rivendicazioni salariali nelle fabbriche e dalle tensioni sociali in genere, e
concluso, passando per sanguinari passaggi intermedi, dieci anni dopo in
via Caetani.
L’obiettivo che mi sono posto è quello di mostrare la parabola
della lotta armata di Sinistra attraverso quell’ideale percorso parallelo che
affianca la cronaca alla ricostruzione filmica: da una parte i fatti e
dall’altra la rappresentazione che il cinema ne ha dato. Diventa
interessante, dalla mia prospettiva, provare a evidenziare come uno
strumento quale il cinema, che rimane pur sempre legato all’arte e allo
spettacolo, sia stato capace di inserirsi in un contesto tanto controverso e
politicamente problematico, addirittura indagando, a volte, sulla realtà.
Nel primo capitolo ho cercato di fornire un quadro generale di
quello che è stata la lotta armata di Sinistra in Italia: dalle prime brigate
di fabbrica, alla formazione delle Br, dai primi sequestri lampo
all’innalzamento progressivo del livello dello scontro. Il resoconto,
basato anche sulle testimonianze di alcuni brigatisti come Franceschini e
Moretti, si sviluppa nella direzione di una prospettiva, del tutto personale,
che limita l’attività delle vere Br ad un periodo molto più ristretto rispetto
a quello che spesso viene considerato. Ho scelto di affiancare alla parte
storiografica anche un paragrafo dedicato alla presentazione dei numerosi
film legati, in modo differente, agli ’anni di piombo’, proponendo una
panoramica il più possibile ampia e completa delle diverse chiavi di
lettura proposte dai registi che hanno parlato di quegli anni.
2
Nel capitolo successivo sono passato a trattare uno dei nodi
centrali, uno degli elementi che hanno fornito ai brigatisti la base per la
scelta della risposta armata. La tematica considerata è quella dell’abuso e
dell’insindacabilità del potere, raccontata attraverso le immagini del film
di Elio Petri Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970).
Il film, come si vedrà di seguito, è tra i primi a mostrarcisi la faccia più
corrotta di un’Istituzione, fino a quel momento insindacabile, come
quella della Polizia. Il regista mette in scena le perversioni del potere
legandosi, in modo profetico quanto casuale, alla cronaca del periodo.
Verrà dedicato un paragrafo all’attore Gian Maria Volonté, icona
di quel cinema definito di impegno politico-civile e protagonista di molti
dei film presi in considerazione nel mio elaborato.
Elio Petri fornirà anche un ritratto della vita in fabbrica,
mostrando nel suo La classe operaia va in paradiso (1970) le
contestazioni e le lotte operaie. L’immagine tratteggiata dal regista non
trascura, però, il lato intimo e le nevrosi, causate dalla logorante vita in
fabbrica, che si riversano nella vita privata dei personaggi. Abbiamo così,
soprattutto attraverso l’interpretazione di Gian Maria Volonté, un crudo
ritratto delle gravi conseguenze fisiche e psichiche che la vita alla catena
di montaggio provoca nell’operaio. Sono pellicole impegnative quelle
proposte da Elio Petri. Il suo è un cinema che guarda alla
contemporaneità e la ripropone senza particolari filtri, procedendo di pari
passo alla cronaca e mescolandosi, talvolta, ad essa.
3
Nell’ultimo capitolo si giunge all’epilogo della parabola, alla
risposta più grave e drammaticamente decisa da parte delle Brigate
Rosse: il rapimento di Aldo Moro. La vicenda viene riletta da tre film
molto differenti tra loro: Il caso Moro (1986), Buongiorno, notte (2003) e
Piazza delle Cinque Lune (2003), rispettivamente di Giuseppe Ferrara,
Marco Bellocchio e Renzo Martinelli. Le tre pellicole, pur presentando
alcuni tratti comuni, si discostano l’una dall’altra in modo evidente. I
registi si confrontano con il fatto di cronaca osservandolo da angolature
assolutamente personali, fornendoci così una chiara immagine della
molteplicità dei punti di vista possibili offerti da una drammatica vicenda
politica che lascia in eredità poche certezze e molti punti interrogativi.
4
Capitolo I
Tra lotta armata e cinema: una panoramica
1. Il fantasma delle Brigate Rosse
Affrontando lo studio della lotta armata di sinistra nell’Italia degli
anni Settanta, con particolare riferimento alle Brigate Rosse, ci si inoltra
in un terreno ricco di misteri irrisolti, di punti interrogativi e di
contraddizioni.
