4
strutture: la Guinea era il maggiore esportatore al mondo di banane, oggi le banane
servono unicamente per sfamare la gente.
In Senegal i francesi imposero la monocultura intensiva di arachidi: per anni lo stesso
tipo di coltivazione sullo stesso terreno. Questo ha impoverito la terra rendendola poco
fertile e, di conseguenza, scarsamente coltivabile. E poi manca l’acqua.
Il Continente si è trovato da un momento all’altro solo ed incapace a gestirsi, succube
delle decisioni dei suoi ex padroni e nuovi padroni, spesso scelti dalle stesse nazioni
colonizzatrici. “L’Africa non ha bisogno di soldi ma di infrastrutture”, sostengono i
tanti portavoce del continente.
D’altronde se dal Continente Nero non ci arrivano che notizie di catastrofi, come si può
immaginare ci sia un’altra Africa?
L’Africa, fortunatamente, non è solo questo.
L’altra Africa è quella dove la stabilità politica permette un lento sviluppo, con un
popolo che, malgrado tutto, non ha perso la sua joie de vivre; è l’Africa che vuole
ricomporsi con dignità e far sentire la sua voce.
L’Africa della musica che parla attraverso i suoi esecutori conosciuti all’estero grazie,
sempre, a produttori stranieri. Gli esempi più conosciuti sono i senegalesi Youssou
N’Dour, Baba Maal e l’Orchestra Baobab, i maliani Selif Keita, Rokia Traorè, Baba
Sissoko, Amadou & Mariam, la cantante di Capo Verde Césaria Evora, ai quali vanno
aggiunti i ballet, un nuovo genere di spettacolo coreografico ispirato ai riti della
tradizione con canti, danze e percussioni, genere vendibile in occidente. Conosciuti ed
apprezzati anche in Europa alcuni scrittori africani come Léopold Sedar Senghor,
Chinua Achebe, Léon Dumas e Aimé Césaire.
Non ci può essere sviluppo materiale e spirituale senza un accurato investimento nella
cultura, nella scuola e nelle arti, in altre parole senza un coinvolgimento delle grandi
masse attraverso la sensibilizzazione sui problemi quotidiani.
L’arte e la cultura sono il mezzo e non il fine per lo sviluppo economico.
Anche attraverso il cinema, il fenomeno artistico più giovane.
5
CAP. 1 IL CINEMA IN AFRICA.
In Africa il primo film diretto da un regista africano è datato 1955.
Si tratta di Afrique -sur-Seine, ritenuto il film d’esordio della cinematografia dell’Africa
Nera, per opera di Paulin Soumanou Vieyra, regista e storico di cinema senegalese
che, in un cortometraggio di venti minuti, racconta la vita dei giovani immigrati
africani nella capitale francese, Parigi. Solo dal 1960 in poi si può parlare di
cinematografia, anno in cui i coloni europei cominciano a lasciare le terre africane
accettando le domande di indipendenza. Il primo paese a decidere per “la libertà nella
povertà piuttosto che la prosperità in catene” fu la Guinea di Sekou Touré, primo
leader a rifiutare la proposta di Charles de Gaulle nel 1958 di far restare i francesi sul
territorio.
1.1 Distribuzione.
Il cinema africano è un cinema giovane che continua a soffrire per mancanza di mezzi
finanziari e di politiche governative, necessarie per creare infrastrutture utili per la
produzione e la distribuzione dei film e che continua a vivere grazie alle sovvenzioni,
agli aiuti, alle coproduzioni spesso esterne al continente. Dalla fase dello sviluppo della
sceneggiatura, il produttore di un film africano inizia a valutare tutte le possibilità per
il reperimento dei finanziamenti necessari per la realizzazione delle riprese, per il
montaggio delle immagini, per la post-produzione e per la promozione del film.
Vengono contattati i governi nazionali per verificare l’accesso ai fondi pubblici, si
cercano alleanze con coproduttori di altri paesi valutando le possibilità di pre-vendita
del film nei mercati internazionali. Quando tutto ciò avviene e il produttore ottiene il
finanziamento i film vengono spesso ritardati o modificati nella struttura per meglio
accomodare i mercati internazionali. Come se non bastasse non tutti i paesi africani
dispongono di fondi statali da investire nel cinema.
Il nodo è la distribuzione, o sottodistribuzione come la definì Blaise Senghor, che,
invece di incrementare il mercato cinematografico americano nelle sale africane,
avrebbe dovuto obbligare gli esercenti alla programmazione di film nazionali,
garantendo così ai produttori locali introiti sulle vendite
2
.
In alcuni paesi le leggi ci
sono ma non sono applicate.
