2
Entro tale impostazione, l'assenza dell'introduzione si basa sulla costante presenza
del filo conduttore lungo tutta l'articolazione del discorso, cosicché se quella, da un canto,
non avrebbe certo condotto fuori strada, dall'altro sarebbe risultata superflua rispetto
all'economia del lavoro. Per lo stesso motivo, sarebbe risultato artificioso apporre la
conclusione, perché, se questa ha il compito di evidenziare i risultati, ciò avviene nel corso
dell'esposizione. Se poi l'introduzione serve a informare sullo status quaestionis in termini
generali, per quanto riguarda la tesi proprio la prima parte funge allora da ampia
introduzione e va a congiungersi, circolarmente, col paragrafo conclusivo, che ne riprende
i temi essenziali e li riconduce entro l'argomento portante.
L'ampio inciso su Suarez, inoltre, nel contesto corrisponde all'esigenza di rilevare un
punto di riferimento particolarmente significativo nella pur immensa erudizione che
caratterizza la formazione leibniziana. Nel tentativo di conciliare la tradizione con le nuove
esigenze scientifico-filosofiche, infatti, sotto certi aspetti per Leibniz il pensiero suareziano
costituisce un passaggio assai conforme ai propri intenti sincretici. Soprattutto egli coglie
da Suarez quell'esigenza di concretezza e insieme di rigore formale, che gli fa condividere
la stessa concezione del rapporto tra universale e particolare. Questo viene impostato
secondo una progressiva razionalizzazione dell'ente individuale che viene però mantenuto,
aristotelicamente, scisso ab origine dall'atto intenzionale vòlto a conoscerlo
universalmente. Da un canto dunque, rispetto all'immediatezza del noema aristotelico, il
giudizio diviene in Suarez e in Leibniz una funzione sempre più imprescindibile nella
determinazione del concetto, ma dall'altro esso continua a restare un atto
fondamentalmente distinto dall'oggetto giudicato. Ciò in Suarez finisce per determinare
una separazione tra piano concettuale e piano concreto che si traduce, ad esempio, nella
contrapposizione tra il concetto estremamente rarefatto dell'ente ut sic e l'infinita ricchezza
delle sue determinazioni. Oppure, si rivela nell'inconsaputa presupposizione dell'universale
rispetto alla sua stessa determinazione che viene fatta derivare dal confronto tra i
particolari concreti la cui conoscenza, dunque, dovrebbe precederlo; o, ancora, nella
distinzione tra la semplice apprensione meramente ideale e il giudizio vero e proprio che
ne valuta l'adeguazione rispetto all'esistente. In Leibniz questa stessa scissione
fondamentale tra universale e particolare, ossia tra pensiero ed essere, unita all'ideale
gnoseologico della loro coincidenza determina il suo stesso concetto di possibile nelle
diverse accezioni.
3
Specificamente, pur senza ravvisare discontinuità alcuna tra la Logica e la Metafisica
leibniziane, ho inteso il possibile che si determina a livello metafisico in diretta continuità
col possibile aristotelico e il possibile che si determina a livello logico in contrapposizione
con esso. Ciò, come ho detto, non comporta una scissione tra Logica e Metafisica, perché,
all'opposto, in Leibniz la concezione metafisica del possibile, pur distinguendosi da quella
logica, anziché opporvisi vuole esserne il fondamento. In tal senso, dunque, il concetto di
possibile in Leibniz presenta una certa continuità concettuale tra Metafisica e Logica e ,
insieme, un' accezione non univoca, assumendo nei due ambiti due significati diversi,
seppure imprescindibilmente connessi.
