8
INTRODUZIONE
Nell‟immaginario collettivo, il “pentito” di mafia è colui che, al momento della
collaborazione, si limita a riferire a rendere dichiarazioni circa i fatti su cui è
interrogato, in realtà si tratta di una considerazione piuttosto restrittiva del valore
e della portata non solo giuridica, ma anche e soprattutto sociale, che
contraddistingue la collaborazione. Appare necessario, pertanto, precisare che
quando tale soggetto decide di rendere dichiarazioni, descrive una societas, con
le sue strutture fondanti, le sue gerarchie di valori, i suoi meccanismi di
autoconservazione; una realtà, cioè, che si sostanzia di rapporti interpersonali, di
tessuto sociale, di modelli culturali.
Ne consegue, allora, che il soggetto che abbia accettato, condiviso e sostenuto i
valori propri della suddetta societas per poi tradirli (e quindi tradirla), sarà indotto
a collaborare vuoi per vendicarsi della medesima vuoi per vendicare la medesima
(accusando ingiustamente altri soggetti che abbiano trasgredito alle regole
imposte dalla famiglia di appartenenza), ma difficilmente perché voglia
abbandonarla. Ciononostante, egli decide di (o è indotto a) parlare, e quindi,
tradire (oppure collaborare, a seconda dell‟angolo visuale da cui si osserva il
gesto effettuato).
Sempre nell‟immaginario collettivo, poi, la figura del testimone di giustizia è
pressoché sconosciuta, nel senso che, per un verso, si sconosce la differenza
ontologica intercorrente con il collaboratore di giustizia (e, ad onor del vero, il
legislatore avrebbe potuto adoperare una terminologia che accentuasse una
siffatta differenza), per altro verso, invece, si ignora la enorme valenza sociale e
sociologica del comportamento del soggetto in discorso. Costui, infatti, decidendo
9
di testimoniare, cerca di scalfire quella cappa di omertà e di lassismo che circonda
ed attanaglia quasi tutto il meridione. Purtuttavia, proprio per l‟omertà di buona
parte della cittadinanza unitamente al lassismo dello Stato, incapace (o restio) di
una efficace politica special-preventiva, il testimone di giustizia, sovente, si rende
conto che “avrebbe fatto meglio a restare in silenzio”.
Il collaboratore ed il testimone di giustizia, in sostanza, rappresentano le due
facce della stessa medaglia, i due modi di intendere (ed ispirarsi a) determinati
valori nel corso degli anni, il “giano bifronte” che con una faccia guarda a ciò che
dovrebbe essere il passato e con l‟altra a ciò che dovrebbe essere il futuro.
Questi, dunque, gli attori delle pagine che seguono. Tuttavia, al fine di cogliere
l‟essenza che ha ispirato gli attuali assetti normativi in materia, si rende
necessario analizzare questo unicum compatto, utilizzando, come punto di
partenza gli anni ‟80 e ‟90 i quali, come è noto, sono passati alla storia come gli
anni della “legislazione di emergenza”.
Nella sede che qui interessa, la fonte normativa di riferimento è rappresentata dal
D.L. n. 8\91 convertito, con modificazioni, in L. 82 \91; si tratta, cioè, della prima
normativa speciale introduttiva del cosiddetto programma di protezione per i soli
collaboratori di giustizia. In quegli anni, infatti, vuoi perché erano più i mafiosi a
collaborare, vuoi perché il legislatore non aveva molta dimestichezza
nell‟affrontare il trattamento dei testimoni di giustizia, tali ultimi soggetti non
erano ricompresi dal suddetto decreto legge, con la conseguenza che, quando un
cittadino comune decideva di testimoniare, costui era destinatario della normativa
prevista per i “pentiti”.
È opportuno precisare che il D.L. 8\91 non costituiva il primo, men che meno
l‟ultimo, intervento normativo in ambito mafioso, ma, a differenza degli altri,
esso veniva a porsi in rapporto di mezzo a fine, dove quest‟ultimo era
10
rappresentato dalla fattispecie di cui all‟art. 416 bis c.p., introdotto nel nostro
ordinamento solo dopo l‟omicidio del generale Dalla Chiesa. Tale norma è
caratterizzata da un ambito operativo ed applicativo che, per un verso, risulta
essere “generico” (perché si riferisce al fenomeno mafioso), per altro verso,
invece, è “specifico”, perché punisce, sì, più gravemente una serie di reati già
singolarmente disciplinati dal codice penale, ma la sua “gravità punitiva” è
subordinata alla prova, quasi impossibile da raggiungere in sede processuale, del
cd. vincolo associativo.
