3
La storia comincia
dove finisce la memoria.
Arnold J. Toynbee
0.0. Due perché per una memoria che non ho
Fin dal titolo questo lavoro si presenta segnato da due perché, che
costituiscono la sua ragion d’essere: perché il cinema e perché la storia dei primi anni
ottanta?
Per rispondere al secondo di questi perché, devo cercare di spiegare un
bisogno sentito come qualcosa di personale fin da quando ho iniziato a studiare la
storia italiana del dopoguerra. Il mio primo ricordo, legato, in qualche modo, ad un
evento storico, è l’esultanza del presidente Pertini per la vittoria della nazionale di
calcio ai mondiali di Spagna ’82. Ed è un ricordo televisivo, televisivamente costruito
come ricordo, perché ripetuto e ritrasmesso; un ricordo diventato quasi un’icona,
che potrebbe, credo senza troppi problemi, essere definito collettivo, comune. E già
questo mi sembra significativo per chi, come me, fa parte della prima generazione
cresciuta con l’intera potenza di fuoco televisiva dispiegata (emittenti pubbliche e
private, dato che il 1976, anno della liberalizzazione dell’etere, è il mio anno di
nascita). Non posso ricordare il sequestro Moro, la strage della stazione di Bologna,
né altri fatti di sangue simili. Non ricordo l’Irpinia, Ustica, e neppure la morte di
Berlinguer. Insomma, ben poco mi ricordo della storia degli anni Ottanta passata in
tv, della storia che io posso aver visto e sentito. Poco, almeno fino alla caduta del
muro di Berlino - ma era già il novembre 1989, quasi si entrava negli anni Novanta -.
Gli anni Ottanta li ho letti sui libri, visti nei film di basso profilo estetico che tanta
parte hanno avuto nella conquista dell’etere privato, li ho conosciuti dalle
conversazioni con quanti, avendoli attraversati con spirito critico diverso da quello
di un bambino, ne conservano vivo il ricordo (anche se magari se lo nascondono
4
bene…). Gli anni Ottanta sono, insomma, un ricordo che mi manca, una memoria che non ho,
se non per sentito dire, vissuta nelle definizioni che qualcuno dà dei nostri decenni: i
rampanti anni Ottanta.
Eppure, guardando indietro a questa memoria che mi manca, mi resta anche
la sensazione di un qualcosa di indistinto e di confuso non facilmente riconducibile
a queste definizioni; perché gli anni Ottanta, oltre che anni rampanti, sono anche gli
anni dello ‘Stato ferito’, dei molti dibattiti televisivi, del dilagare della corruzione e
della televisione come medium egemonico; sono gli anni in cui si esaurisce la follia
dell’eversismo di sinistra, in cui il terrorismo viene sconfitto e messo a tacere, e
durante i quali si consumano gli strascichi della strategia della tensione. Gli anni
Ottanta, cioè, sono segnati proprio dalle follie terminali del terrorismo e della sua
violenza, e questo proprio mentre una nuova Italia si staglia all’orizzonte; e
l’impressione che mi resta, guardando indietro, è che si faccia ancora molta fatica a
parlare con franchezza di quegli anni, come se fosse proprio questa memoria
‘diversa’ (e ‘violenta’) a cozzare contro le facili definizioni del decennio e contro le
sue immagini dominanti, rendendo il quadro non facilmente definibile. Oltre ai fatti,
agli intrighi e alle responsabilità ancora nascoste dietro ai fatti di terrorismo (siano
essi le stragi o i sequestri di persona), resta un velo opaco su questo fenomeno che
entra negli anni Ottanta, che segna l’inizio del nuovo decennio. Sembra manchi una
precisa presa di coscienza storica di questa incidenza, che permetta di capire gli effetti
disgreganti che ha avuto tanto sul tessuto sociale, sui rapporti interpersonali, quanto
nell’intimo di coloro che non lo hanno vissuto in prima persona ma solo di riflesso.
Capire, insomma, cosa significhino davvero gli anni Ottanta in relazione al terrorismo, e come
possano aver inciso e continuare ad incidere sul nostro presente: quali le memorie e le cesure nella
memoria.
Partendo da queste considerazioni sulla memoria, sono andato a vedere se e
cosa il cinema ci potesse offrire di diverso per delineare il quadro storico in maniera
più dettagliata. E, come vedremo, è proprio dall’analisi dei film scelti che emerge la
possibilità di tornare a leggere e a ricostruire il decennio degli anni ’80 in maniera
diversa, assegnando al terrorismo un ruolo chiave in questa ricostruzione.
