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un’operazione culturale che mette formalmente nel dovuto risalto il livello qualitativo
perseguito dalla polizia penitenziaria.
La funzione formativa, pur rappresentando l ’asse portante di compiti istituzionali
del l ’ISSP, è strettamente correlata ad altre importanti funzioni: dalla formazione e dalla
ricerca al l ’e laborazione e alla divulgazione di un sapere penitenziario a trecentosessanta
gradi. La competenza richiesta nel complesso include un saper fare puramente esecutivo,
centrato sulle funzioni tecniche connesse al ruolo di ciascun operatore, nonchè un saper
essere basato sull ’acquisizione di conoscenze necessarie per intervenire sulla
valorizzazione delle esperienze, delle relazioni e della collaborazione dell ’ intero
gruppo di lavoro. D’altra parte, non va dimenticato che è quotidiano e costante il
confronto con una realtà che richiede non solo efficienza e professionalità, ma anche
capacità di gestione dei conflitti e delle situazioni di emergenza.
Alla luce di quanto sottolineato si può parlare a tutti gli effetti di polizia penitenziaria
in termini di quarta polizia, da collocarsi sullo stesso piano delle tre polizie
tradizionalmente più conosciute: carabinieri, polizia di stato e guardia di finanza.
L’equiparazione peccherebbe semmai per difetto, in quanto il Corpo di polizia
penitenziaria, proprio in forza della partecipazione alle attività di osservazione e di
trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati, è chiamato a dare qualcosa di più
rispetto alle altre forze di polizia. In effetti, non a caso, l’operato di tutti coloro che
lavorano all ’ interno delle carceri è costantemente chiamato al confronto con quello di
figure fondamentali interne alla stessa struttura (psicologi, assistenti sociali, educatori),
stretti collaboratori con cui si promuovono le numerose attività di trattamento rieducativo
dei detenuti.
Il carcere non ha da essere quindi il luogo del l ’ozio e del vuoto, né tanto meno, il
luogo dell ’ isolamento e della negazione della socialità. Al contrario, il trattamento
rieducativo deve tendere al reinserimento sociale dei condannati e degli internati e deve
essere diretto a sostenere gli interessi umani, culturali e professionali di ogni recluso. I
compiti richiesti sono tanto ardui da avere bisogno di un largo apporto di forze e proprio la
polizia penitenziaria è chiamata ad assicurare una continuità capillare.
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1) INTRODUZIONE STORICA: LA NASCITA DELL’ISTITUZIONE CARCERARIA E LA SUA
EVOLUZIONE NEL PANORAMA ITALIANO FINO AI GIORNI NOSTRI
SOMMARIO: 1.1 La situazione penitenziaria alle origini – 1.2 La prima riforma
del sistema carcerario italiano – 1.3 Il carcere in Italia nel XX secolo – 1.4 Gli
anni dopo la liberazione – 1.5 Le rivolte carcerarie e la Legge di Riforma – 1.6
Metamorfosi dall’ordinamento penitenziario all’istituzione del Corpo di polizia
penitenziaria 1975-1990 – 1.7 Conclusione: verso una nuova amministrazione
Figura 1.1 Bandiera tricolore del Corpo di polizia penitenziaria
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1.1 La situazione penitenziaria alle origini
Le moderne istituzioni penitenziarie costituiscono il punto terminale di un processo
che vede il lento passaggio dal concetto di pena corporale a quello di tipo custodialistico. Un
tempo la necessità maggiormente sentita era una forma di giustizia pressoché diretta, che
fosse cioè in grado di esplicare autonomamente il suo ruolo sociale. Gli individui offesi
vendicavano il senso di perdita attraverso lo spettacolo del corpo del condannato e la
comunità poteva in tal modo facilmente identificare al suo interno gli individui molesti: il
perno era il corpo del suppliziato immerso in una dimensione pubblica. Oggi il reo cessa di
essere oggetto di spettacolo e vendetta per le genti, per il solo fatto di essere rinchiuso
al l ’ interno di una struttura muraria. Questa separazione resta, tuttavia, più apparente che
reale, perché il carcere non fa che proporre o esasperare modelli di organizzazione
economico-sociali che si vogliono imporre o che già sono presenti nella società.