Infatti, la possibilità intesa come mera potenzialità degli infiniti mondi scissi
dall'esistenza, è punto cruciale della cosmogonia leibniziana, che deve togliere ogni
sospetto di spinozismo e insieme dare consistenza al confronto che determinerebbe
l'eccellenza dell'unico mondo creato. D'altro canto, però, nei suoi progetti di riforma e
potenziamento della Logica, nell'ideale eliminazione di ogni controversia mediante la
riduzione del ragionamento a calcolo, la possibilità meramente potenziale deve venire
controllata e sublimata in effettiva possibilità, in modo che, escludendo le alternative, si
imponga un unico modulo di interpretazione del reale. L'autorità di quest'ultimo, ossia la
sua valenza concreta, avrebbe per l'appunto radici metafisiche, consistendo proprio
nell'eccellenza, determinata in sede cosmogonica, del mondo da esso riflesso rispetto agli
altri che restano meramente possibili. Se, però, la sua determinazione ontologica deriva da
un meccanismo metafisico, questo, consistendo nel computo della massima quantità di
essenza, da un lato nel suo rapportare presuppone già come paradigma dell'ottimo quello
stesso sistema logico-ontologico che dovrebbe, invece, risultare da esso; e dall'altro
conferisce dignità reale agli stessi mondi mantenuti come meramente possibili,
considerandoli e valutandoli nel loro essere compiutamente determinato. In tal modo, la
Metafisica che dovrebbe fondare la Logica fondando le ragioni di quel reale di cui la
Logica stessa è proiezione conforme, è a sua volta impostata, in un rimando reciproco,
proprio in base a quella determinata Logica. Sullo sfondo, restano gli infiniti mondi
meramente possibili, perfettamente determinati quanto quello reale, eppure discriminati in
virtù del postulato che impone la Logica prescelta.
4
In sintesi, la presenza di infiniti mondi possibili nell'intelletto di Dio traduce e reifica
a livello cosmogonico, in una proiezione antropomorfica, l'incombenza del possibile che
caratterizza ogni ambito sistematico in quanto tale e insieme la sua rimozione.
A livello cosmogonico, dunque, permane la potenzialità aristotelica intesa come
provvisoria compresenza dei diversi, precedente la reale attuazione di uno soltanto tra essi,
mentre a livello logico vien fatta subentrare quella possibilità effettiva, che Aristotele
concepisce, oltre che per il possibile già in atto, per le cosiddette potenze arazionali, che
non possono attuarsi che in un senso. Comunque, il possibile non cessa di distinguersi dal
reale, mentre, là dove coincide con esso, ciò gli deriva soltanto da un'imposizione
artificiosa, che si limita a rimuovere oltre l'impianto gnoseologico prescelto, senza però
annullarle, alternative altrettanto coerenti dal punto di vista essenzialmente logico anziché
specificamente sistematico
.
5
I dwell in possibility –
A fairer House than Prose –
More numerous for windows –
Superior –for doors–
As Chambers as the Cedars –
Impregnable of Eye –
And for an Everlasting Roof
The Gambrels of the Sky –
Of Visiters –the fairest–
For occupation –This–
The spreading wide my narrow Hands
To gather Paradise.
Emily Dickinson, 1862
Io abito la possibilità –
Una casa più bella della prosa –
più ricca di finestre –
superbe – le sue porte
E’ fatta di stanze simili a cedri –
che lo sguardo non possiede –
Come tetto infinito
ha la volta del cielo –
La visitano ospiti squisiti –
La mia sola occupazione –
spalancare le mani sottili
per accogliervi il Paradiso.
Trad. di Barbara Lanati, Feltrinelli, Milano 1986
6
PRIMA PARTE: ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL CONCETTO DI POSSIBILE
I. SUL CONCETTO ARISTOTELICO DEL POSSIBILE
I.1 Il concetto di possibile nel De Interpretatione
Se si ritiene aristotelica la matrice del concetto di possibile in Leibniz, è dal De
Interpretatione che se ne evince la struttura là dove nell’ambito dell’enunciazione, che è
l’argomento precipuo, il possibile viene delineato con un proprio preciso statuto ontico.