E questo ci riporta indirettamente al primo dei perché emergenti dal titolo di
questo lavoro: il cinema, appunto. Se ho deciso, infatti, di approfondire il problema
5
storiografico dell’utilizzo del cinema come fonte storica è proprio perché ho creduto
possibile leggere un corpus scelto di film come luogo di deposito di una memoria di
quel periodo diversa da quella normalmente discussa, dove si può nascondere la
possibilità di tornare ad interrogarsi su quel periodo armati di un punto di vista altro,
che nelle immagini viste sullo schermo trovi la propria legittimità e la sua ragion
d’essere.
Ed è dunque sempre una ragione privata ad avermi indirizzato a questa ricerca,
nel tentativo di capire questo presente ancora confuso andandone a ricercare le radici non
troppo lontano, nelle immagini di vent’anni fa, o meglio, in alcune delle immagini
che di quel passato adesso ci restano. Il cinema, dunque, innanzitutto come
emozione che fa rivivere anni che non ho visto, che li riporta alla luce. Il cinema, a
grandi linee, come luogo di memoria, dove la memoria di un presente che si fa passato nel
suo scorrere può fermarsi fra un’immagine e l’altra, e quindi depositarsi, stratificarsi. Il cinema
come possibilità (virtuale) di far rivivere la memoria di quel presente sfuggente, come possibilità di
prenderne possesso, di farla oggetto d’indagine e di ricerca.
All’inizio della ricerca, quindi, ho ricercato e guardato tutti i film che in un
modo o in un altro includevano il problema del terrorismo nelle loro immagini
1
.
Nella carenza, da molti lamentata, di film italiani sul fenomeno ‘terrorismo’
2
, quattro
film hanno colpito, più degli altri, la mia attenzione: sono La tragedia di un uomo
ridicolo di Bernardo Bertolucci, Tre fratelli di Francesco Rosi, Colpire al cuore di Gianni
Amelio e Segreti segreti di Giuseppe Bertolucci. Sono questi, del resto, i pochi titoli
che in diversi segnalano come i più significativi sugli ‘anni di piombo’, senza però
mai spiegare il motivo di questa loro presunta rilevanza
3
. E’ indubbio che questi
1
O quanto meno tutti quelli reperibili, poiché non tutti purtroppo lo sono. Per una retrospettiva
completa, si veda la filmografia.
2
Si veda Miccichè 1998a, ad esempio la citazione riportata oltre. Anche Brunetta 1995, e Di
Gianmatteo 1994 sono tendenzialmente dello stesso parere: il terrorismo al cinema, al cinema
italiano, è stato fatto vedere poco e male. Non sta certo a me proporre una tesi forte contraria a
questa, che in parte non mi può non trovare d’accordo; si tratterà però di andare a vedere cosa
si possa ugualmente scoprire analizzando questi pochi film, o meglio una piccola parte di essi,
inserendoli proprio nell’orizzonte cupo di quegli anni, per vedere come e perché ci possano
aiutare a ricostruire una contro-storia di quegli anni.
3
Cosi Di Gianmatteo, che dopo aver scritto che “la materia del terrorismo non trova vera
udienza presso il cinema, lo sfiora qualche volta e subito lo abbandona”, cita proprio questi titoli
(più altri), ma per concludere poi che anche in questi film il problema viene solo accennato, mai
compreso. “Affiorante di rado nel cinema di questi anni, inserito in storie di varia natura e
consistenza, un tema cruciale come il terrorismo mostra in maniera (culturalmente) inquietante
quanto sia fragile il tessuto del cinema italiano quanto riesca difficile ai suoi registi e ai suoi
generi estrarre buona materia di racconto dal mondo che li circonda”. Di Gianmatteo 1994: 354.
Numerosi sono anche i riferimenti incrociati fra questi quattro film nelle critiche del tempo, alle
6
quattro film, rispetto a molti dei titoli della nostra ipotetica filmografia sul
terrorismo italiano, appaiono da subito i più articolati e quindi anche i più
problematici, perché sembrano mettere in discussione innanzitutto se stessi, la
propria natura cinematografica ed estetica. Pur in maniera diversa, infatti, questi
quattro sguardi sulla realtà italiana dei primi anni ottanta nascondono anche
riflessioni precise sulla loro natura; nascondono, cioè, un modo di interrogarsi sulla
forma da dare al proprio sguardo, sulla prospettiva da assumere, il punto di vista da
cui guardare.