È chiaro dunque – e in questo decisivo è stato il contributo del magistrato
Giovanni Falcone – che, per scardinare il muro di segretezza che circondava un
fenomeno che ambiva a sovrapporsi allo stesso Stato, quale è la mafia, le
conoscenze dei suoi “affiliati” venivano a giocare un ruolo decisivo. Questa,
dunque, la “realtà” su cui la “norma” doveva incidere. Di qui, il D.L. 8\91, ossia
una legge che, in cambio di informazioni difficilmente acquisibili mediante
l‟attività investigativa, offriva forti sconti di pena e numerosi vantaggi anche a
livello penitenziario, tutorio ed economico. Lo stesso Falcone sosteneva che
questa, era la strada da seguire.
Negli anni che seguirono all‟entrata in vigore della “norma” in esame, però,
alcune prassi applicative, unitamente alle lacune di una legge emergenziale e
sperimentale qual era il D.L. 8\91, aprivano lo scenario ad una serie di disfunzioni
e distorsioni che, a loro volta, davano luogo ad una serie di conseguenze nocive
che rischiavano di far collassare il sistema previsto. Si capisce, allora, che, onde
evitare il collasso di un sistema che, nel suo insieme, aveva consentito di
infliggere duri colpi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, era
assolutamente necessario un intervento riformatore della materia.
11
Detto intervento riformatore è rappresentato dalla legge 13 febbraio 2001, n. 45,
con cui si è provveduto a riorganizzare il precedente sistema di protezione
mediante modifiche sul piano giuridico, organizzativo ed economico, per un
verso, e con cui si è introdotta la (anodina a livello lessicale) distinzione tra il
collaboratore di giustizia ed il testimone di giustizia, prevedendo, per
quest‟ultimo, una apposita normativa. Tuttavia, l‟aspetto più importante che il
legislatore del 2001 si era prefissato di correggere, veniva ad essere rappresentato
dalle cosiddette dichiarazioni a rate da parte dei collaboratori di giustizia.
Si trattava, cioè, di una prassi in base alla quale i “pentiti” non dicevano tutto
quello che sapevano, ma si limitavano a fornire quelle informazioni che
avrebbero consentito loro di accedere alle speciali misure di protezione; la finalità
di tale comportamento era evidente: in questo modo, infatti, oltre ad essere
esentati dal carcere duro (se sottoposti al regime di cui all‟art. 41 bis ord. penit.)
od a riacquistare lo status libertatis più velocemente di quanto avrebbero potuto
fare non collaborando, i sedicenti collaboratori di giustizia potevano, in sede
processuale, accusare ingiustamente altri soggetti senza alcuna conseguenza
rilevante dal momento che, in dibattimento, essi potevano avvalersi dello jus
tacendi, e, quindi, potevano sottrarsi al confronto con il loro accusato.
Ovviamente, una situazione del genere non era accettabile. Di qui la L. n. 63\01
che, dando attuazione ai principi del “giusto processo” (inseriti due anni prima
nell‟art. 111 Cost.), consacrava la centralità del contraddittorio dibattimentale
quale unico mezzo per la formazione della prova. È evidente come, tale legge,
venga ad intersecarsi con quella n. 45\01; tuttavia, sembra potersi affermare che,
con esclusivo riguardo al collaboratore di giustizia, la legge attuativa del “giusto
processo” non risolva in modo soddisfacente le problematiche legate alla figura in
esame sia con riguardo alla questione relativa alle dichiarazioni a rate, sia
12
relativamente alla ulteriore questione delle precedenti dichiarazioni rese e
confluite nel cosiddetto verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione.
Come si è cercato di dimostrare, sembra quasi che i due legislatori non abbiano
tenuto conto degli ambiti di intervento delle rispettive leggi, con la conseguenza
che, ad oggi, sono diverse e profonde le antinomie intercorrenti tra le medesime.
