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Introduzione
Perché una tesi sul concordato concluso nel 1851 tra la Chiesa ed il Granducato di Toscana?
Ci si può chiedere quale interesse possa suscitare un accordo di tal genere, concepito già da coloro
che lo sottoscrissero come provvisorio, che ebbe un’applicazione piuttosto limitata e che, nell’arco
di un decennio, perse qualsiasi valore, in seguito alla fine del Granducato di Toscana.
Credo che l’interesse sia da attribuirsi, più che all’atto in sé, alle fasi delle trattative che ad esso
condussero.
Ripercorrendo le fasi che, dal 1848 al 1851, portarono a tale atto, entriamo in contatto con due
differenti concezioni del rapporto che avrebbe dovuto idealmente esistere tra la Chiesa Cattolica ed
uno Stato confessionale. La concezione giurisdizionalista, piuttosto radicata fra i giuristi toscani, e
la concezione della Curia Romana, che avrebbe voluto vedere il potere civile lasciar libera la Chiesa
nella sua attività pastorale, mostrandosi inoltre collaborativo con essa. I sostenitori di queste due
idee si confrontano, e fanno fatica a comprendersi. Ma una serie di circostanze li spinge a trovare un
accordo, per quanto incompleto e parziale, aggirando i vari temi su cui non riescono a trovare un
punto di contatto. Il confronto fra queste due concezioni, a mio avviso, finisce con l’essere molto
più interessante del risultato finale.
Vi è una buona storiografia sull’argomento, risalente alla prima metà del ventesimo secolo è l’opera
di Anton Maria Bettanini, che nel libro Il Concordato di Toscana esamina con puntualità le varie
fasi della trattativa; negli stessi anni Eletto Palandri e Renato Mori hanno analizzato,
rispettivamente, la prima e l’ultima fase della trattativa, Palandri nel saggio La prima missione a
Roma di Monsignor Giulio Boninsegni per la formazione della Lega politica italiana e la
stipulazione di un Concordato fra la Toscana e la Santa Sede, pubblicato negli Atti della Società
Colombaria, Mori nel saggio Il Concordato del 1851 tra la Toscana e la S. Sede, la seconda fase
delle trattative e la conclusione”. Più di recente, nel 2007, è uscito il lavoro di Marco Pignotti,
Potestà laica e religiosa autorità, il concordato del 1851 fra Granducato di Toscana e Santa Sede.
Questa opera condivide però un limite con quelle citate precedentemente: sono basate quasi
esclusivamente su documenti di parte toscana, provenienti per lo più dall’Archivio di Stato di
Firenze e, per quanto riguarda Bettanini, dall’Archivio Privato Mazzei. Gli Archivi Vaticani sono
stati ignorati, da Pignotti evidentemente per scelta, gli altri non dovettero avere l’opportunità di
accedervi, dal momento che in tali archivi non erano consultabili i documenti più recenti (Palandri
6
infatti, che scrive tra il 1928 ed il 1929, ricorda di non aver potuto consultare i documenti pontifici
in tal materia).
A tale lacuna ripara in parte Giacomo Martina nel libro Pio IX e Leopoldo II, pubblicato nel 1967
(Pignotti infatti lo ha letto e lo cita, ma molto saltuariamente). Il capitolo III di tale libro è dedicato
alla stipulazione del concordato del 1851, e l’autore, riprendendo i risultati delle ricerche di
Bettanini e Mori, li integra con i documenti consultati presso l’Archivio Segreto Vaticano. Tale
lavoro è di grande interesse, ma è un capitolo all’interno di un libro scritto riguardo ad un contesto
più ampio; quindi per forza di cose è sintetico, e tratta l’argomento riservando una particolare
attenzione al tema del libro, i rapporti personali tra il Papa ed il Granduca.