0.1. Il cinema nella Storia: le parole degli altri ed un segno dei tempi
Ho detto che questi quattro film sono ‘sguardi sulla realtà italiana dei primi
anni ottanta’; la cosa può essere definita ulteriormente, proprio riportando una
coincidenza che li accomuna tutti. Infatti, due dei quattro film scelti per questo
lavoro, ossia Tre Fratelli di Francesco Rosi e La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo
Bertolucci, sono usciti nel 1981, e la loro lavorazione si è quindi svolta a cavallo fra
il 1980 e il 1981. Degli altri due, Colpire al cuore di Gianni Amelio è uscito nel 1983
ma è stato pensato, come si legge nelle dichiarazioni del regista e dello sceneggiatore
Vincenzo Cerami, già nel 1979 e realizzato poi nel 1981, anche se è uscito in ritardo
per motivi in un modo o in un altro legati alla censura; allo stesso modo Segreti Segreti
di Giuseppe Bertolucci è uscito sul finire del 1984 ma è stato pensato e poi
ambientato, pur in maniera certamente non chiara e con ricercata precisione
nascosta, anch’esso nel 1981. Ancora di più tutti i film, eccetto forse Tre fratelli,
prendono l’autunno come stagione ideale per l’ambientazione della storia narrata. E
tutti e quattro i film mettono in scena, in questo passaggio di stagione ed in questo
paesaggio autunnale, dove misteriosamente il terrorismo segna il clima e la tensione di
ogni S/storia, la fine di un mondo ed un lento e misterioso scivolare verso un
qualcosa percepito come altro, diverso. Vedremo in seguito quale è il valore storico
quali rimanderemo nel corso delle singole analisi. Per il momento basti sottolineare come, in un
ipotetico panorama cinematografico sul terrorismo, sono questi film ad essere ripetutamente
segnalati come gli unici veramente significativi, senza però con questo, a mio avviso, mai
capirne o spiegarne veramente la portata e la rilevanza.
7
di questi anni di passaggio e di svolta, che separano il vecchio decennio dal nuovo. Per il
momento ci interessava solo presentare questa apparente coincidenza.
Quelli scelti, dunque, sono quattro film che, in maniera diretta o a distanza di
poco tempo, riflettono la (e sulla) soglia del nuovo decennio, proprio alla luce di un
fenomeno, il terrorismo, che nella memoria del nuovo decennio sembra non avere
alcuna parte. Il terrorismo, infatti, non è un fenomeno degli anni Ottanta quanto
piuttosto del decennio precedente. E allora cosa c’entra proprio il terrorismo con
questi quattro film? Perché, appunto, ne segna il clima e la tensione narrativa,
proponendosi come chiave forte di lettura delle diverse storie raccontate (e quindi,
magari, anche della Storia che ci raccontano)?
E’ questa la domanda principale che è nata da sola durante la visione delle
pellicole, e che è rimasta come traccia di ricerca basilare. Capire perché, cioè, questi
quattro film così densi e profondi, volutamente problematici, mettano in discussione
le proprie modalità di discorso cinematografico, la propria struttura formale, proprio
mentre filtrano, sullo schermo, la realtà del proprio tempo attraverso il terrorismo:
mentre riflettono, cioè, una realtà che non è quella del terrorismo ma che risulta pur sempre
percorsa ed invasa dal problema del terrorismo. Questo, mi è dato di credere, è dovuto al
fatto che interrogarsi sul terrorismo era sentito da tutti e quattro i registi, o meglio
da tutte e quattro le équipe che hanno lavorato ai film, come problema tanto politico
quanto estetico. Un problema di forma, e quindi, anche un problema morale.
Insomma, se questi film hanno colpito più di altri la mia attenzione è perché
sembrano incastrarsi perfettamente con le precedenti riflessioni sulla memoria degli
anni ’80. Visti a distanza di anni dalla loro uscita, ci si accorge forse meglio di come
e perché questi film proponessero proprio il terrorismo come chiave di volta del
mutamento che stava avendo luogo nella società italiana; di come proponessero,
cioè, di non dimenticare la memoria di quel fenomeno e delle sue ripercussioni sul
sociale e nel privato, mostrandone in maniera precisa i risvolti allora attuali, la loro
portata ‘storica’ alla luce di un presente in mutazione o, come nel caso di Segreti
segreti, definitivamente mutato.
8
Leggendo le considerazioni di quanti riflettevano sul cinema di quegli anni,
sugli ‘schermi opachi’ degli anni Ottanta
4
, mi è sembrato di ritrovarvi le prime
impressioni avute durante la visione dei film scelti. E’ stato con la lettura di queste
riflessioni che ha avuto inizio la ricerca.