Si potrebbe considerare metaforicamente la storia brigatista come
un libro del quale l’ultimo capitolo stenta a essere scritto. Possiamo
infatti ricostruire, con una certa attendibilità, grazie ai molti e diversi
contributi, i primi capitoli di questa particolare stagione, identificabili nei
fermenti della fine degli anni Sessanta esplosi poi nella scelta, da parte di
gruppi della sinistra extraparlamentare, di intraprendere la lotta armata
contro i cosiddetti ’padroni’ e lo Stato.
Ciò che risulta invece molto difficile, per molteplici ragioni, è
scrivere l’ultimo capitolo di questo drammatico e affascinante racconto.
Tutto sembra rimanere ancora oggi in sospeso, sostenuto da qualcosa che
non permette di mettere la parola fine.
5
Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse, tra le
pagine del libro intervista Che cosa sono le Br ci offre a tal proposito la
sua opinione sul tassello mancante. L’ex brigatista ci fornisce la risposta
più scontata e allo stesso tempo calzante: afferma che manca
fondamentalmente una verità definitiva. Dice che ne esistono solo dei
frammenti che nessuno ha il coraggio di provare a mettere insieme. Nel
seguito dell’intervista completa il quadro parlando di un funerale alle Br
mai celebrato, un funerale che potrà aver luogo solo quando si saprà con
chiarezza qual è il cadavere da seppellire.1
Un secondo aspetto che non ci permette di congedarci da quel
periodo con delle certezze è legato alla paura. Se ci limitassimo alle date
e al susseguirsi cronologico degli eventi potremmo considerare la
stagione delle Brigate Rosse chiusa già nei primi anni Ottanta. Più
precisamente, si potrebbe dire che l’incontro di Pecorile del 1970 − dove
i componenti del gruppo extraparlamentare Sinistra proletaria e altri
compagni di Reggio Emilia discutono sulla necessità di passare, come
testimonia Curcio, a «nuove forme di lotta più incisive e clandestine»2 −
sancisca la nascita delle Br e il 1982, anno dello smantellamento del
gruppo dopo il fallimento politico del sequestro Dozier, ne decreti la fine.
Ma è la paura appunto, sostenuta dagli omicidi degli anni Ottanta e da
qualche rigurgito di lotta armata negli anni Duemila, a far sopravvivere
1
GIOVANNI FASANELLA, ALBERTO FRANCESCHINI, Che cosa sono le Br, Rizzoli, Milano 2004,
p. 11.
2
GIORGIO GALLI, Piombo Rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970
a oggi, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007, p. 11.
6
lo spettro di quella drammatica stagione aperta alla fine degli anni
Sessanta e che, per dirla con Giorgio Galli, «come realtà o come
preoccupazione»3 permane ancora oggi.
Analizzando nel suo complesso il fenomeno brigatista si possono
identificare due assi che caratterizzano lo sviluppo dell’organizzazione,
due periodi che sintetizzano l’intera esperienza: l’incontro tra studenti e
operai e l’aumento progressivo del livello dello scontro. Il primo è
caratterizzato da una specie di convergenza spontanea verso il capoluogo
lombardo. Siamo nell’autunno del 1969. La protesta che dilaga
all’interno delle università e delle fabbriche, congiunta a una situazione
di malcontento sociale generalizzato, porta i singoli e i gruppi provenienti
da realtà regionali e culturali differenti a incontrarsi nell’industrializzata
Milano.
Tra i protagonisti delle future Brigate Rosse troviamo infatti
personalità differenti: Renato Curcio e Margherita Cagol arrivano dalla
realtà dell’Università di sociologia di Trento e si trasferiscono a Milano
per confluire tra i compagni del Cub Pirelli, la prima brigata di fabbrica.
Alberto Franceschini, Prospero Gallinari e altri compagni sono figli della
realtà partigiana di Reggio Emilia, dove avevano lasciato il Fgci delusi
dalla nuova linea del partito. Moretti giunge invece alla grande metropoli
dalla periferia, per lavorare come tecnico prima alla Ceiet e poi alla
Siemens. Proprio Moretti, interrogato sul rapporto iniziale tra studenti e
operai nel libro intervista Brigate Rosse: una storia italiana, spiega la
3
Ivi, p. 8.