Stando così le cose ho potuto, consultando la bibliografia e controllando personalmente buona parte
dei documenti originali, sia nell’Archivio di Stato di Firenze che nell’Archivio Segreto Vaticano,
stendere un buon resoconto delle trattative che, rispetto ai precedenti lavori, gode di un apporto
superiore di fonti. Certo, mi sarebbe stato molto difficile abbandonare l’impostazione seguita dagli
autori che mi hanno preceduto, e non guardare alle trattative con un’attenzione di riguardo alla
posizione toscana rispetto a quella ecclesiastica. I documenti disponibili all’Archivio di Stato di
Firenze sono invero assai più numerosi. Questo è dovuto principalmente al fatto che le trattative si
svolsero quasi esclusivamente a Roma, quindi per forza di cose gli inviati toscani dovettero tenersi
in contatto con Firenze e ne è stata di conseguenza conservata la corrispondenza, mentre coloro che
seguivano le trattative per conto della Santa Sede, potevano comunicare a voce ai propri superiori lo
sviluppo dei negoziati. A mio avviso c’è però un altro fattore che vale la pena notare. La Santa Sede
aveva ben chiari gli obiettivi da perseguire; potevano esserci perplessità sul modo in cui condurre le
trattative, ma quanto al resto non era necessario chiedersi più di tanto cosa si voleva. Ben diversa
era però la situazione in Toscana, dove la volontà del Granduca differiva da quella di gran parte dei
suoi ministri, che a loro volta spesso non erano concordi fra di loro, e talvolta accadde che
cambiassero opinione. Inoltre, un cambio di governo o le dimissioni di un ministro ebbero sulla
politica ecclesiastica toscana conseguenze maggiori di quanto potesse avere sulle posizioni della
Santa Sede una successione alla Segreteria di Stato. Questo spiega il gran numero di memoriali e
pareri presenti presso l’Archivio di Stato di Firenze, assai maggiori di quelli presenti nell’Archivio
Segreto Vaticano.
Ad ogni modo i documenti dell’Archivio Vaticano mi hanno permesso di chiarire meglio alcune
questioni che Martina aveva dovuto trattare in maniera sintetica e sulle quali gli altri autori avevano
avuto una visione parziale. Un esempio in particolare è significativo. Solo Martina, fino ad adesso,
ha parlato, pur senza pubblicarlo integralmente, del protocollo Corboli-Boninsegni, la primissima
bozza di concordato, che precedette di alcuni giorni il protocollo Boninsegni-Vizzardelli, più
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ufficiale in quanto firmato dai due in qualità di Plenipotenziari. Il secondo protocollo, però, fu in
gran parte frutto delle precedenti trattative fra mons. Boninsegni e mons. Corboli Bussi, quindi
ometterlo sarebbe stata una lacuna piuttosto grave.
Spero quindi che questa tesi possa fornire alla storiografia un contributo, per quanto modesto, a
comprendere meglio gli avvenimenti e le trattative che portarono, nel corso di tre anni, alla
conclusione di questo concordato.
La tesi si articola in quattro capitoli. Nel primo si esaminano alcune questioni cruciali per
comprendere il resto del lavoro, in quanto viene illustrato il concetto giuridico di ‘concordato’ e
viene presentata per sommi capi la legislazione ecclesiastica in Toscana negli anni precedenti
all’avvio dei negoziati. Nel secondo viene esaminata la prima fase delle trattative, che coincise per
lo più con le due missioni a Roma di monsignor Boninsegni; tali trattative vennero però stroncate
dal precipitare degli eventi politici, che portarono tanto il Papa quanto il Granduca a rifugiarsi a
Gaeta. Nel terzo capitolo si tratta quindi dei negoziati che dopo il periodo di Gaeta, seppur in un
contesto e con motivazioni piuttosto diversi rispetto a prima, ripresero in breve. L’ultimo capitolo
parla della missione a Roma del Primo Ministro Baldasseroni, che condusse il 25 aprile del 1851,
alla firma del concordato.
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Capitolo I
Quadro storico-giuridico
1.1 Natura dell’atto
Quello che la storiografia ricorda come il ‘concordato’ del 1851 è un accordo firmato il 25 aprile
del 1851 dai plenipotenziari della Santa Sede e del Granducato di Toscana, ratificato nei giorni
seguenti dal Papa e dal Granduca. Il titolo del documento era: ‘Articoli concordati sopra alcune
materie interessanti la Chiesa e la religione’. Quella di non dare esplicitamente il nome di
‘concordato’ a tale atto fu una scelta precisa e cosciente.
Le materie sulle quali si era rivelato impossibile trovare un accordo erano numerose, e non erano
state menzionate nell’atto (per esempio non si affrontava l’importante tema dell’Exequatur). Del
resto anche il proemio dell’atto lascia intendere una natura provvisoria, laddove recita: “I quali
plenipotenziari incaricati a trattare li varii punti della detta legislazione relativi all’oggetto
cambiatisi li pieni poteri hanno frattanto convenuto negli Articoli qui appresso […]”
1
La volontà delle parti di concludere una convenzione relativa ai punti su cui si erano accordati,
unitamente al desiderio di non annunciare il fallimento di trattative che, seppur formalmente
segrete, erano ormai note, avevan comunque portato al documento del 1851.