È solo a partire dalla seconda metà del Settecento che si può parlare di vere e proprie
strutture internanti, esclusivamente destinate ad accogliere e punire gli autori di reati; da
questo momento, e soprattutto dai primi anni del l ’Ottocento, vedono la luce nuove teorie
sulla funzione della pena detentiva e sul l ’organizzazione degli Istituti di pena. È proprio
questo sviluppo a portare alla creazione di luoghi di custodia pressoché sconosciuti in epoche
precedenti. In Italia, durante il periodo feudale, si rileva la presenza di case d’arresto come
pena sussidiaria, destinate a coloro che erano stati condannati ad una sanzione pecuniaria e
non erano in condizione di pagarla. Le pene detentive sono generalmente brevi: sovente il
carceriere è il proprietario dell ’edificio ospitante le prigioni, o lo affitta con lo scopo di
organizzarvi un’isti tuzione penale. In entrambi i casi la prigione deve costituire un profitto
e ai detenuti viene richiesto, se possibile, di pagare i costi del l ’ incarcerazione. Poiché il
pagamento è inversamente proporzionale alla durata del soggiorno si incentiva il più possibile
un ricambio piuttosto frequente della popolazione carceraria
2
.
È il diritto canonico, a partire dal V secolo, ad adottare per primo la pena carceraria
sotto forma di reclusione in monastero, generalmente riservata ai chierici che in qualche
modo avevano mancato. Nasce così la sanzione della penitenza da espiare in una segreta fino
11
al momento in cui non sopraggiunge il ravvedimento. La natura terapeutica della pena
ecclesiastica viene poi di fatto inglobata, addirittura snaturata, dal nuovo carattere vendicativo
della pena, ormai sentita socialmente come satisfactio. Si accentua la natura pubblica della
pena che fuoriesce dal foro interno per assumere le vesti di istituzione sociale.
L’esecuzione diviene pubblica, al fine di intimidire e prevenire, mantenendo sempre come
scopo di fondo l ’eventuale ravvedimento, prodotto dalla separazione dal mondo esterno e
dal più stretto contatto con il culto.
Altra presenza storica di struttura coercitiva è quella dei bagni penali derivati dalla
galera, descritta come il più antico dei bastimenti latini. Abbandonata verso la fine del
Seicento, questo tipo di nave era divenuta troppo costosa in quanto incapace di resistere al
maltempo e alle lunghe navigazioni. La condanna al remo, delle galere, era un tipo di pena
che aveva cominciato a diffondersi tra il XV ed il XVI secolo. La definizione di “bagni
penali” – applicata sia ai bagni marittimi che a quelli di terraferma – non è altro che la
conseguenza del l ’origine marinara di questa pena. La situazione dei bagni al l ’ inizio
del l ’Ottocento non si distingue, quanto a separazione dei condannati, condizioni igieniche,
vita dei detenuti, etc., da quella esistente al l ’ interno delle carceri. C’è una sola differenza,
ma di rilievo: i condannati al bagno godono in molti casi di una libertà di movimento assai
più ampia di quella dei condannati al carcere
3
. Bisognerà attendere il 1861 prima che la
“Commissione per l ’ immegliamento dei luoghi penali” suggerisca l ’abolizione della
pena del bagno, giudicata inutile, produttrice di danno, inoperosa ed oziosa.
Verso la fine del XVII secolo importanti mutamenti coinvolgono il panorama sociale.
L’incremento demografico, il processo di urbanizzazione, il deterioramento del tenore di
vita nelle campagne e, più tardi, il sorgere di una classe operaia e di un nuovo pauperismo
connesso agli effetti della rivoluzione industriale, porta ad un.a rivoluzione del
comportamento, delle consuetudini sociali, delle tradizioni e degli atteggiamenti preesistenti.
La stessa rivoluzione avvia ad una trasformazione del modello di vita dominante, fino a quel
momento prevalentemente agricolo e caratterizzato da ampie zone di proprietà comune, a
vantaggio di una società latifondista, gestita dai signori che spesso non risiedono nella
comunità rurale. Man mano che le città crescono e sviluppano rapporti economici più intensi
2
Michael, R. (1989). Criminalità e repressione nell’Europa moderna. Bologna: il Mulino.
3
Romano, C. e Isabella, C. (2000).Storia del carcere in Italia. Roma: Sapere.
12
con le campagne circostanti, gran parte della popolazione lavoratrice cessa di lavorare sui
terreni coltivabili della comunità per dedicarsi a varie attività, soprattutto nell’industria tessile.
È proprio quest’ultima che determina la comparsa dell ’officina, quale luogo organizzato per
la lavorazione di più artigiani. Le città industriali assistono alla nascita dei primi embrioni di
una vera e propria popolazione operaia.
