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«Vedete, questa è la mia vita. Non c’è nient’altro, solo noi, la
macchina da presa e quel meraviglioso pubblico là in fondo, nel
buio»
(Norma Desmond in “Viale del tramonto” di Billy Wilder, 1950).
Il cinema è un gioco di sguardi. Campi e controcampi fertili. Dal rapporto fra la
vista dello spettatore e quella dello schermo, nasce la cinematografia futura.
È inevitabile, lo spettatore entra nei meccanismi artistici e produttivi del film. Un
film non nasce in laboratori che tengono conto solo d’esigenze estetiche o
economiche, ma è un magma che si lascia plasmare dagli stati d’animo e dalle
attese dello spettatore. È un tassello, più o meno vasto, dell’immaginario
collettivo del popolo. In America, “il pubblico è committente e fattore necessario
e presupposto per tutti: in nessun’altra cinematografia gli spettatori giocano un
ruolo così determinante nell’evoluzione dei modelli narrativi, dello stile e delle
trasformazioni tecniche e spettacolari”
1
.
Contemporaneamente, però, dopo l’abbagliamento in sala, lo spettatore accoglie il
film all’interno del proprio occhio, nutrendo la propria visione della realtà. Per il
popolo americano, infatti, il cinema è stato, e continua ad essere, una guida
spirituale. Carico di passioni, di gesta eroiche, di senso morale, il film trasla la
parola biblica sullo schermo. Lo spettatore, d’altro canto, offre il proprio
immaginario come strada maestra per la costruzione delle storie, nelle quali deve
necessariamente riconoscersi. Esempi di vita, di comportamento, in cui bene e
male sono spesso facilmente riconoscibili. Ed è ovvio che narrazioni di questo
tipo si fondino su un approccio antirealista, basato non necessariamente su
1
Gian Piero BRUNETTA, Identità, miti e modelli, in ID., Storia del cinema mondiale: Gli
Stati Uniti, volume I, Torino, Einaudi, edizione speciale per Il Sole 24 Ore, 2009, p.6.
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elementi surreali, onirici o metafisici, ma, innanzitutto, sul carattere
paradigmatico e simbolico, anziché mimetico, delle storie. Basta che il
protagonista abbia una stella sul petto affinché incarni lo spirito della Nazione e
si faccia carico di traghettare le sorti della comunità verso nuovi territori,
innanzitutto esistenziali. È in secondo piano il problema se sia il cinema a dover
imitare la realtà, piuttosto che la realtà a formarsi sui “topoi” del cinema. I
modelli che interessano sono invece quelli del mito, sia esso greco, indiano,
arabo, cinese, che viene trasferito nel contesto sociale attuale. Il mito riesce a
purificare ed esemplificare in modo paradigmatico il caos che infesta la realtà e,
contemporaneamente, si coniuga con la virilità dello spirito romantico, dove
campeggiano eroi, vincenti o born-losers, che combattono mostri, superano
pericoli, smascherano il male, in nome di un’istanza superiore, sia essa la libertà,
la giustizia, la patria. Ed è proprio l’home che nella cultura americana acquista
una sacralità tale che per essa vale la pena donarsi, sacrificarsi, attraversare la
frontiera, sfidare il mistero. Così, parafrasando Henry Nash Smith
2
, se la Storia di
un popolo alimenta, seppur inconsciamente, le storie scritte dal popolo, si capisce
bene perché l’espansione territoriale del “giardino”, conseguente ad un
progressivo addomesticamento del “deserto” ad opera dei primi coloni americani,
abbia superato negli anni i confini della territorialità, sublimandosi
nell’immaginario collettivo e diventando paradigma culturale del popolo.
“Giardino” e “deserto” sono divenuti due luoghi mentali, oltre che fisici, la cui
interazione sprigiona storie, motivi ricorrenti, identità. E gli eroi hollywoodiani
sono personaggi ipermobili, che affrontano nel wildness percorsi catartici e
2
Cfr Henry NASH SMITH, Virgin Land: The American West as Symbol and Myth, Harvard
University Press,1950.
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salvifici. Poco importa se la dromomania che ha accompagnato la storia della
nazione sia stata generata da larve colonizzatrici: il cinema americano ha quasi
sempre funzionato per lenire sensi di colpa. La frontiera hollywoodiana è spazio
d’incontro, non di scontro, è abbraccio e sfida con la Natura, possibilità di
crescita, luogo fertile di promesse, dimensione palingenetica dell’io, ma
soprattutto del noi.
