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sociale, culturale. “Il riaffermare la propria identità” , “la perdita
d’identità”, “la crisi d’identità”, sono tutte definizioni ricorrenti
nel linguaggio comune, ma sono artefatti culturali che vengono
elaborati solo da un certo momento della storia.
Oggi viviamo in un mondo di contaminazione fra sistemi
culturali diversi - nell’ambito della produzione artistica,
letteraria, filosofica e sociale – e fra aggregati sociali. La
contaminazione è espressione emblematica della nuova
dimensione di apertura del mondo contemporaneo.
Attraverso questa chiave di lettura è possibile pensare ad un
movimento orientato alla formazione e alla dissoluzione delle
identità.
L’effetto del cambiamento è la formazione di nuove identità che
si caratterizzano per essere il risultato, ancora incompiuto, di
creolizzazzioni, cioè di processi di ibridazioni dal risultato
imprevedibile. A ciò si associa una ricerca di nuove dimensioni
sociali e territoriali che proiettano le persone verso un futuro
inventivo e aperto.
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PARTE PRIMA
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CAPITOLO 1: ACCULTURAZIONE
Il termine acculturazione, secondo Melville Herskovitz, è
utilizzato per la prima volta in uno studio dell’etnologo
americano Powell ( 1880: 46) sulle lingue indiane, in cui sta a
significare il “prestito” di parole e suoni che una lingua trae
dall’altra. Tra gli etnologi tedeschi dei primi decenni del ‘900 il
termine indicava “adattamento” fra due culture.
L’interesse per il concetto e la diffusione del termine accrebbero
nel periodo fra le due guerre mondiali a causa dei problemi
sociali e politici sorti come conseguenze del colonialismo
europeo (a scapito dei paesi africani e asiatici).
In questo contesto il termine acculturazione designava
l’accoglimento e la riformulazione dei tratti della cultura europea
da parte dei popoli delle colonie africane e asiatiche, nonché
degli indiani d’America, “colonizzati in patria”.
Questa disparità del rapporto tra una cultura “debole” che
necessariamente è destinata ad accogliere i tratti di una cultura
“forte” si è riflessa sulla successiva storia del termine, fino a
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interessare le ricerche e gli studi di numerosi antropologi e
storici. Tra questi è fondamentale ricordare Alphonse Dupront
(1996), un classico dell’antropologia culturale che, nel primo dei
suoi due saggi presentati al XII Congresso internazionale delle
scienze storiche a Vienna nel 1965 , riflette sulla nozione stessa
di acculturazione.
Il termine, che è rimasto soprattutto circoscritto all’America, (in
Inghilterra si preferisce l’utilizzo di espressioni più ampie e più
comprensibili come contatto di culture, scambio di culture,)
secondo Dupront, connota un significato ambiguo.
Formato sulla parola “cultura”, l’acculturazione è il movimento
di un individuo, di un gruppo, di una società e anche di una
cultura verso un’altra cultura: dunque un dialogo, uno scambio,
un insegnamento, un confronto, una mescolanza e più spesso una
prova di forze.
Dupront sostiene anche che il termine si carica di un significato
fecondo in un’età in cui i rapporti fra i popoli colonizzati e
colonizzatori si sviluppano su basi nuove come l’unità nella
diversità che si contrappone agli schemi di riduzione all’unico.
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Per Melville Herskovitz: “L’acculturazione è lo studio della
trasmissione culturale in corso e comprende i fenomeni che
risultano dal contatto diretto e continuo fra gruppi di individui di
diverse culture, con cambiamenti susseguenti nei tipi culturali
originali dell’uno o di ambedue”( Herskovitz:, 1936: 149).
Il problema, secondo Dupront, sta nel fatto che gli studi
sull’acculturazione riguardano incontri fra culture occidentali e
quelle “indigene”.
E’ vero che nel caso di gruppi umani agli antipodi si verifica una
sorta di incontro - scontro che facilita lo sviluppo ad una ricerca,
ma è pur vero che bisogna guardarsi dal trarre conclusioni
affrettate; come ad esempio affermare che c’è il “forte” e c’è il
“debole”: ciò equivale a dire che in un processo conoscitivo che
nasce dall’esperienza coloniale, lo studio dei fenomeni di
acculturazione fra società o gruppi umani così contrastanti, resta
pericolosamente europocentrico.
A questo proposito, Dupront chiama in causa le scienze umane
quali la storia, l’antropologia, la sociologia per promuovere la
necessità di studi e ricerche interdisciplinari sull’acculturazione,
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alla cui base ci sono altri due concetti importanti: quello della
coesistenza e quello della comprensione. Entrambi rispecchiano
un cambiamento strutturale nella storia delle culture.
