4
Non è così.
Questo stato di allarmismo si è amplificato dopo l’attacco terroristico
agli Stati Uniti d’America l’11 settembre 2001.
Questo fatto ha avuto un impatto emotivo fortissimo sull’opinione
pubblica, tanto che sembra che il nuovo millennio sia caratterizzato
dalla necessità di combattere l’invasore islamico. Da quel giorno la
“fobia da islamico” ha colpito l’Occidente, come se tutti coloro che
l’Occidente ha giudicato islamici, o peggio, musulmani, fossero fermi
seguaci di Bin Laden. E’ ormai pensiero comune dell’opinione pubblica
che il mondo è diviso in due blocchi: l’Occidente e l’Islam.
Contemporaneamente a tutto ciò, si sente parlare di necessità di dialogo
con l’interlocutore sordo; i conflitti etnici attraversano il mondo dal
momento in cui una persona valica il limite all’interno del quale è
contenuta la sua cultura.
Come si può notare c’è una forte contraddizione tra il concetto di globale
e la visione del mondo come un puzzle, formato da tante etnie, razze,
popoli distinti che vivono ognuno in un pezzetto di terra. La
contraddizione nasce dall’uso malsano di tanti concetti, a partire da
quello di cultura, arrivando a quello di etnia, passando attraverso la
ricerca delle origini. La globalizzazione che ci viene mostrata come utile
è quella dei mercati, della circolazione delle informazioni, ma dal
momento in cui significa ammettere la coesistenza di più culture non è
più inneggiata. A questo punto si devono trovare delle strade possibili
come il dialogo interreligioso, il multiculturalismo, l’interculturalismo, e
la figura del mediatore culturale. Tutto però deve rimanere oscurato da
un velo di mistero che non faccia trapelare la realtà, che dietro ai conflitti
etnici non sono in ballo solo rivendicazioni di una cultura autentica ma
5
interessi politici. Anche se la vera guerra che l’occidente sta affrontando
è quella per il petrolio, la politica la maschera dietro a parole come
“esportazione della democrazia”, “abbattimento di un regime
oppressivo”(vedi le guerre in Iraq e in Afghanistan) senza considerare
che una grossa potenza economica come la Cina non è stata attaccata per
il tipo di situazione politica presente che non è certo democratica.
Comunque, tornando al nodo centrale della questione, bisogna mettere in
luce come sia facile generare un allarmismo così diffuso e dilagante
piuttosto che la convinzione che un mondo migliore e la convivenza
pacifica sia possibile. I mass media per fare notizia hanno bisogno di
qualcosa che sia shockante, che rimanga impresso nella mente e negli
occhi di chi guarda e per questo si vedono razzie, stermini e stupri
compiuti da una popolazione ai danni dell’altra, rivendicando la
superiorità etnica. Impersonificare il ladro, l’assassino, lo stupratore e la
vittima come appartenenti a due primordiali culture serve a rinvigorire la
paura dell’altro.
Etichettare l’altro serve alla comunità autoctona ad identificarsi sempre
di più secondo una differenziazione noi/loro.
Definire se stessi e l’appartenenza ad una comunità è di importanza
fondamentale sociologica oltre che politica ;inoltre insegnare alle nuove
generazioni le norme sociali, i comportamenti e i valori condivisi della
società è una delle prime forme di educazione. E’ quindi importante
definire se stessi e gli altri, ma va fatto all’interno di una logica di
identificazione e non di esclusione.
Dare per scontata la differenza noi/loro significa porre l’accento su un
elemento che creerà il conflitto nel momento in cui si incontrerà l’altro;
le proposte educative contemporanee cercano invece di sfruttare la
6
diversità come risorsa ma ancora una volta si pone il solito problema: chi
l’ha detto che siamo diversi? Chi l’ha detto per esempio che ebrei e
palestinesi non potranno mai vivere insieme? Eppure l’idea comune è
l’esatto contrario, avvalorata dalle giornaliere notizie di stragi e
bombardamenti. Ma a fronte di tutto ciò esiste un progetto, e non è
l’unico, di convivenza pacifica: Nevè Shalom.
