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normalmente a che fare con grandezze illimitate o tendenti all’infinito. Nonostante
la riflessione e l’utilizzo dell’infinito siano cominciati sin dai suoi albori, la
matematica è riuscita a dare una risposta chiara e definitiva alla domanda “che
cosa è l’infinito matematico?” solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento
grazie alla nascita della teoria degli insiemi e all’opera dei suoi fondatori: Richard
Dedekind (1831-1916) e soprattutto Georg Cantor (1845-1918).
Il primo capitolo intende mostrare, attraverso un percorso storico che isoli
alcuni nuclei concettuali senza la pretesa di essere esaustivo, come la teoria degli
insiemi (non a caso spesso chiamata scienza dell’infinito) servendosi del rigore
matematico sia arrivata a stravolgere il concetto di infinito fino a rovesciarne la
nostra nozione intuitiva millenaria: si parte dalla definizione di infinito come mera
negazione del finito, filosoficamente traducibile in una concezione potenziale
dell’infinito che ne nega realtà e lo vede con diffidenza come causa di errori. Tale
concezione è dovuta ai paradossi in cui si imbatterono matematici e filosofi sia
dell’antica Grecia sia dell’epoca moderna. Nell’800 invece Dedekind e Cantor
compresero che i paradossi moderni, lungi dall’essere delle assurdità,
evidenziavano la differenza tra finito e infinito, e li trasformarono in una nuova e
rivoluzionaria definizione di infinito che permise di concepirlo in atto e di
conferirgli una valenza positiva.
Nel secondo capitolo ci muoveremo all’interno della teoria assiomatica degli
insiemi per illustrare una delle scoperte più sconvolgenti della storia della
matematica, dovuta a Cantor: l’esistenza di infinti di grandezza diversa, che
possono disporsi secondo una gerarchia crescente senza mai raggiungere un
massimo, un infinito assoluto più grande di tutti gli altri. Il risultato appare ancora
più sorprendente se si considera che in molti casi due insiemi di cui uno sembra
essere molto più “grosso” dell’altro sono in realtà dello stesso tipo di infinità.
L’ultimo capitolo, più tecnico, mostrerà da un lato come nella teoria assiomatica
degli insiemi per poter avere degli insiemi infiniti si deve postularne l’esistenza
(più precisamente si tratta di mostrare che l’assioma dell’infinito è indipendente
dagli altri assiomi) dall’altro come solo l’infinito permetta di dimostrare alcune
proprietà che riguardano esclusivamente il finito.
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“Da tempo immemorabile l’infinito ha suscitato le passioni umane più di ogni altra
questione. E’ difficile trovare un’idea che abbia stimolato la mente in modo altrettanto
fruttuoso, tuttavia nessun altro concetto ha più bisogno di chiarificazione.”
David Hilbert
CAPITOLO 1:
INTRODUZIONE STORICO-FILOSOFICA AL CONCETTO
DI INFINITO MATEMATICO
Nel primo paragrafo di questo capitolo vedremo la definizione “in negativo” di
infinito matematico: un insieme è infinito se “non è finito”, se non ha esattamente
n elementi per nessun numero intero n. Definire l’infinito come negazione del
finito da un lato risponde meglio alla nostra intuizione, dall’altro è una posizione
gravida di conseguenze filosofiche: il finito rappresenta il positivo, il dato
esistente da cui partire, mentre l’infinito non sembra avere una sua realtà
autonoma. Ciò concorda perfettamente con una concezione che riconosce
legittimità solo all’infinito potenziale (una grandezza finita accrescibile o
divisibile indefinitamente), rifiutando di pensare l’infinito come una totalità
compiuta, in atto. Inoltre caratterizzare l’infinto come “non-finito” dà
implicitamente l’idea che l’infinito sia di un solo tipo, ciò che sta al di là del
finito, senza distinzioni al suo interno.