Attenzione, però, perché negli ultimi anni qualcosa è cambiato.
«Non entrare nella stanza 237. Devi starne lontano, Danny!»
(“Shining” di Stanley Kubrick, 1980)
Come già accennato, in corrispondenza d’eventi storici particolarmente
travagliati, il cinema americano ha dato evidenti segni di reazione a quelli che
sono i tratti distintivi della sua cinematografia. In particolare, la crisi del ’29 e,
soprattutto, la seconda guerra mondiale hanno aperto stanze oscure dell’identità
americana. “I segni dell’incrinatura dei miti solari – la frontiera, la libertà, il
progresso, l’eguaglianza, l’infallibilità, l’onestà e l’invincibilità dei capi –
esistono dai primi anni ’30, ma, in un certo senso, appaiono ancora come
marginali, si manifestano in opere che hanno il carattere dell’eccezionalità,
piuttosto che quello dello standard medio del sistema. Durante la fase iniziale
della seconda guerra mondiale, il mito americano sembra trovare il massimo di
coesione: solo negli ultimi anni (della guerra, ndr) si verifica una sorta di corto
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circuito a tutti i livelli del racconto e, in alcuni film, i protagonisti perdono il
senso di cosa stiano materialmente facendo”
3
.
“La dichiarazione di guerra del terrorismo islamista non viene consegnata agli
ambasciatori dei paesi considerati nemici, ma allo sguardo di ciascuno di noi, alla
nostra memoria e al nostro inconscio”
4
. Segno dell’inquietudine profonda esplosa
con l’attentato alle Torri Gemelle, si è sviluppata una nuova stagione
cinematografica, prettamente americana, che ha generato film introversi che
contraddicono aspetti fondamentali del dna hollywoodiano. Lo schianto degli
aerei ha sgretolato il Vaso di Pandora, lasciando sulle macerie di Ground Zero
nemmeno la speranza, ma gelidi aliti d’angoscia. Il nemico invisibile si è rivelato
e i suoi germi sono intestini al sangue stesso della superpotenza, in quella
multietnicità, segno indelebile del sangue americano, metabolizzato sin dalla
nascita della nazione. Hollywood ha realizzato una serie di opere che esprimono
una chiusura spazio/temporale, concentrate nella paura dell’altro e nell’angoscia
del futuro. La frontiera, quintessenza della cinematografia made in Usa, oggi è un
luogo rimosso o pericoloso. Quando non conduce alla morte, è osteggiata, negata
o, al massimo, vissuta in parentesi oniriche che contrastano con gli spazi angusti
del reale. Si tratta di storie paralizzate nell’introspezione, di personaggi incapaci
di guardare avanti. Ricercatori del tempo perduto che si pongono il fine di
chiarificare i propri sensi di colpa e quelli della loro comunità. Nuovi cowboy che
hanno paura del deserto, e preferiscono rintanarsi in casa e guardare le foto della
loro giovinezza; lottatori, intrepidi sul ring, ma insicuri nella vita; giovani di
talento destinati al carcere, sospettosi d’essere stati ingannati e traditi da chi è loro
3
BRUNETTA, Identità, miti e modelli temporali, cit., p.14.
4
Oscar IARUSSI, L’evidenza americana, in Contesti, raccolta di studi e ricerche a cura di Vito
Amoruso, Bari, Editrice Adriatica, vol.17/2005, p.125-151.
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più vicino; genitori che raccontano menzogne ai propri figli per tenerli chiusi
dentro casa e preservarli dai rischi che ci sono fuori; anziani che, diffidenti verso i
tempi e verso i vicini di casa, si portano un revolver sotto il letto; gangster che
cambiano identità al fine di rimuovere il proprio passato e ottenere la nuova
chance di vivere una vita normale.
Clint Eastwood, David Cronenberg, Manoj “Night” Shyamalan, Spike Lee,
Darren Aronofsky, Robert Altman, Joel ed Ethan Coen, Paul Thomas Anderson,
Ridley Scott, coi rispettivi sceneggiatori, hanno tutti sviluppato queste tematiche.