14
CAPITOLO I
EVOLUZIONE NORMATIVA
1.1 Premesse
“Le leggi non servono se non sono sorrette da una forte e precisa volontà politica,
se non sono in grado di funzionare per carenza di strutture e soprattutto se le
strutture non sono dotate di uomini professionalmente qualificati”
8
. Con queste
parole, certamente antesignane, Giovanni Falcone delineava, con riferimento al
fenomeno della criminalità organizzata di stampo mafioso, un assetto normativo
caratterizzato da soluzioni che ben presto si rivelarono essere solo miseri
palliativi. Gli strumenti previsti, infatti, erano del tutto inadeguati non soltanto a
reprimere il fenomeno “mafia” in quanto tale, ma anche e soprattutto a gestire
quello che, dal punto di vista processuale, può essere definito il suo corollario
principale: la collaborazione con la giustizia.
Si tratta di un fenomeno che, se da un lato resta uno strumento particolarmente
delicato
9
, dall'altro può essere considerato essenziale nella strategia di contrasto
alla criminalità organizzata, specie quella mafiosa.
8
L‟affermazione di Falcone è contenuta in D‟AMBROSIO, Testimoni e Collaboratori di Giustizia,
Padova, 2002, p. XI
9
Sovente infatti, i collaboratori di giustizia si rifiutavano di deporre in dibattimento e pertanto si
sottraevano al confronto con le persone da loro incolpate. Al fine di interrompere questa tendenza la Corte
Costituzionale si era pronunciata sul punto sostenendo che al principio del contraddittorio doveva essere
accostato l‟altro generale principio della non dispersione dei mezzi di prova, in base al quale, anche nei
casi in cui l‟accusatore si rifiuta di ripetere le sue dichiarazioni in dibattimento, le precedenti dichiarazioni
da lui rese agli organi delle indagini, possono essere utilizzate per la decisione sulla responsabilità
dell‟imputato. Corte cost. 26/10/1998, n. 361 in G.U.R.I. 1° serie speciale n. 44, pp. 11 – 43. Con la L.
15
La creazione di una compiuta normativa sui collaboratori di giustizia e, ancor
prima, la stessa decisione di avvalersi del loro contributo informativo, sono state
determinate da situazioni politiche, giudiziarie e sociali vissute dal nostro paese
negli ultimi anni, nonché dalla necessità di ricercare nuove prassi investigative e
nuovi sistemi normativi finalizzati a contrastare l'espandersi della grande
criminalità. Ne consegue che la complessiva nuova disciplina sul trattamento dei
collaboratori di giustizia può essere correttamente compresa solo se la sua
illustrazione è preceduta sia dall'esposizione delle "tappe fondamentali" attraverso
le quali le sue linee portanti si sono venute progressivamente definendo sia dalla
precisa individuazione dei vari "momenti", tra loro collegati e complementari, nei
quali essa si è venuta articolando
10
. In altri termini, poiché il fenomeno dei
collaboratori e dei testimoni di giustizia non è che una sfaccettatura del più ampio
fenomeno “mafia”, ai fini di una più completa esposizione è opportuno
soffermarsi su tale fenomeno (quantomeno nelle sue linee generali), utilizzando
come chiave di lettura il rapporto esistente in materia ed acutamente evidenziato
da D‟Ambrosio, tra “realtà” e “norme”. Tale rapporto, come avremo modo di
vedere, non soltanto rappresenta lo strumento più idoneo per comprendere la
ratio dei vari interventi normativi, ma anche potrebbe coadiuvare nel
superamento di quei dibattiti sorti in relazione alle misure adottate proprio in
virtù di siffatti interventi.
63\01, invece, si è tornati ad una impostazione accusatoria. L‟evoluzione legislativa avutasi
successivamente alla citata sentenza additiva sarà oggetto di studio nel cap. IV.