2
Afriche e Orienti, rivista di studi ai confini tra Africa, Mediterraneo e Medio Oriente, Voci di donne nel cinema dell’Africa
e del Mediterraneo, numero speciale, anno 2004, AIEP Editori, p. 22.
6
Occorre fare un passo indietro nella storia per rendere questo discorso più chiaro.
Con la fine della Seconda guerra mondiale le compagnie di distribuzione americane
come la Warner Bros., la Odeon e la UGC entrarono aggressivamente nei mercati con
prezzi competitivi, comprando e monopolizzando le sale cinematografiche a livello
locale, riducendo la possibilità di spazi alternativi e imponendo la distribuzione di certi
film piuttosto che altri.
Anche in epoca post-coloniale la distribuzione è in mani straniere, esattamente come
nel periodo coloniale. Alle case di distribuzione americane si affiancano quelle europee,
spesso gestite dagli ex colonizzatori. Nell’Africa Orientale la francese Secma-
Comacico controllava l’importazione, la produzione e le sale di ben quattordici stati,
dividendoli in tre zone:
• Senegal, Mali, Mauritania e Guinea.
• Costa d’Avorio, Burkina Faso (ex Alto Volta), Niger, Benin e Togo.
• Camerun, Gabon, Congo, Ciad e Repubblica Centrafricana.
3
Non diversamente dal monopolio francese, la belga Cofilmex gestiva Zaire, Ruanda
e Burundi mentre per la parte anglofona una filiale dell’americana Mpeaa, la
Ampeca, controllava Ghana, Liberia e Nigeria.
In questo modo nelle poche e mal gestite sale africane si forma automaticamente una
classificazione tra film di serie A, proiettati nelle sale al chiuso, generalmente di
importazione americana, con posti a sedere comodi e prezzi impossibili per la
popolazione locale, e film di serie B, spesso di importazione indiana o cinese, con
grande partecipazione del pubblico e biglietti dai costi accessibili. Generalmente questi
film raccontano di caste storie d’amore o propongono interminabili combattimenti di
kung-fu, vengono proiettati in stanze sovraffollate ricavate da case abbandonate adibite
a cinema con pochi posti a sedere, oscurate da tende. Economicamente parlando, la
vendita dei biglietti non può assolutamente assicurare una percentuale
sull’autofinanziamento di film in loco. Su un piano prettamente culturale risultano
come film di intrattenimento, divertenti e semplici, per un pubblico giovane
(solitamente queste sale sono sovraffollate di bambini), con tematiche lontane dalla
cultura africana e, di conseguenza, non seguiti dal pubblico adulto bisognoso di storie
nelle quali identificarsi.
3
Giuseppe Gariazzo, Poetiche del cinema africano, Lindau Cinema, 1998, p. 15.
7
1.1.1 Fepaci.
I registi africani si opposero a questa speculazione e nel 1969 si riunirono ad Algeri
per fondare il FEPACI (Fédération Panafricaine du Cinéma), l’Organo Sindacale dei
Cineasti Africani. Ritenuti estremisti di sinistra, idealisti e panafricanisti, con l’unica
missione di utilizzare il cinema come strumento di liberazione e per un’Africa Unita, i
cineasti stipularono una sorta di regolamento che ogni stato africano avrebbe dovuto
seguire per garantire un futuro al cinema. Le proposte sono brevemente elencabili in
tre punti:
1. imporre in ogni stato una Società Nazionale di Distribuzione che abbia il monopolio
dell’importazione dei film (onde evitare il massiccio ingresso solo alle pellicole provenienti dalla
Cina, dall’India e dagli Stati Uniti) e che stabilisca una quota annua di film africani da proiettare
nel paese.
2. creare un mercato comune di distribuzione tra stati di aree linguistiche e geografiche
omogenee.
3. ottenere la riforma generale del sistema fiscale per permettere profitti ai film nazionali,
produrre nuovi film e costruire nuove sale.
4
L’esigenza dei cineasti era di creare una nuova estetica: dei documentari che
denunciassero il colonialismo, dove questo esisteva ancora, e delle fiction per
combattere l’alienazione economica e culturale dei paesi indipendenti faccia a faccia
con i paesi occidentali. “Fu un periodo di attivismo e dinamismo, profondamente
segnato dalla personalità di Ababacar Samb Makharam, primo segretario generale
della FEPACI, cineasta senegalese” scrisse Tahar Cheriaa.