D’altra parte l’intero processo non può non favorire un elevato afflusso di contadini
e altri sbandati che mal si adattano alle mutate situazioni sociali. Il crimine diviene, quindi,
una risposta significativa dei poveri alle nuove condizioni urbane. È per lo più un mezzo di
sopravvivenza, una voce di protesta. Questa pressione, accentuata dal l ’ incremento
demografico, inizia a minare direttamente gli interessi delle classi socialmente agiate, le quali
vedono nella risposta custodialistica la miglior forma di contenimento. È proprio in questo
periodo che ad Amsterdam e a Londra sorgono i primi Istituti correttivi e per la prima volta
viene applicato il principio del lavoro coatto come mezzo di rieducazione. Ben presto le
strutture non si popolano più solo di delinquenti, ma di vagabondi ed indigenti di ogni
genere.
Istituzioni originariamente nate allo scopo di educare e prevenire, generalmente
strutturate come fabbriche produttrici di un regime monopolistico, gli Istituti esteri di lavoro
coatto rappresentano il primo nucleo strutturale delle prigioni moderne. Il carcere nasce
quindi in funzione delle classi sociali destinate a popolarlo. Le stesse strutture penitenziarie si
evolvono di riflesso, quasi a sottolineare l ’assetto classista, ai vari assetti politici che si
susseguono nel tempo. Il divario tra la posizione sociale di coloro che giudicano e di coloro
che vengono giudicati sottolinea fin da subito come sia proprio la classe agiata a fare del
carcere uno strumento di controllo.
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1.2 La prima riforma del sistema carcerario italiano
All’ inizio del XIX secolo una combinazione di circostanze culturali, sociali ed
economiche determina una riforma radicale del sistema carcerario. L’incalzare del moderno
capitalismo, al quale necessita sempre più manodopera a basso costo, si fa sentire anche nei
confronti delle nascenti strutture penitenziarie. Il moderno sistema penitenziario nasce
proprio per far fronte ad esigenze di una custodia razionale.
La realtà con la quale il nascente Stato italiano si deve cimentare è molto complessa,
soprattutto a causa dell ’eredità di ordinamenti giuridici legati a condizioni socio-
economiche profondamente differenti dal nord al sud. La politica penitenziaria in Italia
prende avvio con notevole ritardo, venendo a mancare quella fase storica in cui il sistema
carcerario aveva svolto funzione di addestramento alla disciplina di fabbrica e di controllo del
mercato della forza-lavoro.
Dal punto di vista giuridico il Paese è ancora ancorato al codice penale sardo, emanato
nel 1859. Si deve attendere il 1891 per avere un primo intervento normativo,
successivamente all’entrata in vigore, nel 1890, del nuovo codice penale Zanardelli, che aveva
avuto il pregio di unificare la normativa e abolire la pena di morte: si tratta del “Regolamento
generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi”, promosso dal Presidente
del Consiglio Crispi e costituito da ben 891 articoli. In realtà sembra realizzarsi addirittura un
peggioramento della situazione legislativa precedente. Esasperando la centralizzazione
burocratica ed irrigidendo ancor di più la disciplina del personale di custodia, tanto da
equiparare il trattamento di questi ultimi a quello dei detenuti, si cerca di perpetuare un clima
di violenza e tensione tra le due categorie, evitando qualsiasi cenno solidale. Il personale di
custodia, proveniente per lo più dalle regioni più povere del Regno, spesso semi analfabeta e
privo di alcuna capacità di far valere la propria presenza all’interno della struttura
organizzativa delle carceri, viene a costituire l ’affl izione aggiuntiva, voluta dallo Stato, per
colui che ha sbagliato, condividendone, allo stesso tempo, l ’ infamia e la stigmatizzazione
sociale. Ancor oggi in alcuni casi, pur a fronte di tante riforme, il “secondino” rimane ancora,
per il sociale, “un lebbroso” di cui non si può fare a meno.
14
Dal contenuto dei progetti di riforma e dalle discussioni parlamentari degli ultimi anni
del secolo, si ha l ’ impressione della totale assenza di una volontà politica capace di
affrontare con coscienza le riforme delle strutture carcerarie o, meglio, si intravede la precisa
volontà di perpetuarle, in quanto strumenti congeniali all’assetto sociale. Le posizioni della
burocrazia e del potere politico coincidono e dimostrano una comune volontà di non
modificare i pilastri del l ’amministrazione penitenziaria, nella convinzione che lo stato di
abbruttimento e di soggezione in cui si trovano detenuti e personale di custodia possa
rendere la macchina carceraria più facilmente governabile
4
.