10
Cfr. D‟AMBROSIO, op. cit., p. 3
16
1.2 Tappe fondamentali dell’evoluzione normativa: rapporto tra “realtà” e
“norme”
Già durante il fascismo, ed anche successivamente, ci si rese conto
dell‟impossibilità da parte del Regime prima e della c.d. Prima Repubblica poi, di
esercitare in modo pieno ed efficace la sua sovranità su tutto il territorio. Le
popolazioni di alcune regioni del Meridione, infatti, solo formalmente si potevano
considerare cittadini pleno iure di uno stesso Stato, e questa circostanza era
dovuta in parte al fatto che il potere politico e le forze istituzionali non riuscivano
a sradicare fenomeni di potentati nati appunto in forza di una sostanziale assenza
dello Stato
11
, ed in parte al fatto che la risposta delle istituzioni ai molteplici
campanelli d‟allarme suonati da più parti è stata la “politica dello struzzo”: per
troppo tempo parlamenti e governi hanno imitato il comportamento di questo
animale che di fronte ad ostacoli e difficoltà ha l‟abitudine di chiudere gli occhi e
nascondere la testa per ignorare l‟evidenza
12
. Per queste ragioni durante tutto il
dopoguerra il fenomeno mafioso fu sottovalutato dal legislatore che anzi arrivò a
considerarlo come un qualcosa di folcloristico o comunque non preoccupante
13
.
Il primo intervento normativo compiuto a seguito dell‟istituzione della
Commissione antimafia fu rappresentato dalla L. 31\5\1965 n. 575 recante
“Disposizioni contro la mafia”. L‟avvenuto mutamento della realtà criminale e le
11
CORVI, Trattamento penitenziario e criminalità organizzata, Padova, 2010, p. 1
12
È da notare altresì che fino a non molti anni addietro la “mafia” è sempre stata affrontata come “notizia”,
associata soprattutto a fatti di violenza, e non come problema inserito in un preciso contesto storico,
economico, sociale, politico e culturale, contribuendo così ad accreditare nell‟opinione pubblica visioni
parziali e spesso riduttive della sua reale configurazione.
13
A conferma di quanto detto possiamo ricordare che la relazione conclusiva della prima Commissione
parlamentare d‟inchiesta sulla mafia, istituita nel dicembre 1962 con L. n. 1720, si esprimeva nel senso di
aderire alla tesi allora dominante che negava l‟esistenza di un‟organizzazione formale mafiosa e che al
contempo considerava la stessa come un fenomeno di gangsterismo. La suddetta relazione è contenuta in
TRANFAGLIA, Come nacque la Commissione parlamentare antimafia, in Mafia/Mafie: che fare?,
GARUTI (a cura di), Milano, 1994, p. 28 e ss.
17
difficoltà riscontrate nei processi contro i mafiosi, di raccogliere il materiale
probatorio sufficiente, indusse il legislatore ad allargare l‟ambito di applicabilità
delle misure di prevenzione, già introdotte nel nostro ordinamento con L. n. 1423
del 1956 che per la prima volta introdusse “misure di prevenzione nei confronti
delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità”. Si trattava
però di palliativi. E infatti, l‟indifferenza mostrata dallo Stato nei confronti di un
fenomeno che col tempo si affermò come una vera e propria “antitesi” allo Stato
stesso, ha portato quest‟ultimo ad intervenire con una produzione normativa, da
molti definita “la legislazione dell‟emergenza”, la quale, non soltanto in tema di
mafia ma anche di lotta al terrorismo politico, ha consentito di aggirare le
garanzie costituzionali poste a tutela del c.d. habeas corpus
14
. Fu soprattutto in
ambito di libertà personali, infatti, che le norme sostanziali e processuali più
restrittive introdotte dai copiosi interventi normativi nel settore, toccarono vertici
di durezza mai raggiunti in precedenza
15
; ciononostante esse non riuscivano ad
arginare l‟espansione ed il rafforzamento delle organizzazioni criminali di stampo
mafioso, le cui attività illecite, proprio in quegli stessi anni, furono alquanto vive
e vitali.
14
Si veda in proposito PETRINI, Il sistema di prevenzione personale, in Violante, Storia d'Italia: la
criminalità , Annali, vol 12, Torino, 1997, p. 921. Da un punto di vista normativo, cfr. legge 22 maggio
1975 n.152 recante “Disposizioni a tutela dell‟ordine pubblico”, detta anche “legge Reale”. Siffatta legge,
che all‟art.19 prevedeva l‟equiparazione di trattamento tra gli indiziati di mafia ed i soggetti responsabili
di atti preparatori diretti alla commissione di reati di sovversione e terrorismo per quanto riguardava
l‟applicazione delle misure di polizia, non risolveva i notevoli problemi interpretativi circa
l‟individuazione dell‟ambito soggettivo del concetto di “indiziati di mafia” introdotto per la prima volta
dalla legge n. 575\1965.