Nel 1975 il FEPACI si riunì ancora ad Algeri e rifiutò ogni forma di cinema
commerciale. Fu la lotta contro il neocolonialismo e l’imperialismo di tutti i cineasti
africani, progressisti compresi, cioè coloro che avevano una visione più occidentale ma
erano comunque in lotta per l’autonomia. Gli incontri si interruppero fino al 1982,
quando i cineasti si rincontrarono a Niamey. In questa occasione i cineasti redissero un
manifesto, abbandonarono la lotta all’imperialismo per promuovere un’industria
cinematografica africana e figure come gli operatori economici, uomini d’affari ed
investitori necessari allo sviluppo del cinema.
4
Giuseppe Gariazzo, Poetiche del cinema africano, Lindau Cinema, 1998, p. 16.
8
Scrive Sony Labou Tansi, autore congolese:
“Ti insulto Occidente Ma
è sempre con dolcezza Che ti
insulto Poiché tu
ed io Siamo come sangue
Che bighellona.”
5
Tanto in Africa quanto in Europa la distribuzione è monopolio di compagnie chiuse
nel pregiudizio che il cinema africano non susciti l’interesse del pubblico nonostante il
moltiplicarsi di festival tematici ed il successo di quei pochi film distribuiti con un
minimo di coraggio. Un esempio recente è Faat Kiné (2000) di Ousmane Sembene.
Assente nei festival internazionali ma visto in Senegal da più di 400.000 persone
grazie ad una tournée cinematografica organizzata dallo stesso Sembene. Un altro film
seguito con passione dal pubblico africano è stato Lumumba di Raoul Peck, distribuito
dall’associazione Ecrans Nord-Sud in sette paesi africani con un’affluenza di 35mila
spettatori. Quando un film riesce a sfondare anche la stampa ne dà la notizia; è il caso
di Les Couilles de l’éléphant del gabonese Henri-Joseph Koumba Bifidi, prodotto nel
2002, film che ha aperto la 17° edizione del festival di Ouagadougou e ha ricevuto un
discreto successo anche in Francia. La critica e la presentazione del film appaiono su
Le Soleil, quotidiano di Dakar, benché l’autore sia di un altro stato. Ciò significa che
lentamente l’informazione si sta spostando dalla parte dei cineasti, forse tra qualche
anno non saranno più solo intesi come rivoluzionari ma come autori.
Una distribuzione dinamica potrà facilitare il mercato e l’accesso ai film ma non
creerà il pubblico: per capire il cinema africano occorre conoscerne la storia, la
tradizione, la musica, occorre interessarsi all’Altro. Una società che non si affaccia
all’Altro, ma che preferisce assimilarlo, che nega di essere pluriculturale, non aiuta lo
sviluppo artistico dei paesi, asetticamente classificati come Terzo Mondo, e di
conseguenza il loro recupero economico e sociale. Come disse più volte il padre del
cinema africano Ousmane Sembène “occorre recuperare dignità, per essere
consapevoli del cambiamento”. La società francese, ma non solo, che fino a pochi
decenni fa riteneva di poter civilizzare il continente e che ora pensa che non ne valga
più la pena, non andrà di certo a vedere un film africano.
Il peso della colonizzazione è difficile da superare; come dice Andrée Davanture “è
questa l’autentica ambiguità della francofonia: se gli africani non parlassero francese si
sarebbe più coscienti della differenza!”.
5
Sony Labou Tansi, La Vie privée de satan, citato da Jean-Michel Devésa, in Sony Labou Tansi, écrivain da la honte et des
rives magiques du Kongo, L’Harmattan, 1996, p. 146, tratto da Olivier Barlet, Il cinema africano, lo sguardo in questione,
L’Harmattan Italia, p. 81.
9
La Francia ha importato diversi film dall’Africa che, inaspettatamente, hanno colto la
curiosità e l’apprezzamento del pubblico francese bianco, cioè quel pubblico che
spende per il cinema, che si interessa, che ricerca. Qualche esempio: Yeleen di
Souleymane Cissé, regista maliano, uscito nel 1987 e proiettato nelle sale francesi ha
stabilito un record per la cinematografia africana: è stato visto da 340.811 spettatori.
Le Ballon d’or di Cheik Doukouré, guineano, prodotto nel 1993 e uscito in sessanta sale
di cui quindici a Parigi, è stato visto da 313.551 spettatori. Il film ha un soggetto
popolare che certamente ha incuriosito il pubblico francese: è la storia di un giovane
calciatore africano che diventa campione. A questo va aggiunta la determinazione del
regista che con un ottimo ufficio stampa, una campagna pubblicitaria capillare sia
radiofonica che televisiva e un’attenzione particolare agli abitanti della provincia, di cui
molti immigrati, è riuscito a sfatare il mito del flop. Le aspettative di riuscita sono
sempre più alte quanto più la situazione è critica: sulle seimila pellicole distribuite in
Francia tra il 1980 ed il 1993 solo venticinque provenivano dall’Africa nera. Ciò non
dovrebbe sorprendere dal momento che il concentrarsi della programmazioni è nelle
mani delle case di distribuzione più potenti, come la Gaumont, la Pathé e la UGC che di
giorno in giorno restringono sempre di più l’accesso al mercato dei cineasti africani. La
concorrenza nelle sale è spietata: se un film non sfonda entro le prime tre settimane
scompare.