Ora, preso atto del fatto che il termine ‘concordato’ era stato intenzionalmente evitato, e che l’intesa
aveva una natura provvisoria, potremmo chiederci se in questo contesto sia o meno corretto dal
punto di vista giuridico utilizzare il termine concordato. Questo è il termine generalmente utilizzato
dalla storiografia, ma ciò avviene a proposito? Per rispondere a questa domanda occorre
innanzitutto chiarire che cos’è un concordato.
Gaetano Catalano, scrivendo nell’Enciclopedia giuridica, dà una definizione di tale concetto:
1
Anton Maria Bettanini, Il concordato di Toscana, 25 aprile 1851, Milano 1933, pp 159-161.
9
“Diciamo subito come sia possibile adottare una duplice definizione di ‘concordato’. Il termine può
così essere adoperato in senso lato per indicare qualsiasi accordo diplomatico stipulato tra la
Santa Sede e uno Stato in relazione a materie (ecclesiastiche) di comune interesse. Può, invece,
essere usato con un significato più ristretto al fine di designare quelle convenzioni mediante le
quali viene regolata la condizione giuridica delle istituzioni ecclesiastiche nazionali, sì da dare vita
a quel sistema di rapporti che si denomina ‘concordatario’ (e che in via di principio si usa
contrapporre al c.d. ‘sistema separatistico’). Va però precisato che le parti interessate non sempre
ricorrono al termine di concordato per definire o intitolare un accordo generale, preferendo spesso
la denominazione di ‘convenzione’ (o nel latino di curia: ‘solemnis conventio’), o di ‘trattato’, o di
‘accordo’. Protocolli di modesta portata e con durata precaria vengono denominati ‘modus
vivendi’. Le distinzioni terminologiche hanno però un valore limitato essendo pacifico che le regole
e i principi applicabili restano invariati”.
2
Stando a quanto detto sopra, l’accordo del 1851 sarebbe davvero un concordato. Non del tutto
corretto sarebbe dire che instaurò un sistema concordatario, non perché in Toscana vigesse un
sistema separatistico, ma perché non portò a superare del tutto il giurisdizionalismo, cioè la
preminenza del potere politico sulle questioni religiose. Sicuramente però si trattò di un accordo
diplomatico avente come oggetto materie ecclesiastiche, quindi in tal senso rientrerebbe in pieno tra
gli atti elencati da Catalano, stando al quale inoltre non vi sarebbe da dare particolare importanza al
fatto che il documento non risponda al nome di concordato. Importanti per caratterizzare i
concordati sarebbero invece i requisiti di forma:
“Caratteristica degli accordi concordatari (nel nostro secolo e nel precedente) è quella di venire
stipulati con una prassi diplomatica identica a quella adoperata per le comuni relazioni pattizie
internazionali. Al periodo dei negoziati preliminari e informali fa così seguito la designazione dei
plenipotenziari, i quali […] provvedono a redigere il testo del relativo protocollo […]. I protocolli
sottoscritti vengono quindi sottoposti alla ratifica del Pontefice e a quella dei competenti organi
dello Stato; segue infine lo scambio delle ratifiche che rende operativo e vincolante l’accordo
[…]”
3
Anche da questo punto di vista, come vedremo meglio in seguito, l’accordo stipulato rispondeva a
tutti i requisiti ora ricordati. Il cardinale Antonelli e Baldasseroni, come si legge nel proemio, erano
stati nominati Plenipotenziari e, dopo la firma, l’atto ricevette la ratifica sia del Granduca che del
Pontefice.
Del resto anche la definizione di concordato elaborata da Pietro Agostino d’Avack ne
l’Enciclopedia del diritto indicherebbe quello del 1851 come un concordato:
2
Gaetano Catalano, Concordato Ecclesiastico, in Enciclopedia Giuridica, Vol. VII, Roma 1988, p. 3.
3
Ibidem.