Nel secondo e terzo paragrafo esamineremo in che modo matematici e filosofi
dell’antica Grecia (pitagorici ed eleatici) scoprirono l’infinito matematico: ciò
avvenne attraverso dei paradossi (l’incommensurabilità del lato con la diagonale
del quadrato ed Achille e la Tartaruga) che avrebbero portato la matematica
moderna a nuove scoperte (rispettivamente, l’esistenza di numeri irrazionali e la
convergenza delle serie infinite) ma che al tempo sconvolsero le concezioni
filosofiche provocando il rifiuto dell’infinito in atto, la conseguente concezione
negativa dell’infinito e un generale atteggiamento di diffidenza nei suoi confronti
perdurato in matematica fino alla metà dell’Ottocento.
In epoca medievale e moderna l’infinito matematico era ancora visto come fonte
di errori e di paradossi, in particolare violava l’assioma euclideo secondo cui il
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tutto deve essere maggiore della parte (quarto paragrafo). Soltanto nella seconda
metà del XIX secolo i matematici Dedekind e Cantor, fondando la teoria degli
insiemi e servendosi della nozione di equipotenza per “contare” gli elementi di un
insieme arbitrario (finito o infinito), distinsero fra i concetti di “identità” e di
“uguaglianza” e compresero come l’“assurdità” emersa nei paradossi secondo cui
un insieme infinito ha tanti elementi quanti una sua parte propria fosse in realtà
una nuova definizione (non contraddittoria per quanto controintuitiva) di infinito,
equivalente a quella precedente ma che consentiva un approccio filosofico
totalmente diverso, ribaltando una concezione millenaria: l’infinito può essere
concepito in atto anche in matematica, acquista una valenza positiva, mentre il
finito è ora definito in maniera negativa come “non-infinito” (quinto paragrafo).
L’“errore” nei paradossi sta solo nel pensare che ciò che vale per il finito (come
l’assioma euclideo) debba verificarsi anche nell’infinito.
1.1 La definizione in negativo di infinito. Infinito in potenza e in atto.
L’idea intuitiva di infinito è quella di mera negazione del finito, come rivela
l’etimologia del termine (dal latino in + finitus). Un insieme di oggetti è finito se
ha esattamente n elementi per qualche numero naturale n, cioè gli elementi
dell’insieme possono essere contati uno a uno e tale processo ha termine
1
. Un
insieme infinito è un insieme non finito, per cui non esiste un numero naturale
uguale al numero degli elementi dell’insieme. Se pure si prova a contare il numero
degli elementi dell’insieme, il processo non avrà fine (ammesso che
l’enumerazione portata avanti indefinitamente possa ricoprire tutti gli elementi:
vedremo che anche questo è problematico): potremo contarne un numero finito
arbitrariamente grande senza mai raggiungere un limite al di là del quale non ci
siano altri elementi che non abbiamo ancora contato. In altre parole, dato un
1
Contare gli elementi di un insieme significa associare a ciascun elemento dell’insieme uno e
uno solo numero naturale, in ordine crescente partendo da 0, senza salti (se un elemento è
associato a 3 e un altro a 5, allora deve esserci anche un elemento associato a 4) e senza ripetizioni
(due elementi distinti non possono essere associati allo stesso numero). Se l’insieme è finito, il
numero naturale più uno associato all’ultimo di questi elementi rappresenta il numero degli
elementi dell’insieme.
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qualsiasi numero naturale n, in un insieme infinito è sempre possibile raccogliere
un numero finito di elementi maggiore di n, ad esempio n+1; e poi, dati n+1
elementi, se ne può sempre aggiungere un altro, e così via.
I numeri naturali possono essere definiti per induzione in questa maniera: 0 = Ø
(l’insieme vuoto, ossia privo di elementi), n + 1 = {0,1,…,n} (l’insieme dei suoi
predecessori), per cui ogni numero naturale m possiede esattamente m elementi.
Due insiemi si dicono equipotenti se sono in corrispondenza biunivoca
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: a ogni
elemento del primo insieme corrisponde uno e uno solo elemento del secondo
insieme e viceversa: nel primo insieme ci sono tanti elementi quanti nel secondo.