In questo contesto il carcere è una scuola di corruzione e di delinquenza, dove imputati
e condannati, per i reati più diversi, vengono custoditi insieme. “Il detenuto viene privato dal
momento del suo ingresso in carcere del proprio nome, sostituito da un numero di matricola,
e, attraverso l’ imposizione di obblighi assurdi, di ogni autonomia e capacità di
autodeterminarsi, secondo un rituale minuzioso che non lascia alcuno spazio alla esplicazione
della sua individualità e lo rende mero oggetto di custodia, soggetto privo di personalità”.
5
Tutta la vita carceraria verte su un complesso sistema di punizioni e ricompense, rigidamente
codificate dal codice. L’introduzione del codice Zanardelli attenua solo parzialmente le
condizioni vigenti con la permanenza del codice sardo. In molti casi l’assetto classista
rimane inalterato, non solo, ma sovente il soggetto dotato di mezzi finanziari può legalmente
sfuggire al rigore della legge e al l ’umil iazione del carcere.
4
Neppi Modona, G. (1973).Carcere e società civile. Storia d’Italia, pt. II. Torino.
5
Ibidem, cfr.
15
1.3 Il carcere in Italia nel XX secolo
L’introduzione di alcune riforme promosse dal Presidente del Consiglio Giolitti –
con il R.D. 2 agosto 1902 n. 337 si tende a limitare l ’uso dei mezzi connettivi quali la catena
al piede e la camicia di forza, successivamente eliminati con decreto del 14 novembre n. 484
– confermano l ’ idea che a partire dal XX secolo sia in atto una parziale umanizzazione nella
vita delle carceri italiane. Sono questi gli anni in cui fervono i partiti politici a base popolare,
formatisi verso la fine del XIX secolo. È l ’Ital ia dello sciopero generale e delle violente
manifestazioni di piazza.
La stessa organizzazione sindacale diviene una struttura organizzata nel porre in atto
rivendicazioni e denunce che hanno referenti alla Camera dei Deputati. Di riflesso questa
situazione fa scoprire agli attivisti sindacali la vita nelle carceri. Si inizia gradualmente ad
informare l’opinione pubblica degli sfruttamenti e dei soprusi perpetrati all’interno degli
Istituti, rompendo quel clima di accettazione passiva e omertosa che fino a quel momento
aveva permesso che si compissero violazioni inaccettabili alla dignità e al rispetto personali.
Benché il favore verso l ’ isolamento continuasse a caratterizzare i costruttori di
prigioni, si andavano delineando, nell’opinione del popolo e della classe politica dirigente,
intenzioni innovative. La situazione italiana, caratterizzata per lo più da scarso sviluppo
industriale, presenta impellenti necessità di bonifica agricola. L’attività riformatrice di
Giolitti si inserisce in questo contesto, con l ’ impiego dei condannati in lavori di bonifica di
terreni incolti, attribuendo così allo Stato il diritto “(...) di utilizzare nel miglior modo
possibile l ’opera dei condannati per compensare in parte l ’erar io della grave spesa che per
il loro mantenimento grava sul bilancio nazionale”
6
.
Le strutture legislative e la prassi di gestione della struttura penitenziaria non subiscono
rilevanti mutamenti nel l ’arco di tempo che va dall’inizio del secolo all’avvento del
fascismo. Anzi, è proprio con l ’ instaurarsi dell ’autoritar ismo fascista che si pone freno
6
Giolitti, G. Relazione al disegno di legge sull’impiego dei condannati nei lavori di bonificazione
di terreni incolti o malarici, presentata alla Camera il 6 dicembre 1902, in Atti Parlamentari,
Camera dei Deputati, Legislatura XXI cit., p. 5.
16
alle iniziative della direzione generale delle carceri tese a migliorare la vita detentiva, con
conseguente generale fallimento delle riforme giolittiane, inclusa la legge sui lavori di
bonifica. Cala così, per tutta la durata del ventennio di potere dittatoriale, un totale
immobilismo sugli organismi preposti alla direzione delle carceri, mentre fanno ritorno tutte
le misure coercitive che erano state abolite durante il periodo liberale, pena di morte inclusa.