10
“Si designa col nome tecnico di ‘concordato’ (conventio, pactum conventum, oncordatum) una
convenzione bilaterale stipulata fra la Santa Sede e uno Stato per regolare materie ecclesiastiche di
comune interesse, in virtù della quale i due contraenti, facendosi reciproche concessioni, si
obbligano, ciascuno per sua parte, ad assumere un dato atteggiamento e comportamento reciproco
e a emanare in specie determinate norme per la disciplina giuridica di quella porzione della Chiesa
Cattolica che vive e opera nell’ordinamento dello Stato contraente”.
4
Si potrebbe forse obiettare che queste sono definizioni contemporanee del termine, e che non
necessariamente quando l’atto venne concluso il termine fosse appropriato. Sta però di fatto che
anche facendo riferimento al Digesto Italiano del 1896 le conclusioni sarebbero le medesime.
Vittorio Emanuele Orlando, autore della voce ‘concordato’, scrive infatti al riguardo:
“Una nozione generale di Concordato, dando alla parola un senso larghissimo, suppone una
convenzione tra la Chiesa, rappresentata da un prelato, che ne abbia il diritto, da un lato, e il
Governo di uno Stato dall’altro lato, con lo scopo di regolare il diritto delle parti contraenti su
certi obiettivi di carattere religioso. Questi accordi han ricevuto nomi diversi, oltre quello di
concordata […] fra esse non corre alcuna rilevante differenza”.
5
La definizione di Orlando, che peraltro citerà quello del 1851 tra gli esempi di concordato, ci
conferma che, anche per gli uomini dell’800, il termine concordato poteva essere attribuito a
svariati tipi di accordi, indipendentemente dal nome imposto dai contraenti all’accordo medesimo.
Né il fatto che la definizione di Orlando sia stata stesa più di quarant’anni dopo rispetto al 1851 ci
deve far pensare che negli anni presi in esame non fosse valida, in quanto nelle note bibliografiche
egli indica come fonte di tale definizione un testo tedesco di Balve, del 1863.
6
Pare quindi che il termine concordato utilizzato dalla storiografia sia del tutto opportuno, e sarà di
conseguenza utilizzato anche in questa tesi. Fu sicuramente un concordato incompleto e concepito
come provvisorio e parziale, ma pur sempre un concordato.
1.2 Il giurisdizionalismo toscano: la legislazione leopoldina
Negli anni precedenti al 1851 il Granducato di Toscana era considerato come un esempio di stato
giurisdizionalista. Dalla seconda metà del diciottesimo secolo vigevano in Toscana numerose leggi,
emanate per lo più per volontà dell’allora Granduca Pietro Leopoldo (che aveva comunque seguito
4
Pietro Agostino d’Avack, Concordato Ecclesiastico, in Enciclopedia del diritto, Vol. VII, Varese 1961, p 441.
5
Vittorio Emanuele Orlando, Concordato (diritto ecclesiastico), in Il Digesto Italiano, Vol. VIII, parte prima, Torino
1896, pp. 322-340.
6
Ibidem.
11
una linea già tracciata da Francesco Stefano durante il periodo della reggenza), che disciplinavano
importanti settori della vita ecclesiastica. La predicazione, la facoltà di lasciare beni alla
manomorta, la possibilità di abbracciare la vita monastica, l’amministrazione dei beni ecclesiastici,
specialmente in caso di vacanza, erano alcune delle materie che in Toscana venivano in gran parte
gestite da leggi statali.
7
Fin dal 1735 operava in Toscana la Segreteria del Regio Diritto, istituita per salvaguardare
l’impianto giurisdizionalista. Nel 1743 era stata rimessa in vigore la norma tardo-medievale del
plaet e dell’exequatur per quanto concerneva la libertà di stampa. La funzione della censura, dal
XVI secolo di competenza esclusiva dell’autorità ecclesiastica, fu collocata fra le peculiarità di un
organismo secolare, la regia censura, nel quale laici si affiancavano agli ecclesiastici. Una circolare
del 1769 aveva esteso l’obbligo della conferma regia (regio exequatur) a qualunque ordine,
dispensa od avviso proveniente da un’autorità estera, inclusa la Santa Sede. In tal modo si sarebbero
limitati i rapporti tra le diocesi e la Curia Romana, e tra i conventi ed i Superiori Generali dei
rispettivi ordini. Inoltre tra il 1782 ed il 1784 Pietro Leopoldo era intervenuto contro il Sant’Uffizio
e la Nunziatura Apostolica: il primo era scomparso, la seconda aveva dapprima visto diminuire
assai sensibilmente le proprie competenze, per poi scomparire anch’essa.