“Nevé Shalom – Wahat as-Salam“ - "Oasi di Pace" in Ebraico e Arabo -
é un villaggio cooperativo abitato e creato congiuntamente per Ebrei e
Arabi palestinesi, tutti cittadini di Israele. I membri del villaggio sono
impegnati nel lavoro di educazione per la pace, l’uguaglianza e la
comprensione fra le due popolazioni. E’ situato su una collina ai bordi
della valle di Ayalon, ad una uguale distanza da Gerusalemme (30 Km) e
da Tel Aviv-Jaffa. Il villaggio comprende oggi 50 famiglie, è nato da un
progetto che vuole dimostrare che è possibile la coesistenza pacifica tra
ebrei e palestinesi; tale possibilità è espressa praticamente nelle attività
svolte all’interno del villaggio.
L’idea di base è che l’educazione al rispetto reciproco deve cominciare
prima possibile; per questo all’interno della scuola gli insegnanti ebrei e
palestinesi fanno lezione ognuno nella propria lingua ma si rivolgono a
tutti gli scolari. I bambini prendono coscienza della propria cultura e
delle proprie tradizioni e allo stesso tempo imparano la lingua e la
cultura dei propri compagni.
Sono inoltre presenti un centro spirituale pluralistico per una riflessione
sui problemi che colpiscono il cuore del conflitto in Medio Oriente e
sulla ricerca di una possibile soluzione; la scuola per la pace offre una
varietà di corsi e seminari diretti a molteplici strati sociali per accrescere
la consapevolezza della complessità del conflitto e migliorare la
7
comprensione reciproca. Nevé Shalom / Wahat al-Salam rappresenta la
grande «utopia realizzata» di Bruno Hussar, un prete cattolico
dell'Ordine dei frati predicatori (domenicani), nato al Cairo nel 1911 da
genitori entrambi ebrei. Verso la fine della sua lunga esistenza, questo
«uomo di Dio» , scomparso nel febbraio 1996, era una figura al di fuori
di qualsiasi possibile categorizzazione , che spiegava con estrema levità
che la sua identità era quadruplice. Si considerava ebreo a pieno titolo in
quanto figlio di genitori entrambi ebrei; era cristiano «un ebreo discepolo
di Gesù», preferiva dire, in quanto aveva ricevuto il battesimo; era
israeliano avendo regolarmente acquisito la cittadinanza dello Stato
d'Israele; era e si sentiva vicino e in sintonia con gli arabi, con il loro
mondo e le loro istanze, grazie al fatto d'essere nato al Cairo e d'avervi
trascorso gli anni decisivi dell'infanzia e dell'adolescenza. Quattro
identità, ciascuna delle quali sembrerebbe destinata a gravare come un
macigno sulle spalle di chiunque se ne faccia carico, e che tuttavia
Hussar riusciva a reggere, tutte assieme, senza denunziare alcun sforzo
apparente. Quattro identità profondamente conflittuali fra loro in sede
storica, ma il cui conflitto Bruno riusciva a gestire, fino ad
addomesticarlo, nel proprio foro interiore.
1
La politica mondiale si sta configurando secondo schemi culturali nei
quali la cultura assume una forza al contempo aggregante e disgregante.
Civiltà e cultura fanno entrambe riferimento allo stile di vita in generale
di un popolo; si richiamano a norme, valori, istituzioni e modi di pensare
propri di una società ma, come sottolinea Aime, a incontrarsi o
scontrarsi, sono persone non culture.
2
1
Sito web: www.nostreradici.it/shalom-salam.htm
[Tratto dagli atti del XXIII Colloquio ebraico-cristiano di Camaldoli, dicembre 2002]
Cfr. anche MALKA, Così parlavano i Chassidim, Paoline, Milano 1996.
2
Aime M., Eccessi di culture, Torino, Einaudi, 2004.
8
Le attuali discussioni sui problemi internazionali sono spesso basate su
un assunto del tutto fuorviante, secondo il quale il mondo sarebbe
attraversato da diversi scontri di civiltà, da confitti etnici o culturali
irrisolvibili.
I conflitti etnici sarebbero da collegare ai “punti caldi” ubicati lungo le
“linee di faglia” tra le diverse civiltà del pianeta, secondo una visione
della mappa globale costituita da un puzzle di identità culturali stabili e
immutabili. Ne segue che, a quanto dicono, ogni contatto provochi
scontri, incomprensioni, causate dal fatto che alcuni appartenenti ad una
cultura hanno superato il limite netto che le separa.