15
Significativo in tal senso, quanto dichiarato dal Ministro di grazia e giustizia Giuliano Vassalli nel corso
di una seduta parlamentare a proposito delle misure di prevenzione: “Queste ultime sono state
ripetutamente sottoposte al vaglio della Corte costituzionale; indubbiamente, esse, suscitano alcune
perplessità, ma la lotta contro alcune manifestazioni pericolose per la società, anche quando non si
manifestano immediatamente in maniera criminosa, può essere un’esigenza non in contrasto con la
pratica legislativa ed amministrativa di uno stato democratico”. Camera dei deputati, X legislatura,
seconda commissione, 1 febbraio 1989, p. 11
18
Ed è proprio in questo contesto che trova perfetta ed indispensabile collocazione
il rapporto tra “norme” e “realtà”, la cui conoscenza ed analisi sono essenziali per
cogliere appieno il senso delle effettive ragioni che, di volta in volta, hanno
ispirato la emanazione delle leggi, le loro modificazioni o le loro integrazioni.
Basti pensare ad esempio che le disposizioni sul “pentimento” degli autori di fatti
di eversione furono introdotte dopo la scoperta dei primi covi terroristici e
l‟arresto di alcuni esponenti di spicco delle Brigate Rosse, responsabili, tra l‟altro,
del sequestro e dell‟omicidio dell‟on. Aldo Moro e della sua scorta; oppure
ancora che le previsioni di una circostanza aggravante per i fatti di mafia e di una
circostanza attenuante nel caso di collaborazione nelle indagini sugli stessi fatti
furono inserite nei decreti-legge emanati subito dopo gli agguati nei confronti dei
magistrati Antonino Scopelliti e Rosario Livatino; oppure, infine, che la legge n.
646\1982, più comunemente conosciuta come “legge Rognoni-La Torre”,
introduttiva dell‟art. 416 bis c.p., è stata varata soltanto dopo l‟omicidio del
generale Dalla Chiesa. In particolare, attraverso tale articolo, attualmente
rubricato Associazioni di tipo mafioso anche straniere
16
, il legislatore non solo
sancì il carattere illecito dell‟organizzazione mafiosa, ma tentò per la prima volta
di darne una definizione giuridica che fosse capace di individuare i suoi
meccanismi di funzionamento. Tuttavia c‟è stato chi ha sottolineato la non reale
necessità dell‟art. 416 bis c.p., evidentemente sul presupposto che fossero
sufficienti le varie singole fattispecie criminose collegate a tale fenomeno previste
dal nostro ordinamento
17
. Se si considera inoltre che nemmeno gli studiosi più
attenti al fenomeno, nemmeno gli operatori più impegnati sono in grado di
delineare con precisione i confini entro cui si incardina il significato
16
La rubrica è stata così modificata ex art. 1, c. 1, lett. b-bis, D.L. 23\5\2008, n. 92, convertito. in l.
24\7\2008, n. 125 recante “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”
17
MONACO, Le risposte del sistema sanzionatorio ai fatti di criminalità organizzata, in AA. VV.,
Criminalità organizzata e risposte ordinamentali, MOCCIA (a cura di), Napoli, 1999, p. 247
19
dell‟espressione “criminalità organizzata” si potrebbe giungere alla conclusione
che la norma in esame non sia altro che una sorta di “contenitore” che,
individuando – e neppure con troppa precisione – le figure criminose che
rientrano nel relativo ambito, giustifica l‟adozione di un complesso di norme
eccezionali di carattere repressivo e preventivo. Resta però il fatto che l‟art. 416
bis c.p. ha alla base più di una ragione giustificatrice; da un lato la norma intende
evidenziare il particolare disvalore della criminalità mafiosa, dall‟altro lato la
configurazione di una fattispecie ad hoc tende all‟obiettivo pratico di rimediare
all‟inadeguatezza della tradizionale fattispecie dell‟associazione per delinquere a
reprimere la fenomenologia di stampo mafioso. A ben vedere anche questi brevi
cenni circa l‟art. 416 bis c.p. e la difficoltà di trovare una definizione giuridica di
criminalità organizzata pienamente condivisa, costituiscono una delle varie
sfaccettature che compongono il più ampio rapporto che, in materia, esiste tra
“realtà” e “norme”. Dal breve excursus effettuato si evince chiaramente che le
varie soluzioni normative succedutesi nel tempo sono sempre state strutturate e
previste per rispondere ai tentativi, da parte della criminalità organizzata, specie
quella di stampo mafioso, di delegittimare l‟autorità dello Stato o addirittura di
sostituirsi ad esso. Si capisce quindi che le risposte ordinamentali non potevano
limitarsi ad un solo settore del diritto penale ma dovevano necessariamente
abbracciare più ambiti dello stesso. Va da sé, pertanto, che le “norme” erano e
sono consequenziali e concernenti alla “realtà” su cui dovevano, e devono,
incidere.