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Il Granduca emanò diverse norme pure riguardanti il clero regolare, anche se non è chiaro quali
fossero i suoi intenti in proposito. Secondo Piero Barbini Pietro Leopoldo mirava alla
sopravvivenza del clero secolare, necessario per il mantenimento dell’organizzazione ecclesiastica,
mentre desiderava circoscrivere la diffusione del clero regolare, con l’esclusione di quello
impegnato in funzioni di utilità sociale. Differenti sono invece le tesi di Giacomo Martina, secondo
il quale la legislazione granducale nei confronti degli istituti religiosi avrebbe piuttosto mirato alla
nazionalizzazione di questi, come del resto dimostrava la natura di numerose delle norme emanate,
ad esempio la limitazione dell’ammissione di non toscani nei conventi, o il divieto del noviziato
all’estero.
9
Nel corso degli anni i vescovi del Granducato si erano trovati a rispondere al sovrano piuttosto che
alla Curia Romana, infatti a causa del massiccio ricorso all’exequatur molte materie fino ad allora
di esclusiva competenza ecclesiastica vennero avocate dal potere politico. Ad esempio furono
dichiarate nulle le pene temporali emesse dai tribunali vescovili che non avessero ricevuto la
7
Marco Pignotti, Potestà laica e religiosa autorità, il concordato del 1851 fra Granducato di Toscana e Santa Sede,
Roma 2007, pp. 5; 15.
8
Ibidem, pp. 15-20.
9
Piero Barbini, Problemi religiosi nella vita politico-culturale del risorgimento in Toscana, Torino 1961, pp 49-50;
Giacomo Martina, Pio IX e Leopoldo II, Roma 1967, pp. 36-36; entrambi i testi citati poi da Marco Pignotti, Potestà
laica e religiosa autorità, cit., pp. 20-21.
12
sanzione del sovrano, e fu stabilito che le nomine dei vicari generali necessitassero, dopo tre anni,
della conferma governativa.
10
Mario Rosa ha comunque avuto modo di sostenere che il giurisdizionalismo toscano fosse più
teorico che pratico. Infatti, nonostante le leggi emanate, gli enti ecclesiastici non si sarebbero mai
identificati con gli organi pubblici, e la Chiesa Cattolica in Toscana non avrebbe mai assunto i
caratteri di una Chiesa di Stato. Questo è in linea di massima vero, ma d’altro canto non dobbiamo
nemmeno dimenticare come la legislazione leopoldina sia stata seguita nel Granducato, almeno fino
al Concordato del 1851, e come questo in fondo non sia riuscito a scalfirla in maniera significativa.
Il controllo del potere politico sulla Chiesa Toscana era ampio, nonché profondamente in contrasto
con il diritto canonico e con i canoni tridentini.
11
Ovviamente nel corso degli anni vi furono delle modifiche a quest’impianto normativo, ad esempio
nel 1792, alla morte di Pietro Leopoldo, il figlio Ferdinando III attenuò il regime giurisdizionalista
accordando alcune concessioni al clero, assegnando per esempio ai parroci il privilegio rispetto al
foro e riconoscendo alle curie piena esclusività giurisdizionale in materia matrimoniale. Inoltre
riconobbe ai vescovi il diritto di esercitare determinate facoltà come concedere gli ordini minori
senza il placet, o esercitare la facoltà di censura preventiva per quanto riguardava le sole opere di
carattere teologico).
12
La situazione mutò nuovamente in seguito dell’occupazione della Toscana da parte delle truppe
napoleoniche. Dapprima venne creato il Regno dell’Etruria, il cui sovrano Lodovico I il 15 aprile
del 1802 emise un editto, che prevedeva il ritorno dell’obbedienza dei regolari ai Superiori
Generali, l’inalienabilità dei beni ecclesiastici, la libertà di stampa dei vescovi e la loro facoltà di
esercitare una censura preventiva su qualsiasi opera, l’autonomia amministrativa di monasteri,
conservatori e luoghi pii, il libero ricorso alla S. Sede “quanto alle Materie Spirituali e alle Dispense
Ecclesiastiche”.