L’espressione “conflitto etnico” è divenuta una scorciatoia per riferirsi
ad ogni tipo di scontro tra persone che vivono nello stesso luogo. Alcuni
di questi conflitti implicano l’esistenza di identità etniche e culturali
diverse, ma la maggior parte è scatenata da motivi legati al controllo del
potere, della terra o di altre risorse e non ha nulla a che vedere con la
diversità etnica. Pensare, invece, che sia così ci spinge verso politiche
sbagliate, e ci porta a tollerare quei governi che incitano alla violenza di
massa e sopprimono le differenze etniche. Nell’ultimo ventennio la
stampa, gli approfondimenti televisivi, l’informazione in generale, si è
occupata con insistenza, e continua ancora oggi con maggiore intensità,
di casi di violenza etnica non considerando gli innumerevoli casi dove
persone tra di loro diverse vivono insieme senza neanche porsi il
problema dell’appartenenza, trasformando l’eccezione in regola,
l’anormale per il normale. Ho voluto descrivere brevemente il progetto
Nevé Shalom perché credo sia importante mettere in luce anche le realtà
positive e possibili, raramente affrontate dai media che si ostinano,
invece a far luce su ciò che crea terreno fertile ad uso politico. Questo
9
accade poiché, parlando di conflitti tra gruppi locali, si tende
normalmente a dare per scontate tre assunzioni: la prima, che le identità
etniche sono antiche e immutabili; la seconda, che queste identità
forniscono i motivi per persecuzioni e omicidi; la terza, che la diversità
etnica in sé conduce inevitabilmente alla violenza. Tutte e tre sono
sbagliate.
10
Capitolo I
PER UNA DEFINIZIONE DI ETNIA
Questo primo capitolo avrà il compito di chiarire, per quanto possibile,
cosa si intenda utilizzando il termine etnia. La necessità di un
chiarimento viene dal fatto che si abusa dell’aggettivo etnico sia a
proposito di futilità (abbigliamento, accessori, musica, danza ) sia a fatti
più rilevanti (la diversità, il conflitto). Comunque ciò che accomuna
qualsiasi tipo di discorso affrontato nel senso comune è il riferimento al
termine etnico come qualcosa di lontano da noi, qualcosa di esotico,
quasi tribale. L’ignoranza riguardo ai significati delle parole, ci porta ad
un utilizzo evidentemente sbagliato che ha sviluppi purtroppo negativi.
La banalizzazione dell’etnicità si verifica ogni giorno sotto i nostri occhi,
ma poiché è diventata un’abitudine non ci si fa più caso. Le letture svolte
durante la preparazione di diversi esami, mi hanno aperto gli occhi
sull’uso e abuso del termine etnico, e vorrei che questo lavoro mi
servisse a sviluppare uno spirito critico nei confronti di quella che “ci
spacciano” come informazione. Se dal punto di vista del linguaggio
comune, etnico vuole indicare una generalizzazione di ciò che è distante
da noi, seppure con svariate interpretazioni, vedremo che, da un punto di
vista scientifico, è difficile fornire una definizione unica ed universale.
Vorrei partire dal significato del termine, effettuando un brevissimo
excursus storico del suo utilizzo.