Anzitutto, Aristotele analizza che cosa siano gli elementi costitutivi
dell’enunciazione, ossia il nome e il verbo. Posta la corrispondenza univoca tra le cose e le
affezioni di esse che si producono nell’anima, le espressioni vocali e le rispettive
trascrizioni ne sono i segni nell’ambito di un determinato contesto linguistico che è l’unica
variabile. Il nome e il verbo, dunque, come gli oggetti del pensiero di cui sono segno, si
pongono di qua dall’alternativa di vero e di falso che si presenta soltanto a un secondo
livello, quando ai concetti considerati per sé subentra la valutazione delle loro
combinazioni. “Il falso e il vero stanno nell’unione e nella separazione” dice Aristotele
1
,
l’unione consistendo nell’affermare un concetto di un altro mediante il verbo, e la
separazione nel negarlo
2
: è dunque il verbo essere a fungere da connettivo fondante il
giudizio stesso, ossia l’atto dell’enunciare, e fuori dal giudizio non si dà né verità, né
falsità. Si legge anche nelle Categorie:
Ciascuna delle cose che sono dette in sé e per sé non costituisce alcuna affermazione,
ma nella connessione di queste cose tra di loro che ha luogo l’affermazione. Infatti
sembra che ogni affermazione è o vera o falsa, ma delle cose che vengono dette
secondo nessuna connessione nessuna è né vera né falsa: ad esempio uomo, bianco,
corre, vince
3
.
Nello stesso ambito del De Interpretatione, però, permane implicito un altro aspetto della
verità come adeguazione del pensato al reale nell’unità dell’appercezione intellettuale, alla
quale la dualità del giudizio rimane estranea
4
.
1
De Interpr. 1, 16a 12 (tr. di E.Riondato, Padova, 1957, p.18).
2
Si veda De Interpr. 6, 17a 25-26.
3
Categ.
4, 2a 5-10 (tr. di M.Zanatta, Milano, 1989, p.305).
4
Si veda G.CALOGERO, I fondamenti della Logica aristotelica, Firenze, 1927, P.I, cap.II.
7
Anzi, soltanto quest’ultimo è il senso fondamentale del vero, e su di esso il giudizio stesso
basa la propria validità; quest’ultimo per Aristotele è effettivamente vero soltanto se
l’unione o la separazione dei concetti, mediante l’affermazione o la negazione, corrisponde
a ciò che di fatto è unito o separato nella realtà: “se infatti ogni affermazione è vera o
falsa, è anche necessario che ogni cosa realmente sussista o non sussista”
5
. L’appercezione
dell’oggetto, dunque, si traduce nell’immediata unità del concetto su cui può operare
discorsivamente il giudizio, sdoppiando quell’unità in soggetto e predicato e
ricomponendola in qualche modo se è vero. Aristotele non teorizza esplicitamente la
compresenza di questi due aspetti della verità e comunque in base al suo realismo egli non
può non intendere che come univoco e non problematico il loro rapporto. Essi invece non
si conciliano sempre tra loro, come si vedrà riguardo ai giudizi singolari in tempo futuro,
e lo stesso criterio dell’adeguazione tra il pensato e il reale resta solo supposto
nell’apparente esser dato e non posto del noema come contenuto di pensiero.
Aristotele distingue i giudizi in cui il verbo essere ha funzione esistenziale da quelli
in cui esso ha funzione copulativa
6
: è analizzando la struttura del giudizio esistenziale che
si evidenzia il carattere di giudizio già presente non consaputo nel noema stesso. Se infatti
l’espressione “uomo è” significa che il concetto di uomo corrisponde a un oggetto reale e
perciò non è concetto meramente fantastico, d’altro canto il giudizio di esistenza non
aggiunge nulla di diverso rispetto all’identità con sé del concetto di uomo. Dire “uomo è”
corrisponde ad affermare che “uomo è esistente”, ossia che il concetto di uomo è
effettivamente uguale a quell’oggetto reale che viene chiamato uomo: il giudizio “uomo è”
non fa altro che ribadire l’identità del concetto nell’oggetto. Resta che per ribadire questa
identità occorre averla già
posta; dunque, l’identità ribadita dal giudizio esistenziale è già esito di un giudizio
tautologicamente ponente l’identità come tale, e in quanto tautologico logicamente esso è
sempre vero. La posizione del noema nella sua identità si sottrae perciò alla dualità di
soggetto e predicato e all’alternativa di vero e di falso, ma è comunque una posizione e non
un dato, proprio come un giudizio e in quanto precisamente giudizio di identità.
5
De Interpr. 9, 18a 34-35 (tr.cit., p.35).
6
Si veda De Interpr. 10, 19b 15-22.