13
Un ulteriore cambiamento si ebbe nel 1808, quando la Toscana fu incorporata dall’Impero
Francese. La convenzione del 1802 fu immediatamente abrogata, venne introdotta invece la
legislazione napoleonica, unitamente alle norme relative al clero gallicano; i beni dei conservatori
10
Pignotti, Potestà laica e religiosa autorità, cit., p. 22.
11
Ibidem, pp. 22-23; Mario Rosa, Giurisdizionalismo e riforma religiosa nella Toscana Leopoldina, in Riformatori e
ribelli nel ‘700 religioso italiano, Bari 1969 p. 167.
12
Pignotti, Potestà laica e religiosa autorità, cit., pp. 28-29.
13
Leggi del Regno di Etruria pubblicate in Firenze dal giorno 28 Luglio 1801 al giorno 13 Maggio 1803 raccolte per
ordine dei tempi, Firenze 1805; citato da Pignotti, Potestà laica e religiosa autorità, cit., p. 28; Gabriele Paolini, Il
Concordato Toscano del 1815 sugli ordini religiosi, Firenze 2006, p.2.
13
furono incamerati dallo Stato mentre gli ordini religiosi ed i conventi vennero soppressi, con
l’eccezione degli Scolopi, elevati ad insegnanti dell’Università Imperiale.
14
1.3 Il giurisdizionalismo toscano dopo l’esperienza Napoleonica, prime istanze di riforma
In occasione del Congresso di Vienna, quando fu deciso di ripristinare la dinastia lorense sul trono
del Granducato dopo la parentesi napoleonica, emerse con chiarezza la volontà tanto della Santa
Sede quanto dell’episcopato toscano di non veder restaurata la legislazione Leopoldina. A tal
proposito i vescovi toscani inviarono una supplica al Granduca, nella quale introducevano una serie
di richieste, con tali parole:
“Accogliete benignamente i voti che i vostri Arcivescovi e Vescovi […] qui vi esprimono: impedite
che alla loro ecclesiastica legittima giurisdizione si ripongano le antiche catene che li avvinsero;
sanzionate il trionfo della Religione negli Articoli che essi umilmente vi espongono, i quali altro
non sono che il linguaggio de’ Canoni, e specialmente del Concilio di Trento, alla cui osservanza
sono dirette le seguenti richieste per il bene della Chiesa”.
15
Il Granducato restaurato riconobbe alla Chiesa alcuni dei diritti venuti meno durante il regime
napoleonico, si adoperò per far riaprire diversi conventi, molti atti furono dispensati dall’obbligo
del placet e dell’exequatur. Ma, nonostante l’opposizione, le norme leopoldine tornarono in vigore
con decreto del primo maggio 1814. Il Sant’Uffizio e l’ordine dei Gesuiti non furono riammessi, ed
il tribunale della Nunziatura non venne ripristinato. Inoltre non venivano più riconosciute
l’esenzione dall’imposta fondiaria, l’asilo, e il privilegio riconosciuto al foro ecclesiastico risultava
fortemente circoscritto. Rimanevano in vigore le leggi sulla stampa e sulla manomorta, come anche
il Regio economato sopra i benefici vacanti, infine era confermato l’aumento delle congrue
parrocchiali stabilito dallo Stato.
16
La Chiesa non poté far altro che sottomettersi a tali decisioni, anche se l’episcopato toscano non
rinunciò ad inoltrare una nota di protesta al Granduca:
“La Chiesa in Toscana è tornata ad essere nuovamente in ceppi, ed i Vescovi vanno a risentire il
peso di una schiavitù in qualche parte più dolorosa che ai tempi di Napoleone”.
17
14
Ivo Biagianti, La soppressione dei conventi in età napoleonica, in La Toscana in età rivoluzionaria e napoleonica, a
cura di Ivan Tognarini, Napoli 1985, pp. 443-470 citato da Pignotti, Potestà laica e religiosa autorità, cit., p. 28.
15
ASF, Interno, b. 1941, ins. 920.
16
Pignotti, Potestà laica e religiosa autorità, cit., pp. 23; 29. Gabriele Paolini, Toscana e Santa Sede negli anni della
restaurazione (1814-1845,) Firenze 2006, p. 2.
17
Attribuzioni del Segretario del Regio diritto nel Granducato di Toscana, citato da Pignotti, Potestà laica e religiosa
autorità, cit., p. 23 e da Paolini, Toscana e Santa Sede negli anni della restaurazione, cit., p. 80.