Intuitivamente, almeno nel caso finito (vedremo in seguito come si può estendere
la nozione di numero di elementi di un insieme al caso infinito), due insiemi
equipotenti hanno lo stesso numero di elementi. In altre parole, contare gli
elementi di un insieme finito significa trovare un numero naturale equipotente
all’insieme. Si possono quindi riformulare le definizioni intuitive di prima in
questo modo: un insieme è finito se esiste un numero naturale equipotente a esso
(cioè pari al numero dei suoi elementi), mentre un insieme è infinito se nessun
numero naturale è equipotente a esso (cioè se nessun numero intero è uguale al
numero degli elementi dell’insieme)
3
.
Definire l’infinito a partire dal finito, appunto come la negazione del finito, ha
due conseguenze implicite:
1) L’infinito è di un unico tipo, di un solo “ordine di grandezza”, in quanto è
caratterizzato dal semplice essere “non-finito”, dal non essere equipotente
ad alcun numero naturale, che di fatto porta a identificarlo con il limite
della successione dei numeri finiti. Ciò fa passare in secondo piano il fatto
che ci possano essere ulteriori distinzioni all’interno dell’infinito, ossia
diversi gradi di “non-finito”.
2) Il finito rappresenta il positivo, il “costruttivo”: l’idea è quella di esibire un
numero naturale uguale al numero dei suoi elementi che sono già tutti dati,
2
Una funzione biiettiva (o invertibile) f da un insieme M a un insieme N è una funzione iniettiva
(f(m) = f(n) in N implica m = n in M) e suriettiva (per ogni n ∈ N esiste un m ∈ M tale che n =
f(m)). Si dice che una tale funzione f è una corrispondenza biunivoca fra M e N: a ogni m ∈ M
corrisponde tramite f un unico n ∈ N e viceversa, a ogni n ∈ N corrisponde tramite f
-1
(la
funzione inversa di f) un unico m ∈ M.
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In formule: un insieme x è finito se ∃ n (n∈N ∧ x ~ n), è infinito se ∀n (n∈N → ¬(x ~ n)).
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basta contarli. Il finito esiste come totalità completa, è il dato originario da
cui partire. L’infinito invece è un concetto negativo, derivato dal finito per
contrapposizione. La definizione in negativo di infinito non è “costruttiva”,
c’è un quantificatore universale che stabilisce la descrizione di una
impossibilità: di stabilire una equipotenza con nessuno dei numeri naturali.
Per qualsiasi tentativo di enumerazione finita degli elementi di un insieme
infinito, è sempre possibile trovare un suo elemento che non rientri in essa.
Ciò suggerisce l’idea di un infinito determinabile solo in potenza, la cui
esistenza è solo in divenire.
Questa seconda osservazione porta a distinguere due modi contrapposti di
concepire l’infinito: in potenza e in atto, o, secondo la terminologia dei logici
medievali, sincategorematico e categorematico. Il primo (quantocunque finito
majus, maggiore di ciascun finito) è il finito che può crescere oltre misura: data
una quantità finita, comunque grande, esiste una quantità finita ancora più grande.
Il secondo (majus quantocunque finito, maggiore di tutti i finiti) è oltre ogni
misura, è qualcosa di più grande di qualsiasi grandezza finita.
L’infinito potenziale (che Hegel chiamava la “cattiva” o “falsa infinità”) è dunque
una quantità finita variabile che può aumentare al di là di ogni limite prefissato, è
una sequenza finita di elementi prolungabile o reiterabile indefinitamente, in cui
cioè è possibile procedere sempre oltre, senza che ci sia un elemento ultimo. Si
tratta di un’entità non completabile e in divenire, un processo inesauribile che si
svolge nel finito ma senza terminare va avanti all’infinito. La sua manifestazione
tipica è una successione discreta riconducibile alla ripetizione senza fine del “più
un altro”: ad esempio, la successione crescente dei numeri naturali che è
potenzialmente infinita perché fissato comunque un numero naturale è sempre
possibile determinare un numero naturale maggiore di esso (basta prendere il suo
successore cioè aggiungere uno). L’infinito così ottenuto per aggiunzioni
susseguenti (designato da Kant come progressus in indefinitum) è un illimitato
che non ammette limitazione se non quella provvisoria che gli può essere
assegnata ad ogni suo passo, prima di procedere al passo successivo. Un altro tipo
di infinito in potenza è quello che Kant chiama progressus o regressus in
infinitum, un infinito per successive divisioni che è interamente contenuto in una