17
1.4 Gli anni dopo la Liberazione
Quelli che seguono la Liberazione, sono gli anni della ricostruzione e del
rinnovamento. Eppure, ancora una volta, il settore penitenziario, usato durante la dittatura
fascista assieme agli altri strumenti di repressione penale anche in chiave di difesa dello Stato
totalitario, ne rimane sostanzialmente ai margini.
La popolazione carceraria, aumentata a dismisura, ingrossata oltre che dai tanti
disperati abbruttiti dalla guerra, anche da appartenenti al passato regime e da ex partigiani, si
ribella in numerose occasioni alle condizioni di vita impossibili, esasperata dal
sovraffollamento, dalle distruzioni belliche, nonché dalle difficoltà di approvvigionamento.
Unica risposta risulta essere l ’ inasprimento della sicurezza. In generale, domina una
riaffermazione del carattere afflittivo della pena; in questo senso si muovono le circolari del
Ministero di Grazia e Giustizia, le quali mirano a richiamare all’ordine quelle direzioni che
eccedono in sperimentazioni giudicate troppo permissiviste. Aumenta il peso della censura su
tutti i tipi di pubblicazioni ammesse per i detenuti, vengono vietati giornali non solo di
partito, ma che semplicemente riportino fatti di cronaca. Analoga situazione per i programmi
radiofonici che devono avere per oggetto solo trasmissioni di carattere culturale ed educativo.
È evidente la tendenza a isolare sempre più il detenuto dalla realtà esterna, mirando ad
impedire qualsiasi meccanismo che consenta l’affermazione del suo valore sociale.
È in quest’ottica che il Guardasigilli Togliatti, con decreto luogotenenziale del 21
agosto 1945, dichiara l’appartenenza del Corpo degli agenti di custodia alle Forze Armate
dello Stato, con l’immediata conseguenza che gli agenti diventano soggetti alla giurisdizione
militare. Si cerca in questo modo di rafforzare il distacco tra le categorie di custodi e
custoditi, evitando che lo stato di ribellione serpeggiante tra i detenuti potesse espandersi
anche agli agenti di custodia.
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1.5 Le rivolte carcerarie e la Legge di Riforma
Alla fine degli anni Sessanta il perdurare delle disagiate condizioni di vita al l ’ interno
delle carceri trova nuova voce di protesta collegandosi alle tensioni sociali che scoppiano in
tutta Europa. Il dato originale che accompagna questa nuova esplosione di sommosse è
rappresentato dal l ’elevato grado di politicizzazione espresso da vasti settori dei detenuti.
Vengono poste in atto rivendicazioni mirate al l ’abolizione delle norme più oppressive del
Regolamento Rocco e che sappiano comunque investire tutti gli aspetti della giustizia penale.
Il carcere non solo trova ascolto sui media, che lanciano un rinnovato interesse sui problemi
penitenziari, ma anche le stesse forze politiche sembrano dimostrarsi interessate ad
intervenire concretamente.
Tale mutata situazione si scontra con la resistenza dell ’amministrazione
penitenziaria, la quale cerca di controllare la tensione crescente con l’ introduzione di
alcune modifiche. Una su tutte, sotterranea ed efficace, quella che prevede un uso massiccio
dei trasferimenti dei detenuti da sede a sede, al fine di rompere qualsiasi possibile formazione
di nuclei politicizzati all’interno dei singoli stabilimenti.
Sul versante parlamentare si deve prendere comunque atto del l ’ inerzia politica
nel l ’affrontare il problema carcere con interventi mirati. Si assiste al susseguirsi di
commissioni parlamentari create ad hoc, spesso incapaci di fornire elaborazioni utili e
tantomeno di riuscire a far fuoriuscire l ’amministrazione penitenziaria da quegli stessi
schemi che andavano spadroneggiando fin dal periodo fascista.
“In realtà la storia carceraria del l ’Ital ia repubblicana rispecchia la volontà politica di
impedire una radicale trasformazione delle istituzioni penitenziarie, nella consapevolezza che
il carcere, così com’è organizzato e gestito – e con esso la stessa giustizia penale – continui
ad assolvere una funzione congeniale al mantenimento degli assetti economici e politici più
arretrati della società”.
7
Eppure, la volontà di riforma è tanta da non riuscire ad essere
facilmente controllata. Ben presto si sviluppa un movimento di rinnovamento efficace e
7
Neppi Modona, G. (1973). Carcere e società civile. Storia d’Italia, pt. II. Torino.