8
Certo Aristotele, pur distinguendo l’immediatezza della conoscenza intellettiva presente
nel noema dalla discorsività del giudizio, non risolve mai il darsi dell’oggetto nel porsi del
concetto e per lui il rapporto autentico tra pensato e reale è sempre di adeguazione del
primo al secondo. Ma anche se questa adeguazione non si riconduce entro l’atto che pone
l’identità del noema, comunque quest’ultima è mantenuta al di fuori dell’alternativa di vero
e di falso, ponentesi solamente con il suo sdoppiarsi in soggetto e predicato nel giudizio
stesso: soltanto allora per Aristotele il pensato si confronta col reale e misura la propria
verità rispetto a quello. Se l’identità del pensato in quanto tale non può non porsi che come
coincidenza di soggetto e predicato, in un giudizio in cui questa corrispondenza non sia più
totale e immediata essa può essere anche falsamente attribuita. A ogni affermazione si
oppone allora la rispettiva negazione contraddittoria e viceversa, e l’enunciazione deve
necessariamente confermare l’una o l’altra secondo il criterio della propria verità, che per
Aristotele fondamentalmente è l’adeguazione al reale. La compresenza nell’enunciazione
della affermazione e della negazione del medesimo predicato annullerebbe la significanza
del dire che è strutturalmente esclusione di uno degli opposti predicabili, secondo il
principio di non contraddizione ribadito infatti nel De Interpretatione
7
. Questo principio è a
sua volta completato da quello del terzo escluso, secondo il quale non c’è un termine
intermedio tra l’affermare e il negare, né tra il vero e il falso che sono l’esito della
corrispondenza o meno tra l’affermare e il negare e il loro riferimento reale
8
. Qualsiasi
giudizio deve dunque necessariamente rispondere al principio del terzo escluso, ma il
noema che è incontraddittorio e logicamente sempre vero non si sottopone a esso,
rimanendo estraneo all’alternativa di vero e di falso. Ciò vale anche nel caso in cui il
noema venga negato da un giudizio che sancisca la sua non esistenza, poiché la stessa
negazione riafferma, proprio per poterla negare, la medesima incontraddittoria identità
riposta nel concetto negato, che rimane logicamente sempre vera anche se realmente
negata. Questa affermazione implicita nella negazione rende del resto problematica
l’adeguazione al reale come criterio di validità del giudizio, poiché essa fonda la propria
verità su ciò che realmente non è, ma che intanto bisogna porre anche solo per negarlo. Se
dunque l’alternativa di vero e di falso è implicita nel giudizio, essa non corrisponde sul
piano ontologico alla dualità di essere e non essere, ma si traduce sul piano logico nella sua
pensabilità rispetto alla coerenza interna al pensiero stesso.
7
De Interpr. 6, 16a 33-38.
8
Si veda Metaph. IV 7, 1011b 23-27.
9
Anche Aristotele, se all’inizio del ventinovesimo capitolo del libro quinto della Metafisica
ritiene il vero e il falso come proprietà delle cose, subito dopo li considera come caratteri
del pensiero, senza però risolvere la validità del discorso in mera correttezza interna al
ragionamento. Per Aristotele il noema è sì un concetto anteriore all’alternativa di vero e di
falso, ma è pur sempre solo un concetto che soltanto un giudizio può rapportare al reale:
E infatti ircocervo significa qualcosa, ma non è ancora vero o falso se non si
aggiunge il verbo essere o non essere, o senza alcuna determinazione, o con una
determinazione temporale
9
.
