ai sensi dell'art. 63
del codice, senza quindi minimamente occuparsi di verificare il carattere necessario o meno del contributo
concorsuale come invece richiesto dall'art. 64 - desta ancora più interesse se si guarda all'imputato: la moglie di
uno dei sodali dell'associazione per delinquere.
Molti anni più tardi si riproporrà la questione dell'applicabilità o meno del concorso criminoso a
condotte ritenute diverse da quelle espressamente previste dal reato associativo: stavolta, però, la
16
Cass. 12/09/1894, Passalaqua e altri, in Riv. pen., 1894, 485
17
App. Palermo 10/12/1903, Alaimo e altri, in Foro Siciliano, II, 1904, 1 ss.
18
Cass. 27/11/1903, Alasia, in Riv. pen., Vol. LIX (1904), 581.
9
Cassazione censura l'operato dei giudici di merito che avevano condannato per complicità non necessaria
in associazione per delinquere, ai sensi dell'art. 64, n. 3, del codice Zanardelli, gli ex sindaci di due paesi
calabresi
19
.
Sembrerebbe che la Cassazione non neghi in via di principio l'applicabilità delle norme sulla complicità in
combinato disposto con il reato associativo, ma cerchi piuttosto di fissare, non senza qualche contraddizione,
alcuni requisiti oggettivi e soggettivi ―minimi‖ in presenza dei quali l'operazione possa risultare ammissibile. E
così, se per un verso i giudici di legittimità ritengono configurabile la complicità in associazione per delinquere
per colui che mette a disposizione la propria casa per consentire le riunioni dell'organizzazione criminale, e in
questo caso la differenza con il reato di assistenza agli associati risiederebbe nella volontà di garantire il
funzionamento dell'associazione e non quella di dare «rifugio», per altro verso escludono tale figura criminosa
quando i fatti addebitati sono di per sé «legittimi e corretti». Qui, invero, la Cassazione più o meno
consapevolmente, sfiora un problema che ancora oggi riemerge ad ogni piè sospinto: se, cioè, sia possibile
contribuire all'associazione attraverso condotte intrinsecamente lecite, le quali diventano punibili proprio in ragione
del collegamento funzionale, oggettivo e soggettivo, con la vita dell'organizzazione associativa. Quel che
suscita la reazione dei giudici di legittimità nel caso di specie è infatti la contestazione agli imputati di
condotte in realtà rientranti nell'ambito delle facoltà, dei poteri di cui questi erano investiti in qualità di primi
cittadini dei rispettivi paesi: ad esempio il rilascio del passaporto all'affiliato, o, ancora, l'assunzione presso un ente
pubblico di un malavitoso. Vero è, da questo punto di vista, che anche il dare la casa per le riunioni
dell'associazione non costituisce di per sé una condotta criminosa: al riguardo, però, la Cassazione è probabil-
mente più propensa a ritenere ammissibile l'incriminabilità a titolo di complicità, probabilmente perché questo
tipo di condotta, pur con un profilo psicologico diverso, costituiva oggetto di una fattispecie criminosa a sé,
qual era l'art. 249 codice Zanardelli. Ma, forse, anche perché il dare la casa per le riunioni degli associati si
prestava sul piano probatorio ad interpretazioni meno equivoche rispetto a comportamenti, come quelli posti a
carico degli imputati, che tradivano sì una loro contiguità agli ambienti criminali e purtuttavia si risolvevano nel
compimento di atti la cui natura consentiva di inquadrarli, magari più plausibilmente, nell'ordinario svolgimento di
attività pubbliche o private, anziché nelle trame criminose dei destinatari degli atti stessi.
19
Cass. 30/06/1934, Romeo e altri, in Scuola Positiva, 1935, 193