7
relazione tra i due mondi, apparentemente lontani, con una frase
emblematica: «davanti ai nostri cancelli lo studente o smetteva di essere
uno studente o se ne andava».4
Da questa prima convergenza di operai, studenti e tecnici, spinti
dall’ideale comune della rivoluzione proletaria, tutto si evolve molto
velocemente. Nasce nel Settembre 1969 a Milano il Collettivo Politico
Metropolitano, fondato dai componenti del Cub Pirelli, tra i quali Renato
Curcio, Mario Moretti e Corrado Simioni. Nel Dicembre dello stesso
anno si tiene a Chiavari la prima significativa assemblea tra i membri del
Cpm. Il frutto dell’incontro sarà un nuovo nome, Sinistra proletaria, e un
documento, il cosiddetto libretto giallo, dove si iniziava a ipotizzare la
lotta armata.
L’incontro decisivo per la nascita delle Brigate Rosse avverrà,
come detto sopra, nell’agosto dell’anno successivo a Pecorile, nei pressi
di Reggio Emilia. Qui si confrontano i componenti di Sinistra proletaria e
«quelli dell’appartamento»5 di Reggio Emilia e decidono di confluire in
un unico gruppo, le Br. Il battesimo ufficiale della nuova organizzazione
sarà celebrato il 20 ottobre dello stesso anno sulle pagine di «Sinistra
proletaria», giornale gestito e auto finanziato dal gruppo stesso.
A partire dall’estate del 1970 inizia quindi un massiccio
insediamento nelle principali fabbriche del nord Italia. L’esperienza dei
4
MARIO MORETTI, CARLA MOSCA, ROSSANA ROSSANDA, Brigate Rosse: una storia italiana,
Mondadori, Milano 2007, p. 11.
5
«Quelli dell’appartamento» sono il gruppo proveniente da Reggio Emilia, formato da:
Alberto Franceschini, Prospero Gallinari, Fabrizio Pelli, Franco Bonisoli, Tonino Paroli,
Roberto Ognibene, Lauro Azzolini, Attilio Casaletti.
8
primi nuclei di fabbrica milanesi, iniziata con la Pirelli e la Sit Siemens,
si espanderà rapidamente in altre città settentrionali (Torino, Genova e in
seguito Padova e Marghera) per poi coinvolgere anche Roma e Napoli.
Il secondo aspetto fondamentale per analizzare l’esperienza
brigatista, suggerito dall’evoluzione stessa dei fatti, è quello che vede nel
fenomeno Br una vera e propria progressione della violenza: una crescita
continua e incessante da tutti i punti di vista, con l’obiettivo di alzare
progressivamente il livello dello scontro con lo Stato.
La lotta inizia con le bombe incendiarie alle auto dei «capetti» di
fabbrica e passa rapidamente ai primi sequestri lampo dei dirigenti
Macchiarini e Mincuzzi, rispettivamente nel 1972 e 1973, per proseguire
con il sequestro del magistrato Mario Sossi l’anno successivo e
l’omicidio del Procuratore Generale della Corte d’appello di Genova,
Francesco Coco, nel 1976.
Il 1978 è l’anno tragicamente decisivo per le Br: la scelta di rapire
Aldo Moro nasce dalla consapevolezza dei brigatisti di essere maturi per
confrontarsi direttamente con lo Stato, è l’apice dell’innalzamento del
livello dello scontro. Il sequestro del Presidente della Dc infligge però un
colpo mortale alle velleità brigatiste. Si potrebbe dire che con la morte di
Aldo Moro muoiono anche le vere Br. Il gesto voleva rappresentare un
vero e proprio processo alla Democrazia Cristiana. L’accettazione da
parte dello Stato di una trattativa avrebbe significato un grande successo
per le Br, sarebbe stato il riconoscimento politico al quale i brigatisti
9
ambivano. Ma questo non avviene. Lo Stato si rifiuta di intavolare
qualsiasi mediazione, aprendo un dibattito ancora attuale sulle
responsabilità e sulle vere ragioni della scelta della fermezza. La condotta
stessa dello Stato, dei vari organismi politici e dei Servizi di Sicurezza
nei confronti delle Br rimangono complessi e in parte indecifrabili. «Ci
hanno combattuti quando serviva combatterci, ci hanno lasciati fare
quando serviva che noi crescessimo»6, racconta Alberto Franceschini.