In passato, infatti, eravamo propensi a scatenare guerre, violenze
che caratterizzavano qualsiasi tipo di incontro, oggi invece si
proclama (anche se spesso non è attuata) una vita comune fra
popoli all’insegna del rispetto reciproco alla cui base c’è la
comprensione.
Nel cambiamento culturale alcuni antropologi, soprattutto
nordamericani, distinguono tra due processi: l’inculturazione e
l’acculturazione.
Il primo indica processi con i quali l’individuo acquisisce la
cultura del proprio gruppo (famiglia, società nazionale…), il
secondo indica invece l’insieme dei processi di acquisizione
cosciente o meno della cultura o di alcuni tratti culturali di un
altro gruppo sociale.
L’inculturazione è un termine introdotto dall’Antropologia
Culturale nordamericana in sostituzione o in alternativa a
“socializzazione”.
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Ciò è dovuto, probabilmente, al fatto che nell’Antropologia
statunitense il concetto di cultura prevale su quello di sistema
sociale, implicito nel termine “socializzazione”.
Generalmente si ritiene che, come la “socializzazione”, anche
l’inculturazione costituisca un apprendimento informale o che
scaturisca dai processi di interazione sociale.
L’emigrazione è uno di quei casi frequenti di acculturazione tra
gruppi umani, in cui due sistemi culturali a contatto si scambiano
e qualche volta trasformano i modelli di comportamento di
ciascun gruppo, ciò che è chiamato oggi “contaminazione”.
“L’Acculturazione può definirsi come un processo di interazione
fra due o più gruppi che hanno culture differenti e durante il
quale uno dei gruppi o entrambi recepiscono vari tratti dell’altra
cultura. Gli antropologi utilizzano spesso il termine come
sinonimo di < contatto tra culture >” (Gallino, 1988: 1).
Purtroppo molto spesso questa contaminazione non si verifica
“orizzontalmente” bensì “verticalmente”; basti pensare a quello
che è avvenuto tra le nazioni europee e le società africane e
asiatiche ridotte a colonia nel corso del Settecento e
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dell’Ottocento oppure a ciò che avviene durante lo svolgimento
di una guerra.
In questi casi in un processo di acculturazione svolge un ruolo
importante il rapporto di forze in fase di interazione culturale.
Il processo di acculturazione tra dominatori e dominati può
procedere al punto da rendere indistinguibile, dopo alcune
generazioni, la cultura degli uni e degli altri. Un qualsiasi tratto
culturale, infatti, può essere non solo accolto o respinto, ma
anche modificato in vari modi tanto da favorire il suo
adattamento agli altri tratti della cultura locale.
La definizione di una determinata cultura è in realtà il risultato di
un rapporto di forze interculturali: la cultura dominante detiene la
facoltà di assegnare alle altre culture il loro posto nell’intero
sistema. Esistono dunque delle culture che hanno il potere di
“nominare” altre culture, di circoscrivere cioè il campo della loro
espressione e altre che possono solo essere nominate.
Fortunatamente il sistema non è statico, nel senso che queste
culture, prima assoggettate, diventano dominanti e altre nascono
e spariscono di continuo.
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Questo repentino mutamento, o scambio di ruoli, riguarda anche
le strutture interne di ogni cultura: ad esempio in campo politico
si può passare da un sistema centralizzato ad uno segmentario.
Partendo dal presupposto che ogni cultura è la risultante di
rapporti di forza interni, è difficile immaginare che il processo di
acculturazione possa avvenire senza conflitti e perturbazioni
sociali.
Comunque è implicito nella definizione di acculturazione il
principio che uno dei suoi effetti sia di accrescere l’eterogeneità
delle culture coinvolte nel processo. Non è detto che tale
eterogeneità debba dar luogo a dissonanze, anche se è possibile
che in un primo momento un intenso contatto culturale possa
portare ad un conflitto, peraltro facilmente superabile se vi è la
convinzione da entrambe le parti che tale contatto contribuisca
all’arricchimento personale.
Chiarito per grandi linee il significato del termine va detto che
rimangono molti interrogativi sul suo impiego, come afferma
Dupront infatti : “siamo proprio sicuri che nella vita
internazionale a scala mondiale del nostro tempo è necessario un
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unico vocabolario? Sul piano tecnologico sicuramente, ma
guardiamoci bene dal confondere tecnologia e conoscenza” e
continua teorizzando che una pluralità di espressioni vale più di
una serie di riduzioni. Occorre innanzitutto distinguere fra le
diverse concezioni di acculturazione (quella antropologica e
quella sociologica) a cui seguiranno altre attente analisi parallele
che permetteranno agli studiosi di liberarsi di un discorso
universalistico e forse aiutarli a comprendere il mondo umano.