Alle varie considerazioni sulla crisi del cinema italiano si sommano, infatti,
tanto nell’analisi di Miccichè quanto in quelle di altri critici cinematografici o di
alcuni ‘addetti ai lavori’, le riflessioni sulla situazione generale dei media nel nostro
paese e sulla situazione politico-storica che attanaglia l’Italia in quegli anni. In
generale, si sottolinea il fatto che alla ‘vecchia’ generazione di cineasti - una
generazione che, nata negli anni Sessanta, aveva saputo ‘leggere’ i grandi
cambiamenti in atto nel Paese e fargli dono di un cinema politico e innanzitutto
civile - vengono a mancare, col volgere del nuovo decennio, le ‘nuove leve’ su cui
fare affidamento per la trasmissione di un medesimo impegno: “mancava proprio
una nuova generazione capace di raccogliere il testimone in piena tempesta, mentre gli
incassi subivano salassi annuali, le condizioni produttive apparivano sempre più
aspre e il mercato sempre meno ricettivo. Contemporaneamente, l’orizzonte delirante
degli ‘anni di piombo’ (…) contribuì a incupire il clima: l’ispirazione al ‘reale’ – che era stata il
cavallo di battaglia del nostro cinema postneorealistico (…) divenne vieppiù
impraticabile, spingendo intere generazioni di cineasti esordienti, e senza padri, al
singhiozzo, al lamento, al pianto, al compiacimento e al rimpianto: in una sorta di
generalizzata fuga verso il ripiegamento autoriflessivo, il rifiuto della complessità, la rinuncia
all’oggettività, l’esorcismo sistematico della cronaca e della storia, la cui (ridotta) visibilità e
(infinitamente maggiore) complessità non offrivano più le antiche trasparenze
problematiche”
5
.
Miccichè, come si legge, cerca di spiegare la crisi storica del cinema italiano
tirando in ballo proprio uno di quelli che fin dalla prima visione mi è sembrato
essere un filo rosso che unisce i quattro film scelti: il tema della visibilità ridotta sulla
complessità del presente (della cronaca) e della Storia, essendo proprio il terrorismo
ed il suo impatto mediatico una delle cause della crisi in analisi.
4
Così si intitola infatti un volume curato da Miccichè sul cinema di quel decennio, libro di
fondamentale importanza per comprendere e chiarire il quadro cinematografico generale di
riferimento.
5
Ibi: 8, corsivo mio.
9
Anche andando a leggere le parole di alcuni degli ‘addetti ai lavori’ del
cinema italiano di quegli anni, possiamo ritrovare degli spunti interessantissimi per
introdurre questo lavoro. Sono spesso dichiarazioni scritte oggi, con uno sguardo
retrospettivo sul periodo preso in esame, e che non possono non aiutare ad
assumere una prospettiva storica, ben introducendo così, a mio avviso, questo
lavoro, che aspira proprio a recuperare, partendo da questo nostro presente, il valore
di una memoria nascosta nelle immagini di allora.
Vincenzo Cerami ad esempio, co-sceneggiatore tra l’altro proprio di Colpire al
cuore e di Segreti segreti, nel suo intervento scritto apposta per il volume curato da
Miccichè, scrive: “gli anni Ottanta (…) sono stati gli anni più racchi del secolo perché hanno
cancellato la speranza, da sempre motore creativo degli artisti (…). Gli ultimi sussulti
del terrorismo, il dilagare della droga tra i disperati, i baci dei politici sulla bocca dei
mafiosi, i suicidi eccellenti in carcere, l’invasione degli immigrati, l’estetica dei grandi
numeri erano i monti, i fiumi e le pianure di un panorama italiano che ancora oggi
(…) fatica a sbiadire. L’Italia era infotografabile, anche perché all’orizzonte non si vedeva più
niente”
6
. Torna qui il tema dell’infotografabilità della realtà sociale del paese,
dell’incomprensione e della visibilità velata, offuscata, accanto a quello della
cancellazione della speranza; vedremo il loro valore nel confronto specifico con i
film e con la ricerca storica. Per il momento basti continuare ad evocarne i fantasmi.
Leggendo ancora, si possono ritrovare ancora accenni al problema della
memoria di quegli anni che ci è arrivata, e di come questa memoria sia, ancora oggi,
un nodo problematico: “gli anni di piombo sono ormai lontani e tuttavia perdura il ricordo del
senso di impotenza, sgomento e colpa che ingenerarono nella coscienza di chi si sentiva parte, sia pur
idealmente, del grande popolo della sinistra. Era un bagno di sangue che volevano
provocare i famosi slogan studenteschi contro la borghesia? Certamente no, il
brigatismo non poteva essere considerato che una scheggia impazzita (…); intanto
però ci si interrogava affannosamente sul rapporto fra parole e fatti, fra pensiero
espresso e pensiero recondito; e si faceva l’esame di coscienza, ci si leccava le ferite, si rifluiva
nel privato, mentre lo spazio pubblico veniva occupato da una nuova schiera di giovani con tutto un
altro sistema di valori e risoluti a far carriera. E’ indubbio che il lacerante ripensamento all’interno
della sinistra, in un cinema schierato in massima parte a sinistra come il nostro, non poteva non
10
creare un contraccolpo sul piano artistico. Si sa che i lutti sono duri da elaborare e non c’è da
stupirsi che con poche eccezioni lo choc sia stato rimosso traducendosi in rassegnazione, nostalgia per
la rivoluzione mancata, disillusione”
7
.