Senonché il nome “ircocervo” è segno linguistico di una precisa identità che esso pone
significandola, e un successivo giudizio che neghi quest’ultima non la annulla una volta
evocatala, ma la rimuove soltanto dal sistema di certezze più o meno ferme che va a
costituire il cosiddetto reale. Anche affermando correttamente che l’ircocervo non esiste,
comunque non lo si elimina, poiché si riafferma col negarla quella medesima identità, per
toglierla e nonostante il toglierla. Negare che l’ircocervo sia è ancora affermare
l’“ircocervo-che-non-è”, poiché questo si determina comunque come identità rispetto a
tutto ciò che non è ircocervo. Dire “A” è già estromettere da quel significato tutto ciò che è
“non-A”, in quanto altro indefinitamente da ciò che è stato posto identico a sé. Non
occorre che il rimanente, l’altro da sé, sia definito al suo interno: basta il suo essere
esterno all’identico a connotarlo. Dice lo stesso Aristotele: “non chiamo nome non-uomo,
ma nome indefinito; in realtà l’indefinito significa in qualche modo una sola cosa”
10
. Se in
qualche modo esso è una cosa sola all’esterno, d’altro canto non lo è al suo interno che è
molteplice; ma questo diversificarsi interno alla differenza non concerne affatto la
determinazione dell’identico rispetto al quale è differenza. Il giudizio che nega l’esistenza
di una identità si limita a rimuoverla, ponendola in un ambito diverso da ciò che intanto è
pensato come esistente. Dunque nominare è determinare un’identità rispetto all’insieme di
tutti gli altri significabili, è circoscrivere distinguendo l’identico dal diverso. Senza questa
distinzione non vi sarebbe neppure l’identità, essendo questa soltanto rispetto al suo
escluso; ma perché questa distinzione si dia occorre un giudizio che la ponga ponendo
l’identità stessa.
9
De Interpr. 1, 16a 16-17 (tr.cit., p.19).
10
De Interpr. 10, 19b 8-9 (tr.cit., p.41).
10
L’unica necessità assoluta è l’attività del pensiero che pone il proprio contenuto
delimitandolo; quest’ultimo a sua volta ha in sé l’immediata necessità formale consistente
nella propria coerenza interna, ma questa è pur sempre successiva e dipendente da quella
posizione. Il noema è dunque incontraddittorio e al di fuori dell’alternativa di vero e di
falso, vero nella sua identità con sé, ma non assolutamente necessario; la necessità del
principio di non contraddizione è imprescindibile e impone di rispettare l’identità del
noema quando sia posta, ma a sua volta non impone necessariamente di porla. Il noema è
dunque semplicemente reale nella sua attualità di pensato, e le varie modalità
di necessario e di possibile, con quelle a queste connesse, si presentano soltanto a livello
del giudizio inteso come adeguazione alla realtà oggettiva.
Aristotele tratta ampiamente del possibile nel nono capitolo del De Interpretatione,
là dove considera le enunciazioni con soggetto singolare e verbo al futuro. Proprio la
proiezione del noema nel tempo, infatti, comporta rispetto alla sua semplice attualità di
pensato, modi diversi di porlo da parte dello stesso soggetto pensante, nel momento in cui
lo confronta con ciò che intanto ritiene esistente.
Aristotele osserva come la verità di questo tipo di
enunciazione porti, in virtù del criterio dell’adeguazione al reale per il quale
l’enunciazione vera deve avere il suo corrispondente nelle cose, alla rigida
predeterminazione di tutto ciò che accadrà. Se è vero affermare che una certa cosa sarà in
un certo modo, ciò sarà sempre vero, anche prima che la cosa accada effettivamente,
dunque questa non può non accadere necessariamente, e lo stesso vale per la negazione:
Se una cosa ora bianca, era vero dire prima che sarebbe stata bianca, cosicché di
qualunque cosa di quelle che divengono ora era sempre vero dire che sarebbe
stata; e se era sempre vero dire che sarebbe stata, non è possibile che questa cosa
non fosse e neppure che non fosse stata. Ma ciò che non è possibile che non
avvenga, è impossibile che non avvenga; e ciò che è impossibile che non avvenga, è
necessario che avvenga: quindi tutte le cose che sarebbero state è necessario che
siano avvenute. Perciò nulla sarà indeterminatamente o fortuitamente; infatti se fosse
fortuitamente non sarebbe di necessità
11
.
Mentre vuole negare che la verità dei giudizi intorno ai concetti singolari si possa
estendere nel tempo evidenziando per assurdo le conseguenze di una tale impostazione,
Aristotele rivela la natura della necessità intesa come moltiplicabilità del giudizio senza
alterazione nel tempo.
11
De Interpr. 9, 18b 9-16 (tr.cit., pp.36-37).