Una condizione di individuati e non ricercati, provocata forse da quella
che Galli nel suo Piombo Rosso definisce: «una strumentalizzazione da
parte dei soggetti dell’establishment, interessati al perdurare di una
situazione di instabilità che sarebbe dovuta sfociare in una stabilizzazione
politica moderata; risultante, tuttavia, di difficile conseguimento, nelle
varie fasi dell’intero periodo».7
Il cinema raccoglie tutte queste istanze diventando testimone e
strumento di indagine, forse privilegiato, per raccontare le vicende della
lotta armata in una sorta di «scambio osmotico»8, per dirla con Christian
Uva, tra realtà e ricostruzione filmica dove i confini tra l’una e l’altra
diventano labili, quasi impalpabili.
6
FASANELLA, FRANCESCHINI, Che cosa sono le Br, cit., p. 132.
7
GALLI, Piombo Rosso, cit., p. 7.
8
CHRISTIAN UVA, Schermi di piombo, Rubbettino, Catanzaro 2007, p. 9.
10
2. Il cinema: perché e come
«Lo schermo del cinema ha continuato costantemente negli anni a
mettere a disposizione la propria superficie, “pagina” bianca sempre
pronta a lasciarsi scrivere dalle “penne” più diverse».9
La metafora utilizzata da Christian Uva nelle pagine del suo
Schermi di piombo esprime in modo puntuale ciò che è stato il cinema
degli ’anni di piombo’ in Italia. Lo strumento filmico, dagli anni Settanta
ad oggi, si è affacciato sulla lotta armata, proponendo una grande
quantità e varietà di contributi. Ogni singola pellicola suggerisce un
punto di vista, una prospettiva personale e una risposta alla situazione
italiana di quella stagione. La complessità stessa di quel controverso
periodo ha contribuito a stimolare risposte diverse e a fornire alle singole
’penne’ stimoli per produrre un’ampia e variegata gamma di lavori. Così,
alcuni film hanno lo scopo di ricostruire i fatti in modo didascalico,
cercando la precisione del racconto, altri, attraverso decontestualizzazioni
e metafore, ci mostrano in modo implicito ciò che era difficile esprimere
in altra maniera, altri ancora, ed è il caso del cinema militante, prendono
una netta posizione politica, contestando spesso apertamente le versioni
ufficiali dei Servizi di Sicurezza e degli organi di Stato.
Avviene anche, come si vedrà in seguito, che il cinema anticipi la
realtà, prevedendo nella finzione drammatiche evoluzioni della lotta
armata. In ultima istanza, c’è anche un cinema che ispira i terroristi. Lo
9
Ivi, p. 79.
11
stesso Mario Moretti, parlando della sua prima rapina, dice: «all’inizio
seguivamo la tecnica vista nei film».10
La finzione permette di giocare con i fatti, di alludere, di
mescolare ricostruzione a immagini documentarie, possiede insomma
confini pressoché illimitati. Tutte queste argomentazioni ci forniscono il
supporto per giustificare la scelta di utilizzare il cinema per raccontare la
passione e la tragedia di quella drammatica stagione.
Uno degli errori che bisogna evitare nell’analizzare le pellicole è
quello di ricondurre la validità dei film alla precisione e alla fedeltà verso
quello che vogliono raccontare o verso il contesto che intendono
riprodurre. A tal proposito, Alan O'Leary evidenzia la differenza tra
«storia» e «memoria». Secondo lo studioso irlandese, la prima è
rappresentata dalla ricostruzione ufficiale del passato, mentre la seconda
è l’insieme delle percezioni non ufficiali su cui si può contare per far
diventare un evento un fatto comunemente noto.11
Proprio questo è il cinema. Il regista interpreta i fatti, respira
l’ambiente e raccoglie le emozioni facendole convergere in un proprio
punto di vista, non ufficiale, che pertanto non deve essere verificato nella
prospettiva dell’oggettività. Bisogna ricordare, infatti, che il cinema degli
’anni di piombo’ rimane comunque una forma di spettacolo che decide di
confrontarsi con una realtà incerta e piena di nodi irrisolti, dove nulla o
quasi può essere considerato sicuro e verificabile.
10
MORETTI, MOSCA, ROSSANDA, Brigate Rosse, cit., p. 26.
11
ALAN O'LEARY, Tragedia all’italiana: cinema e terrorismo tra Moro e memoria,
Angelica, Sassari 2007, p. 57.
12