Proprio il rapporto necessario con la propria memoria e con una memoria
collettiva, condivisa, risulta centrale in queste parole di una critica cinematografica
che, guardandosi indietro, cerca di cogliere un punto di non ritorno nella storia
appena trascorsa, e di cui per l’appunto non sembra ancora essere stato elaborato il
lutto, neppure nella ‘coscienza artistica’.
Insomma, se è stata una ragione privata ad aver mosso questa ricerca, è stato
proprio iniziando a cercare materiale e a documentarmi che è nato il sospetto che
questa condizione personale fosse piuttosto il segno dei tempi, il segno di un presente che
sembra non conoscere le radici nelle quali affonda.
Un’ultima citazione ci permette di chiudere questa introduzione, facendo
anche in modo che molti degli aspetti ai quali abbiamo accennato trovino per il
momento il modo di annodarsi da soli nelle parole di altri. “la crisi di comunicazione
avvenuta a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta nasce dalla nostra incapacità di capire davvero
come stavano le cose in questo paese, cioè dalla incapacità di comprendere che l’interlocutore cui il
cinema si rivolgeva era profondamente cambiato, che la crisi riguardava ormai tanto la società civile
quanto la sua classe dirigente. Uno scollamento profondo era avvenuto tra valori e
comportamenti, tra linguaggio e azioni, l’avvento del fascismo-consumismo paventato da
Pasolini s’era realmente avverato, provocando un vero e proprio ‘genocidio delle coscienze’. (…)
Totale: negli anni Ottanta, all’interno della nostra comunità si consuma un trauma collettivo
grave, non ricomposto, e fino a oggi completamente rimosso. E il nostro cinema, tranne rari casi,
non intuisce nulla di tutto questo, non se ne accorge, non ci riflette. Si adegua al trauma, rivelandosi
poco cosciente del ruolo che avrebbe potuto e dovuto avere”
8
.
6
Cerami 1998: 358, corsivo mio.
7
Levantesi 1998: 90-91, corsivo mio.
8
Petraglia-Rulli 1998: 379-380, corsivo mio. “Uno dei problemi del nostro cinema degli anni
Ottanta era questo: i grandi miti su cui era costruito l’immaginario collettivo dal dopoguerra in poi
non erano più utilizzabili. E il guaio era che non se ne vedevano di nuovi all’orizzonte. Pare niente,
ma invece è molto. Il mito è la sorgente simbolica che mette in contatto ragione e passione.
L’assenza di nuovi miti significa che, rispetto al passato, è avvenuto un corto circuito”. Ibidem.,
corsivo mio.
11
0.2. Due parole sulla struttura di questo lavoro
Credo che quanto scritto finora basti ad introdurre questa ricerca, le cui
aspirazioni sono soltanto quelle di cercare di dare un senso ai risultati empirici
emersi dal lavoro svolto sui film presi in esame. Sarà dal confronto fra i momenti
forti di queste immagini e la ricerca storica che prenderà corpo il cuore centrale di
questa tesi.
Nella prima parte di questo lavoro propongo quindi un’analisi di questi
quattro film, un’analisi che, partendo da una conoscenza storica precedente alla
visione, cerchi di recuperarne il valore (non solo storico) a distanza di più o meno
venti anni dalla loro uscita. Nella seconda parte della tesi, invece, ho cercato di
vedere come lo sguardo che i film ci propongono sul periodo ed il fenomeno presi
in esame possa contribuire a confrontarsi con la ricerca storica tradizionale da una
prospettiva diversa. Come, cioè, si possa cercare di integrare le ipotesi storiografiche
nate dalla visione e dalla riflessione sui film, con i risultati offerti dalla prospettiva
storiografica tradizionale. Successivamente, quindi, ho cercato di delineare proprio il
metodo sotteso all’impostazione generale di questo lavoro, provando a tratteggiare
in maniera esplicita le linee guida che ho seguito nel corso della tesi; per mettere in
risalto quali siano stati i punti fermi da cui sono partito per le singole analisi, e come
da queste analisi abbia poi cercato di ricostruire delle ipotesi storiografiche da
confrontare e verificare proprio tornando a rileggere le ricerche storiche tradizionali.