11
Il giudizio è ritenuto necessario o possibile dal soggetto che lo pensa, a seconda dello
spazio che concede alla pensabilità nel tempo di soluzioni alternative per quanto lo
concerne. Alla certezza del necessario, ritenuto indubitabilmente estensibile oltre l’atto
che lo pone, corrisponde la sicurezza dell’esclusione: nella necessità è implicita
l’impossibilità dell’opposto. Così l’impossibile è sempre falso, mentre il falso non è
sempre impossibile poiché il suo opposto, ritenuto vero in un certo momento, non è in
grado di imporre nel tempo la propria verità, ossia non è necessario ma soltanto possibile
12
.
La necessità non va dunque intesa come stato delle cose espresso da un giudizio, ma
come estensione del contenuto del giudizio oltre la propria attualità, e dunque si riduce
fondamentalmente a quest’ultima. La necessità attribuita al giudizio non si impone di per
sé come la necessità immediata dei supremi principi logici, ma viene inderogabilmente
imposta. Lo stesso Aristotele distingue la necessità immediata di quei principi, insiti nella
realtà attuale del dato di fatto, dalla necessità pensata nel tempo:
E’ necessario dunque che ciò che è sia quando è, e che ciò che non è non sia quando
non è; ma invece non è necessario che tutto ciò che è sia, e che tutto ciò che non è
non sia. Infatti non è la stessa cosa che tutto ciò che è sia di necessità quando è, e
che sia assolutamente di necessità. Lo stesso si può dire anche per ciò che non è
13
.
Se il necessario è ritenuto estensibile per sempre oltre l’atto che lo pone, il possibile non
viene invece proiettato con altrettanta sicurezza, cosicché esso lascia spazio anche al suo
opposto ugualmente pensabile. Per Aristotele, però, fondamentalmente il possibile non è
esito di una mera incertezza conoscitiva, ma oggettivamente esso corrisponde
all’indeterminatezza delle cose: è uno stato ben preciso della realtà a cui il giudizio deve
adeguarsi rispecchiandone la contingenza, anche in deroga alle proprie regole. Infatti,
affinché la verità del giudizio singolare non vincoli a sé la realtà futura, questo tipo di
enunciazione non rispetta il principio del terzo escluso che imporrebbe di elidere uno
degli opposti predicabili non appena si esprime l’altro.
Aristotele aggiunge che non si può neppure dire, per aggirare l’ostacolo, che
nessuno dei due opposti sia vero, perché ciò comporterebbe sul piano logico il caso
assurdo di un’affermazione falsa la cui negazione non sia vera, o di una negazione falsa la
cui affermazione non sia vera. Sul piano reale, inoltre, se una cosa non sarà né vera né
falsa, neppure esisterà effettivamente
14
.
12
Si veda Metaph. V 12, 1019b 23-33.
13
De Interpr. 9, 19a 23-27 (tr.cit., p.40).
14
Si veda De Interpr. 9, 18b 17-25.
12
Tutte queste conseguenze sono assurde per Aristotele, perciò è necessario che la
realtà delle cose non sia necessaria, dal momento che si può sempre constatare che le cose
future dipendono dalle scelte e dalle azioni libere degli uomini, e che nelle cose che non
sono sempre in atto c’è la potenza di essere e di non essere, quindi anche di divenire e di
non divenire, come un mantello che ha la possibilità
di venire tagliato oppure no
15
. In base a tutto ciò Aristotele conclude che
...E’ evidente che non tutte le cose sono e divengono necessariamente, ma alcune
sono e divengono indeterminatamente e allora non è per nulla più vera la
affermazione o la negazione; altre sono o divengono maggiormente e per lo più in
un senso, ma tuttavia capita che avvengano anche nell’altro senso, e allora non
avvengono nel primo senso
16
.