Più precisamente, se si considera che in ambito di criminalità organizzata di
stampo mafioso, il legislatore è intervenuto su più fronti (diritto penale,
sanzionatorio, penitenziario e processuale), si comprende quanto sia rilevante, al
fine di meglio comprendere la ratio di ciascun intervento legislativo, individuare
20
con precisione il significato da attribuire a quel determinato tipo di “realtà” che, a
sua volta, ha portato all‟emanazione di quel determinato tipo di “norma”.
All‟interno del codice penale, infatti, l‟art. 416 bis c.p. si configura quale genus
costituito da una molteplicità di species (i delitti e le condotte illecite in esso
descritti, proprio perché il perimetro del fenomeno “mafia” non è circoscritto al
solo ambito giuridico, ma si estende anche a quello sociale, economico e politico.
Prima di affrontare nel merito la questione del testimone e del collaboratore di
giustizia, quindi, è opportuno soffermarsi sull‟altra e più generale questione
relativa allo stretto legame che, in materia, intercorre tra “realtà” e “norme”.
1.2.1 Segue: accezioni di “realtà” e “norme” nel momento sanzionatorio
L‟analisi di questo legame infatti non soltanto è utile al fine di fornire un quadro
più completo della materia in esame, ma anche può aiutare a capire i motivi per i
quali l‟elaborazione della disciplina introdotta dalla legge n. 45\2001 sul
trattamento dei collaboratori e dei testimoni di giustizia è stata particolarmente
lunga e travagliata. Una prima accezione di “realtà” è quella rappresentata dalla
c.d. “quotidianità”. Significative in proposito sono le parole di Giovanni Falcone:
“Quanto meno Stato, tanto più mafia; quanto più incoerente e debole o
semplicemente emergenziale è la lotta repressiva, tanto più forte è la mafia”
18
. Se
la “realtà”, quindi, si intende in tal senso, la “norma” non può che intendersi nel
senso di diritto penale sostanziale. In tale ambito l‟intervento normativo si è
mosso prevalentemente sul piano della commisurazione della pena: codice penale
e leggi speciali infatti prevedono significativi aggravamenti o diminuzioni di pena
a seconda del tipo di condotta, collaborativa o meno, tenuta dall‟autore del fatto.