Credo che la scelta del corpus da prendere in considerazione abbia retto
all’analisi e al confronto con la ricerca storica tradizionale. Ed a lavoro terminato
forse si potrebbe ripartire dall’inizio e riaprire la ricerca compiendo una scelta
diversa, per vedere se anche altri film permettano di portare avanti un discorso
unitario e fecondo. Altri sguardi, insomma, restano da essere interrogati. Altra
memoria forse si nasconde dietro le loro immagini, in attesa di essere spolverata.
Due titoli, fra tutti, mi vengono in mente: Maledetti vi amerò di Marco Tullio Giordana
e La festa perduta di Pier Luigi Murgia. Sono due visioni che mi sono rimaste in testa,
e che forse aspettano di essere rilette alla luce del nostro presente.
PRIMA PARTE
VISIONI
CAPITOLO PRIMO
La tragedia di un uomo ridicolo
Tra sogno e realtà:
una misteriosa mutazione
verso qualcosa di altro.
17
“In conclusione, tutti nel mondo sognano di essere quel che sono,
anche se nessuno se ne rende conto (…)
Che è la vita? Una frenesia. Che è la vita?
Un’illusione, un’ombra, una finzione.
E il più grande dei beni è poca cosa,
perché tutta la vita è sogno, e i sogni sono sogni.”
(Pedro Calderón de la Barca, La vita è sogno)
1.0 Introduzione
Al momento della sua presentazione al festival di Cannes del 1981, La tragedia
di un uomo ridicolo lasciò alquanto disorientati i suoi primi spettatori, apparendo come
un film molto lontano da quello che il pubblico era abituato ad aspettarsi da un
autore quale Bernardo Bertolucci, e soprattutto perché a molti sembrò un film
eccessivamente oscuro. Anche dopo che il regista ebbe aggiunto al film un
commento off, le reazioni del pubblico e della critica non cambiarono di molto, ed in
molti restò l’impressione che fosse soltanto “un’opera minore di un regista ricco di
talento”
1
.
E’ indubbio che, ad una prima visione, il film appaia oscuro e misterioso:
niente è rivelato della trama, dei perché che hanno mosso la storia e i personaggi alle
loro azioni; tutto rimane avvolto da una nebbia che offusca prima di tutto lo
sguardo di Primo, il personaggio di Tognazzi, attraverso il quale ci è dato penetrare
nella narrazione. Riusciamo a vedere soltanto quello che vede lui, a conoscere solo i
suoi pensieri, le sue riflessioni. Ed in quello strano stordimento dei sensi che
condiziona l’agire di Primo, in quella pesantezza che segue il troppo mangiare e il
troppo vino, siamo trascinati anche noi, voyeurs che vedono con gli occhi (e il
binocolo) di un voyeur. E se Primo alla fine si rassegna a non capire la realtà
contorta e sfocata che lo circonda, lasciando a noi il compito di farlo, sta a noi
decidere se accettare quell’oscurità e rimanervi invischiati oppure provare a vedere
cosa vi si nasconda dietro.
18
Fermandoci a riflettere su ciò che ci è stato dato a vedere, sulla forma assunta
dallo sguardo che, con strana vertigine, abbiamo ricalcato, e soprattutto
interrogandoci su questa nostra visione partendo da una prospettiva storica,
potremo cercare di penetrarne il mistero, seguendo i numerosi e nascosti fili che vi
si intrecciano.
Per iniziare l’analisi, è bene notare come La tragedia di un uomo ridicolo vide la
luce in un momento particolare del cinema italiano, un momento in cui si intuiva
che qualcosa stava cambiando proprio nell’impegno civile e politico che fino ad
allora aveva accompagnato lo sguardo di molti registi sulla realtà italiana. Ma, come
vedremo, questo film, rendendo visibile proprio il disorientamento dello sguardo
che sembrò abitare molti registi, ci parla del suo tempo in maniera molto ricca e
feconda.
Leggendo un’interessante dichiarazione di allora, rilasciata da un uomo di
cinema come Adriano Aprà, iniziamo a capire parte del senso racchiuso nella
misteriosa forma di questo film, così oscuro ad una prima visione: “che cosa si
riflette di tutto questo nel cinema-cinema che si fa oggi? Prendiamo alcuni esempi
‘alti’. Nei loro ultimi film Bertolucci, Antonioni e Ferreri hanno il coraggio di
abbandonare per un momento il privilegio internazionale che il loro statuto di autori
gli consente, per ripiegarsi sui mali del loro disgraziato Paese. La tragedia di un uomo
ridicolo, Identificazione di una donna e Storia di Piera danno forma a un disagio, rendono
stile l’esitazione, abbandonano ogni pretesa assertiva, ogni estetica dell’effetto speciale, per
concentrarsi sulla comunicazione diventata difficile, a volte impossibile: tra padre e figlio, tra
amanti, tra donna e donna. Al loro esterno, una giungla di segni, spesso emozionanti,
quasi sempre indecifrabili. Il ripiegamento interiore appare come disperata salvezza,
e ogni soluzione è rimandata”
2
.