La nozione di acculturazione, infatti, non va imposta alle civiltà o
alle culture che sono ben lungi dal rendersi conto del fenomeno o
che l’esprimono diversamente.
Va comunque detto, a mio avviso, che il punto di partenza
indispensabile per ogni studio di acculturazione è stabilire le
modalità del contatto, dell’ “urto”, del comportamento reciproco
fra le due parti in campo.
Esistono tanti stili quanti sono gli scambi; un moltiplicarsi del
vocabolario, ma è necessario sottolineare che questi uomini da
una parte e dall’altra non sono nati il giorno dell’incontro, ma
sono già portatori di un universo precostituito.
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1.1 IL MULTICULTURALISMO
Prima del XX secolo, le due spinte principali all’interazione
culturale sistematica sono state le guerre e le religioni che hanno,
come nel caso dell’Islam, usato la guerra come strumento
legittimo per la loro espansione. Così tra viaggiatori e mercanti,
pellegrini e conquistatori, tutto il mondo è stato coinvolto in un
intenso traffico culturale a distanza e a lungo termine.
Questo discorso nel 2001 può sembrare scontato, ma non bisogna
dimenticare che a quel tempo le relazioni culturali tra gruppi
separati dal punto di vista sociale potevano avvenire solo con
grande fatica.
Tutti i meccanismi del periodo spingevano contro tali espansioni,
ma a favore di comunità circoscritte.
Una spinta verso il cambiamento si ha grazie all’innovazione
tecnologica e agli interessi economici che spingono alla
creazione di legami solidi con diverse società; legami che si
rafforzano sempre più sino ad arrivare a quello che Marshall
McLuhan chiama “il villaggio globale”.
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Con l’avvento di telefono, televisore, macchina, aereo, computer,
si crea una situazione di vicinanza con chiunque e soprattutto
ovunque.
Oggi, la società multiculturale occidentale è fatta di incontri,
conflitti, scambi, rapporti, legami e anche di prodotti nuovi come
il cinema, la musica, frutti della contaminazione, o comunque
della relazione fra culture diverse “viventi” sullo stesso
territorio. Ad esempio in Italia, realtà apparentemente
monoculturale, multiculturalismo vuol dire sia ritrovare,
rintracciare, riscoprire e valorizzare all’interno della propria
cultura gli elementi disomogenei, le diversità, le minoranze
linguistiche sia apertura, contatto con le culture esterne e con un
panorama culturale nuovo portato dagli immigrati.
Il patrimonio culturale è fatto di comportamenti, valori,
atteggiamenti, sentimenti: ossia di elementi poco palpabili che
però a lungo andare incidono sui comportamenti che a loro volta
modificano i rapporti umani. Man mano che la presenza di
immigrati si allarga ed entra nel tessuto di processi economico -
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sociali, la cultura della società si arricchisce, si modifica e si
estende.
Bisogna dire che è un processo molto lento e fortemente
contraddittorio.
Tuttavia nella fase attuale, caratterizzata da progressi incredibili
nel campo della comunicazione, dal moltiplicarsi di strumenti e
tecnologie, di merci simboliche come il linguaggio e i mass
media, è possibile che questo processo subisca delle
accelerazioni.
Tutto ciò era impensabile fino a poco tempo fa, le grandi
migrazioni dal sud e dall’est del mondo hanno portato molto
lentamente all’emergere di culture diverse. Oggi le possibilità
aumentano sia per una presa di coscienza anche se lenta e
faticosa, sia per una volontà esplicita di aprirsi alle nuove culture.
Ci sono poi esperienze precedenti cui far riferimento come la
Francia o gli Stati Uniti e ci sono nuovi strumenti a disposizione:
anche gli immigrati, nonostante le difficili condizioni di
esistenza, vedono la televisione, vanno al cinema e “fanno”
cinema.
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Hanno la possibilità, quindi, di usare strumenti di comunicazione
anche al fine di un migliore inserimento sociale del paese nel
quale vivono.
Non credo sia di facile attuazione una società autenticamente
multiculturale, vedendo l’esito che hanno avuto molte società
multietniche come quella nord americana o quella inglese, in cui
ad esempio il cosiddetto “melting pot” ha significato di fatto
l’insorgere di prepotenti spinte verso la conservazione o il
recupero dell’identità culturale separata nei confronti degli
appartenenti alle altre culture.
E’ importante sottolineare questa dicotomia che vede da un lato
l’integrazione e dall’ altro l’esigenza opposta di preservare gli
elementi specifici della propria cultura d’origine.
L’obiettivo è quello di una società plurietnica , che è già una
realtà in gran parte dell’ Occidente, in cui c’è da tempo una
presenza massiccia di stranieri.
Due, quattro o cinque milioni di stranieri sono una minoranza
molto importante, soprattutto quando è formata da etnie e culture
diverse.