11
1.1 Etnia e nazione
Nell’ambito della cultura occidentale, il termine etnia, trae origine dagli
antichi greci che con ethnos indicavano una categoria di uomini
contrapposta a quelli della polis. Inizia così l’uso politico del termine,
giacché polis indicava una comunità omogenea per leggi e costumi ed
aveva una valenza positiva; al contrario ethnos indicava coloro che non
avevano alcun tipo di organizzazione politica e non possedevano
istituzioni che non fossero legate ai legami di sangue. La connotazione
negativa, legata al tipo di disorganizzazione sociale, rimarrà fino all’età
moderna, quando prese il sopravvento il concetto di nazione. Etnia,
quindi, iniziò ad indicare una nazione per difetto, incompiuta. Durante
questo periodo iniziò un’operazione di unificazione semantica dei
termini razza, etnia e cultura in nazione. La confusione tra etnia e
nazionalismo, usati quasi come sinonimi, iniziò col sorgere degli stati
nazionali. Analizzando la situazione che si creò alcuni secoli fa e per
dare una spiegazione alla relazione forzata tra nazione ed etnia, gli
studiosi si divisero in diversi filoni di pensiero: i primordialisti, i
perennisti, gli strumentalisti, i situazionalisti e i modernisti. Questi ultimi
spiegano il nazionalismo, allontanandosi dal concetto di etnia, come un
fenomeno nato in una precisa congiuntura storica, frutto di determinate
condizioni politiche e sociali. I primordialisti sostengono, invece, che
l’enicità e il sentimento di appartenenza siano i principi storici di
aggregazione degli esseri umani, e che quindi sia alla base del
nazionalismo; i perennisti vedono il nazionalismo come il frutto di
simboli e narrazioni delle origini riprese da configurazioni etniche; i
situazionalisti pongono l’attenzione alla formazione di un’idea del noi
come risultato dell’attivazione di simboli e immagini atte a dar forza al
12
sentimento identitario in determinate situazioni. Infine la visione
strumentale vede l’etnicità come qualcosa in grado di orientare i gruppi
in lotta per l’accesso alle risorse sulla base di un costrutto simbolico.
3
Gerd Baumann nel testo intitolato “L’enigma multiculturale”, affronta i
concetti di gruppo etnico e nazione, consultando dizionari di dodici
lingue di diverso ceppo rilevandone un’omogeneità impressionante. Le
conclusioni di Baumann si riferiscono al fatto che, sin dalla nascita,
avvenuta più o meno attorno al 1500, gli stati nazione in Europa
dovettero superare i confini etnici tra i loro cittadini. Pensarono di
risolvere il problema trasformando la nazione in una superetnia capace di
essere postetnica, in quanto oscurante le diversità, e superetnica, poiché
rappresentante un’etnia nuova, più grande. Il progetto, evidentemente,
non andò a buon fine poiché gli stati inclusero solo alcuni gruppi etnici e
ne esclusero altri che diedero vita alle minoranze.
4
Qualunque idea si analizzi, emergono alcuni fattori importanti quali
condizioni politiche e sociali, il principio di aggregazione degli esseri
umani, l’importanza dei simboli e delle narrazioni, le situazioni
conflittuali, che ci portano alla concezione dell’etnia come fattore
sociale.
Qualunque sia il filone di pensiero, è certo che, sulla base del
nazionalismo ottocentesco, intellettuali, letterati, musicisti iniziarono a
sottolineare le differenze cristallizzandole in dizionari, tradizioni
religiose, pratiche culturali e unità linguistiche che legittimassero la
creazione di stati indipendenti basati sull’omogeneità culturale e
linguistica.
3
Fabietti U., L’identità etnica, Roma, Carocci Editore, 1998
4
Baumann G., L’enigma multiculturale. Stati, etnie, religioni, Bologna, Il mulino, 2003
13
Non bisogna dimenticare che, essendo l’etnicità un fattore sociale, ebbe
un’influenza notevole sulla creazione dell’identità nazionale
l’educazione, impartita ai nuovi cittadini da parte degli stati: le scuole
trasformarono le lingue madri, disordinate, regionali e spesso
contaminate, in lingue nazionali, standardizzate e legate alla nuova e
nascente nazione.
Nel periodo successivo alla nascita degli stati nazionali seguì l’opera
colonizzatrice ed ebbe inizio l’ambiguo rapporto tra antropologia e
colonialismo; furono creati atlanti linguistici e carte geografiche etniche
a vantaggio del potere politico che gli stati ricchi potevano esercitare
sugli altri. A giustificare la colonizzazione furono create di sana pianta
delle gerarchie su base razziale, un fenomeno ancora molto presente nel
pensiero comune, mascherato da questioni culturali. In questo modo
avanzò l’idea che vi fossero diverse razze distinguibili in più etnie
portatrici di culture diverse, raffigurabili su diversi gradini d’importanza,
e l’etnocentrismo europeo ebbe il suo picco di diffusione.
5
5
Fabietti U.,op.cit., p. 33