Sarà la preoccupazione di vedere come sia stato possibile ‘rendere stile
l’esitazione’ che ci dovrà accompagnare durante questa analisi, per scoprire cosa
questo abbia voluto, e voglia tuttora, dire. Ed interrogando questo sguardo cifrato, e
al tempo stesso interrogandosi sul nostro sguardo e sul nostro ancora attuale
disorientamento davanti a questo film, forse potremo riuscire a penetrare in un altro
1
Come titolò Miccichè la sua critica su «l’Avanti».
2
Adriano Aprà in Faldini-Fofi 1984: 720.
19
mondo, raschiando quella superficie opaca depositata dal tempo, ed arrivando a
ritrovare una memoria che, nel corso degli anni, vi si era nascosta sotto. Perché “La
tragedia di un uomo ridicolo (è il film) con cui Bertolucci si è congedato
temporaneamente dall’Italia. Un film criptico e inquietante che l’autore ha
ambientato nella sua Parma del ‘dopo rivoluzione (mancata)’: rivisto oggi, sembra un
concentrato simbolico del nostro stallo psicologico, di un conflitto generazionale senza più contorni
distinti, del nostro presentimento di una trasformazione misteriosa (di che? verso cosa?) che non
eravamo (lo siamo?) in grado di capire”
3
. In questa breve riflessione, scritta a distanza di
quasi vent’anni dall’uscita del film, c’è molto del senso nascosto di questa pellicola: il
conflitto generazionale, lo stallo di fronte ad una realtà indistinta e sfumata, davanti
ad una mutazione misteriosa. Ed ancor più interessante è per noi la riflessione sulla
propria posizione di critico, ed in primo luogo di spettatore, che, rivedendo il film a
distanza di anni, vi ritrova il presentimento angosciante di una condizione che
ancora sembra possederlo. Dovremo allora cercare di approfondire quello che qui è
però solo un’intuizione, una sensazione.
1.1. Dichiarazioni di Bernardo Bertolucci
Bertolucci ama molto parlare dei suoi film, tanto al momento della loro uscita
quanto retrospettivamente, a distanza di tempo. E’ facile ritrovare le molte interviste
rilasciate al momento dell’uscita di La tragedia di un uomo ridicolo, interviste che dettero
modo al regista di descrivere a fondo la genesi del film, i retroscena, le scelte formali
e quelle riguardanti la caratterizzazione dei personaggi. Tra le molte dichiarazioni,
abbiamo cercato di ricostruire un discorso generale di Bertolucci attorno al suo film,
ritenendole molto importanti non tanto per quanto ci possano rivelare o meno del
film stesso, ma in quanto documento storico che si somma alla visione del film, che ci
aiuta a capire l’atmosfera che lo ha visto nascere e prendere forma definitiva.
Direttamente interrogato su cosa il pubblico avrebbe potuto trovare nel suo
nuovo film, Bertolucci delinea a grandi linee molti dei temi che altrove riprenderà
più approfonditamente: “«che cosa pensi debba trovare il pubblico in questo tuo
ultimo film?» Una immagine reale del paese non ricalcata su modelli dei media. E credo che ci
3
Levantesi 1998: 98.
20
possa essere una identificazione con la sua quotidianità, soprattutto se il pubblico arriverà a
provare delle emozioni, cosa oggi molto rara, senza che ci sia il ricorso a particolari
scioccanti, di sangue e di sesso femminile esibito (…)”
4
. E, più oltre, specifica: “mi
sono detto: voglio fare un film sull’Italia (…) ma su un’Italia che non siamo abituati a leggere
sui giornali, un’Italia minore, provinciale (…) (e) ho deviato il giallo sul malessere di questi
anni”
5
.
Subito Bertolucci denuncia le sue intenzioni: l’aver voluto fare un film sul
momento storico vissuto dall’Italia in quegli anni, parlando dell’Italia da una
prospettiva minore, per non cadere negli stereotipi con i quali i media raccontavano
l’Italia di allora. “«Al contrario di ciò che solitamente succede nel cinema italiano, tu
aggiri la trappola degli stereotipi, prendendo solo un frammento di questa realtà. Lo
gonfi e racconti una storia particolare, in cui fai filtrare umori e disagi di una realtà
più generalizzata (…)» Quella del film è un’Italia minore, di provincia, proprio
perché volevo sfuggire agli schematismi che inevitabilmente ti schiacciano se parli
della realtà delle grandi città. Finisci, in quel caso, per parlare di personaggi che sembrano
uscire dai media, dalla tv, da Espresso e Panorama. Personaggi senza spessore, perché quella dei
media è una realtà parallela che non corrisponde a nulla. Tognazzi invece è così
sanguignamente padano da non lasciare dubbi. ‘Spia’ le cose dalla terrazza di casa
sua, col binocolo (…) ma mostra una totale incomprensione per ciò che succede. La sua è
volgarità poetica. Ecco io spero di essere stato coraggioso nell’ingigantire questa
tragedia individuale, senza la pretesa di spiegare nulla. Parlando solo di ciò che conosco.