18
FALCONE, Cose di Cosa Nostra, in collaborazione con PADOVANI, Milano, 1991, p. 93
21
Si pensi ad esempio alla previsione di circostanze aggravanti speciali e ad effetto
speciale per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell‟ordine
costituzionale
19
(la pena è aumentata della metà) o per i delitti commessi
avvalendosi delle condizioni di cui all‟art 416 bis c.p. o commessi al fine di
agevolare l‟attività delle associazioni di tipo mafioso
20
(la pena è aumentata da un
terzo alla metà), oppure ancora alla creazione di specifiche ed autonome ipotesi di
reato che differiscono da quelle ordinarie solo per il movente specifico e,
appunto, per la più elevata pena che le caratterizza
21
. Nello stesso tempo, più
disposizioni di legge prevedono a loro volta significative diminuzioni della pena
per gli autori dei reati di mafia o di terrorismo che, dissociandosi dagli altri, si
adoperano per evitare che l‟attività delittuosa sia portata ad ulteriori conseguenze
anche aiutando l‟autorità giudiziaria o di polizia nella raccolta di elementi
decisivi per la ricostruzione dei fatti
22
. Un‟ulteriore conferma della validità di
questa prima accezione del legame “realtà” – “norme” è data dalla previsione di
quelle norme incriminatrici che incidono sui proventi delle attività illecite, quali
le norme antiriciclaggio
23
e che colpiscono i rapporti tra organizzazioni criminali
19
V. art. 1 D.L. 13\5\1979, n. 625, conv. con mod. in L. 6\2\1980, n. 15
20
V. art. 7 D.L. 13\5\1991, n. 152, conv. con mod. in L. 12\7\1991, n. 203. Ai sensi poi del 2° comma del
citato art. 7 si esclude che possa operare un giudizio di bilanciamento con le eventuali circostanze
attenuanti diverse da quella di cui all‟art. 98 c.p. ed in ogni caso le eventuali diminuzioni di pena “si
operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente” alla circostanza aggravante di cui al
1°comma. È opportuno menzionare anche l‟art. 5, che, modificando l‟art. 275, c.3 c.p.p. poi ulteriormente
modificato dall‟art.1 d.l. 292\1991, stabilisce che, per i delitti di mafia, non possono essere applicate
misure cautelari meno gravi della custodia in carcere (va detto che l‟art. 275 è stato ulteriormente
modificato dall‟art. 5 L. 332\95, nonché dall‟art. 2, c. 1, lett. a) D.L. 23\2\09, n. 11, convertito, con
modificazioni, in L. 23\4\09, n. 33).
21
Cfr. artt. 289 bis, 605 c.p. ed art. 630 c.p. in tema di sequestri di persona; oppure artt. 270 bis, 416 bis ed
art. 416 c.p. in tema di associazioni per delinquere.
22
V. art. 8 D.L. 13\5\1991, n. 152, conv. con mod. in L. 12\7\1991, n. 203
23
Il D.L. n. 629 conv. con mod. nella L. 12\10\1982, n. 726 recante “Misure urgenti per il coordinamento
della lotta contro la delinquenza mafiosa” istituì l‟Alto Commissariato per il coordinamento contro la
delinquenza mafiosa, cui vennero attribuiti particolari ed autonomi poteri di indagine presso le pubbliche
amministrazioni, gli enti pubblici anche economici, le banche nonché gli istituti di credito pubblici e
privati, con la possibilità di avvalersi degli organi di polizia tributaria nell‟espletamento delle proprie
funzioni.
22
e politica, quali il reato di scambio elettorale politico-mafioso previsto dall‟art.
416 ter c.p.
1.2.2 Segue: accezioni di “realtà” e “norme” nelle misure di prevenzione
Data l‟ampiezza del fenomeno in esame, si capisce che lo sforzo di contrastare la
criminalità organizzata non può esaurirsi nella sola repressione della stessa
attraverso la previsione di specifiche norme incriminatrici
24
. L‟esperienza
giudiziaria, infatti, ed in particolare l‟attività investigativa di Giovanni Falcone,
ha contribuito a dimostrare che il vero “tallone d‟Achille” della mafia è
rappresentato dalle tracce documentali lasciate dalla grande circolazione di
danaro connessa allo svolgimento delle attività illecite. Del resto, non bisogna
dimenticare che l‟obiettivo ultimo della criminalità organizzata di tipo mafioso è
rappresentato, in definitiva, dall‟accumulazione di ingenti capitali finalizzata alla
acquisizione di una posizione di monopolio sul mercato; in nome di detta finalità
sono stati (e sono) commessi i più efferati crimini. Di conseguenza, si comprende
come, se il concetto di “realtà” vada inteso nel senso appena esposto, quello di
“norma”, e cioè la risposta ordinamentale, debba necessariamente intendersi nel
senso di misura di prevenzione praeter delictum.
Com‟è noto, tali misure hanno come caratteristica peculiare quella di essere
applicate indipendentemente dalla commissione di un precedente reato (ed in
questo si distinguono dalle misure di sicurezza), esse, pertanto, sono, per loro
natura, svincolate dalla commissione di un precedente reato e quindi dalla
garanzia del “fatto”. A questo punto, se si considera che il diritto penale deve
anzitutto avere un volto costituzionale, ed in secondo luogo, deve essere un diritto
24
Cfr. CORVI, op. cit., p. 11