Il continuo richiamo allo stato delle cose a fondamento del giudizio, però, implica un
concetto problematico del possibile inteso non come mero carattere attribuito al pensato,
ma anche come stato effettivo. Così il possibile sarebbe un grado della realtà che per
definizione non è ancora reale, mentre per uscire dall’aporia occorrerebbe volgere il
possibile da potenza di essere a impotenza di conoscere. Né può soccorrere questa
impotenza la necessità assoluta del principio di non contraddizione che, per quanto
insopprimibile formalmente, non trasferisce la propria necessità assoluta al contenuto
del pensiero, come riconosce lo stesso Aristotele:
Anche per la contraddizione vale lo stesso discorso: è necessario che ogni cosa sia o
non sia, come pure che avvenga in futuro o no; ma tuttavia non è possibile dire
quale dei due preso separatamente sia necessario. Dico per esempio:
necessariamente domani vi sarà o non vi sarà una battaglia navale, ma non è
necessario che domani avvenga una battaglia navale, oppure è necessario che non
avvenga; piuttosto è necessario che avvenga o non avvenga
17
.
La possibilità consiste dunque nella compresenza degli opposti contraddittori senza che
sia necessario l’uno o l’altro dei due, perché altrimenti ci sarebbe anche la connessa
esclusione dell’opposto, ma intendendo come necessario lo stesso mantenimento di
entrambi. In base a ciò se la possibilità fosse realisticamente uno stato delle cose, l’esser
necessario del possibile non si spiegherebbe che come aporetico ossimoro. Né questo
definire necessario il possibile rientra nel metalinguaggio, poiché usa le medesime
modalità che dovrebbe descrivere.
15
Si veda De Interpr. 9, 19a 7-16.
16
De Interpr. 9, 19a 18-22 (tr.cit., p.39).
17
De Interpr. 9, 19a 27-32 (tr.cit., p.40).
13
Se invece non si intende il possibile come stato delle cose, ma come corrispondente
al pensiero dell’indeterminatezza del pensato che il pensante ritiene non possa venire
meno, allora quell’ossimoro cessa di essere aporetico. In quest’altro senso, infatti, il
possibile è necessario non semplicemente “poiché i discorsi sono veri conformemente alle
cose”
18
, ma perché questi sono veri conformemente alle cose stabilite dal soggetto che le
pensa non sempre ritenendo di poterle stabilire con certezza (di qui la possibilità), e
cosciente di non poter mai eliminare totalmente questa carenza conoscitiva (di qui la
necessità). La necessità della possibilità non è altro che l’ineliminabile incertezza
conoscitiva insita in tutto ciò che è pensabile.
Che le modalità del possibile e del necessario, insieme a quelle connesse di
impossibile e di contingente, non siano status oggettivi ma applicazioni logiche, lo si
deduce indirettamente anche da come lo stesso Aristotele ritiene si debba porre la
negazione di una enunciazione modale. Egli osserva che, se si rispetta l’analogia con le
enunciazioni assertorie, la negazione contraddittoria dovrebbe esser posta dinnanzi al
verbo essere anche nelle enunciazioni modali. Ma allora la negazione di quel verbo non
porterebbe a due enunciazioni opposte, giacché “possibile che sia” e “possibile che non
sia” lungi dall’essere contraddittorie, denotano proprio quella compresenza di positivo e
negativo che è la caratteristica del possibile stesso, perciò
entrambe sono contemporaneamente vere. Poiché però non possono essere
contemporaneamente vere due enunciazioni autenticamente contraddittorie tra loro, non
resta che ritenere enunciazioni opposte “possibile che sia” e “non possibileche sia”. Lo
stesso vale per le altre modalità
19
.
Infatti come in quelle enunciazioni essere e non essere sono aggiunzioni e le cose
soggetto sono bianco e uomo, così qui avviene che che sia fa da soggetto,e potere e
essere contingente sono aggiunzioni; aggiunzioni che come in quelle essere e non
essere distinguono il vero, così queste per quanto riguarda l’essere possibile e
l’essere non possibile
20
.
Dunque, la modalità corrisponde al verbo e non al nome che fa da soggetto
nell’enunciazione. Mentre il nome significa la posizione di una precisa identità, il verbo è
l’elemento che ne esplicita la ricomposizione nel giudizio se in forma affermativa, oppure
la separazione da ciò che gli è estraneo se in forma negativa.
18
De Interpr. 9, 19a 33 (ibidem).
19
Si veda De Interpr. 12, 21a 34-b 26.
20
De Interpr. 12, 21b 27-32 (tr.cit., p.54).