L’incomprensione di Tognazzi nel film è anche la mia. Io in questo momento sto dalla parte
dei vecchi”
6
.
Ma cosa c’entra, e come c’entra, il terrorismo con questo mistero che rimane
sospeso? Leggendo ancora, si vede come Bertolucci avesse le idee molto chiare a
riguardo.
“Mi è sempre stato difficile, anche nel ’68, dividere il mondo in giovani e
adulti (…) La mia idea sui giovani la esprimo attraverso il film, è l’idea del personaggio
che, in quel momento della storia si sente in colpa per suo figlio, per tutto il progetto che ha
4
Santuari 1981, corsivo mio.
5
Ibidem, corsivo mio.
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organizzato. Ma per dare un riferimento più preciso, dirò che questo testo viene quasi
del tutto da un testo di Pier Paolo Pasolini. Negli ultimi anni della sua vita Pasolini
aveva scritto degli articoli su ‘Il Corriere della Sera’ e trovo che ci fosse un certo rapporto
tra quello che Pasolini aveva detto e quello che è successo dopo, voglio dire quattro o cinque anni
dopo la sua morte. In più c’è qualcosa che ai tempi di Pasolini cominciava appena, il
terrorismo. Se mi si domanda se ho fatto un film sul terrorismo, rispondo di no, perché la lettura,
il testo del film non è sul terrorismo. D’altra parte mi è impossibile negare che se si fa un film
sull’Italia nel momento attuale, il terrorismo è un elemento che fatalmente sarà nel film…Il
comportamento a tutti i livelli, pubblico e privato, è stato influenzato dal terrorismo in Italia. I
media, la televisione, i giornali, le riviste hanno preso un’attitudine che è in qualche modo
influenzata dal terrorismo, basta guardare la grafica dei giornali. Non volevo fare un film sul
terrorismo, ma un film su una storia privata. Ma un film è uno work in progress, allora bisogna
accettare quello che la realtà ti dà. Nei rapporti privati vedo, soprattutto tra i giovani e le
generazioni adulte, una sorta di sospetto che non c’era quando avevo vent’anni. Questo film è
pieno di sguardi tra tutti i personaggi e, se avete notato, si guardano tutto il tempo,
perché sono tutto il tempo presi da un’ondata di sincerità e il contrario di tutto questo, il sospetto.
(…) Posso dire una cosa (…) se guardo verso Tognazzi ho l’impressione di vedere
una generazione e una cultura che capisco. Se guardo verso Laura Morante e Victor
Cavallo la cosa che mi ha subito affascinato e anche un po’ terrificato in loro è il
mistero. Ho cercato di rappresentare questo mistero”
7
.
Oppure, ancora: “io non ho voluto fare un film sul terrorismo, bensì un film
sull’Italia. Ma, chiunque faccia oggi un film sull’Italia finisce per fare un film sul terrorismo. Ciò
perché il terrorismo è uno degli elementi fondamentali del processo di mutazione in atto nel nostro
paese. Ciò perché il tessuto sociale odierno è così perverso che non si capisce dove siano le vittime e
dove siano i carnefici, chi sia colpevole e chi no. Questo tessuto traspare, almeno spero, nel film, dove
si incrociano molti fili, in maniera inestricabile. Anche i colori entrano l’uno nell’altro e diventano
indecifrabili”
8
.
6
Duiz 1981. Si veda, in parallelo, la costruzione artificiale dei personaggi dei tre fratelli nel film
di Rosi. Bertolucci altrove dice di aver ricercato, in questo film, un parlato cinematografico
‘basso’.
7
Bertolucci 1981: 346, corsivo mio. “Je voulais surtout qu’ils représentent le mystère de la
jeunesse d’aujourd’hui. Je ne pense pas que toutes les jeunesses soient mystérieuses. La
jeunesse de ma géneratione par example ne l’était pas”. Ciment 1981: 25.
8
Costantini 1981, corsivo mio. E poi oltre: “io credo che dare oggi delle risposte sul terrorismo
in Italia, proporre delle conclusioni, sia da irresponsabili. Al massimo ci possiamo porre delle
domande, ed anche con molto sforzo” Costantini 1981.