Scopo della tesi è individuare i fili conduttori della recente cinematografia
hollywoodiana e, attraverso essi, rivelare l’inconscio della popolazione americana
dopo l’11 settembre. Tranne qualche breve cenno nella prima parte della tesi, si è
preferito sorvolare su quei film che trattano espressamente fatti storici o che fanno
dell’attentato alle Twin Towers il proprio fulcro tematico. La copiosa filmografia
sull’11 settembre ha una funzione sociale dettata dalla retorica propaganda che
aggrada il Paese. Per rinvenire i caratteri più autentici dei sentimenti americani
degli ultimi anni, la restante filmografia, a mio avviso, ha una rilevanza
estremamente maggiore, soprattutto se si considerano quei film che la critica
contemporanea considera fra i migliori usciti dal 2001 a questa parte. Si parla di
opere che, accusato il colpo della sciagura, ne recano, a più livelli, i suoi segni. I
caratteri più autentici della filmografia post 11 settembre sono da rinvenire nelle
peculiarità linguistiche della settima arte, anziché nelle tematiche specificamente
storiche. Il carattere simbolico presente nel dna del cinema americano, facilita il
compito della ricerca.
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Il mio lavoro si compone di tre parti. Nella prima si parla del peso, sulla
cinematografia contemporanea, del passato nazionale. Un passato collettivo che
riverbera nelle storie individuali anche grazie all’approccio allegorico di molti
film. Nella seconda parte, invece, si analizza la paura degli spazi aperti della
nuova cinematografia. Sia la prima che la seconda parte conducono all’analisi di
alcuni importanti film, dove si è cercato di spogliare la metafora e di ricondurla
all’idea di partenza che la sostiene. L’analisi dei film conduce poi ad una
comparazione cronologica degli stessi attraverso l’esame degli strumenti
concettuali di “giardino” e di “deserto”. Credo che sia proprio questo il punto più
interessante della mia ricerca: aver dimostrato che le idee concettuali che
sostengono questi film analizzati sono sempre abbastanza simili ed intimamente
legate alla realtà socio-politica americana. Mi sono stupito nello scoprire che il
rapporto fra “giardino” e “deserto” subisce una trasformazione uniforme dettata
dalla cronologia storica.
Mentre le prime due parti del lavoro parlano della tendenza a “retrocedere”, in
senso temporale e spaziale, della cinematografia post 11 settembre, la terza parte
parla di un nuovo “guardare avanti” che inizia a manifestarsi sulla scena filmica
dopo l’apparizione politica di Obama. Nell’ultima sezione della mia tesi, infatti,
ho implicitamente accostato l’introduzione del messaggio d’Obama nel panorama
sociale americano, al film “Gran Torino” di Clint Eastwood.
Ad aprire la stagione cinematografica post 11 settembre è indubbiamente “La
25ma ora” (2002). A concludere la mia ricerca è, come detto, “Gran Torino”
(2009) che, a mio avviso, contiene tutti i caratteri per essere considerato l’opera
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che chiude (e racchiude) un’epoca. Otto anni sono un lasso di tempo sufficiente
per azzardare un bilancio sui temi e le caratteristiche di questa stagione.
Il film di Spike Lee è tratto dal libro di David Banioff, scritto prima dell’’11
settembre 2001. La sceneggiatura è stata modificata quando New York, ormai,
non era più la stessa. Il film di Clint Eastwood, invece, è stato realizzato a cavallo
fra il 2008 e il 2009, nel momento in cui Obama veniva eletto Presidente degli
States, in un clima di maggiore distensione e speranza.
È curioso e suggestivo pensare come entrambe le pellicole terminano con la
medesima inquadratura, solo qualche piccolo particolare di differenziazione ne
inverte i sensi. Un campo lungo mostra la Gran Torino, guidata dal giovane Thao,
mentre esce da un tunnel d’ombre e scorre solitaria sul lungomare [fotogramma
1], percorrendo gli spazi sconfinati dell’America e della vita. La macchina da
presa è bassa, ad enfatizzare il cielo e la profondità prospettica. Anche l’auto del
padre di Monty, ne “La 25ma ora”, è mostrata in campo lungo mentre procede,
confusa fra altre vetture, a pochi metri dall’Atlantico [fotogramma 2a]. La
macchina da presa però è alta, sceglie una prospettiva meno ariosa e più
schiacciata. Poi, però, “stacca” su un’ultima inquadratura: il volto di Monty in
primissimo piano, devastato dai lividi, giace inerme con gli occhi chiusi
[fotogramma 2b], privandosi di quegli spazi (della vita e dell’America) che non
vedrà più per un po’ di anni.