6
“Chi ha in mano la distribuzione, ha in mano il cinema” disse Tahar Cheriaa,
fondatore del Festival de Cartage, criticato dal governo tunisino per le sue posizioni
antiamericane scomode e imbarazzanti per lo Stato
7
.
Un esempio italiano, per chiudere il discorso complesso della distribuzione, è il film
Adanggaman di Roger Gnoan M’Bala, uscito nelle sale italiane nel luglio del 2004 per
una sola settimana, ovviamente visto da pochissimi. Come dire, una condanna a
morte. Una vicenda, questa, che fa da specchio alla realtà cinematografica italiana.
6
Olivier Barlet, Il Cinema Africano, lo sguardo in questione, L’Harmattan Italia, 1998, p. 274, 275.
7
Giuseppe Gariazzo, Breve storia del cinema africano, Lindau, 2001, p. 29.
10
1.1.2 Distribuzione televisiva e satellitare.
Il pubblico africano non conosce il suo cinema, non lo trova nelle sale né sui canali
televisivi e neppure su quelli satellitari, salvo poche singole realtà. Il sottile confine tra
distribuzione e finanziamento trova spazio attraversi i canali televisivi e satellitari.
Ancora una volta l’aiuto da parte straniera è necessario e fondamentale per la
divulgazione delle immagini. Una serie di canali televisivi europei sensibili hanno
favorito, nel corso degli anni ottanta e novanta, la produzione di cinema africano. La
franco-tedesca ARTE, canale satellitare nato per la promozione dell’arte in tutte le sue
forme, Channel Four in Inghilterra, Canal Plus in Francia e ZDT e WDT in
Germania hanno finanziato parte della cinematografia indipendente africana
mostrando lavori via etere. La realtà dei canali satellitari ha poi svincolato i registi
dalla censura nazionale riuscendo a mostrare al pubblico i film in maniera integrale ed
originale.
Quella degli anni ottanta e novanta è stata una realtà unica che ha già subito un
drastico cambiamento. Gli stessi canali che un tempo avevano sostenuto lo sviluppo
hanno ora drasticamente ridotto gli investimenti nella produzione e nell’acquisto di
diritti televisivi di film africani ed arabi. ARTE, che in quegli anni privilegiava
situazioni cinematografiche sperimentali, ora promuove film di prestigio e quindi di
registi già affermati, escludendo dal mercato i giovani autori.
1.1.3 Distribuzione satellitare in Africa.
Nel 1989 i ministeri della Cooperazione e degli Affari Esteri creano il CFI
8
che, 24 ore
su 24, diffonde una scelta di programmi via satellite in tutto il mondo. Strumento della
cooperazione via satellite, il CFI presenta la doppia identità di essere lo strumento
della presenza francese nel mondo e di sostenere l’emancipazione delle tv nazionali. Le
reti televisive possono fare una registrazione su cassetta delle trasmissioni proposte e
diffonderla secondo le esigenze del proprio palinsesto. Il ministero della Cooperazione
non solo finanzia le emittenti televisive nazionali ma fa evolvere il CFI verso una sorta
di mercato dell’audiovisivo africano.
Nel 1995 è stato creato il CFI-Africa, che ha il compito di farsi promotore di alcune
coproduzioni con le televisioni africane e curare la diffusione in tutta l’Africa dei
programmi realizzati. Compito del CFI è rendere autonome le televisioni nazionali,
sotto l’aspetto della credibilità dell’informazione, della gestione finanziaria e della
programmazione.
8
Olivier Barlet, Il cinema africano, lo sguardo in questione, L’Harmattan Italia, 1998, p. 311.
11
Il calcio, come nel resto del mondo, è seguito in Africa con attenzione e passione: il CFI
ha assicurato alle reti nazionali la trasmissione della Coppa d’Africa e il comitato
olimpico internazionale ha ceduto gratuitamente i diritti di replica dei giochi di
Atlanta, dedicando un’ora al giorno agli atleti del continente.
La prossima mossa spetta agli stati africani: insistere per raggiungere una completa
autonomia.
Un disegno di Tayo Fatunla, Nigeria.