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In questa prima fase del pensiero e della prassi psicoanalitica, la
teoria che fa da sfondo è quella del trauma. Secondo tale teoria, causa dei
disturbi di queste pazienti è l’aver subito, in età infantile, una forma di
violenza di natura sessuale. Questa, non elaborata, ha determinato una
“cisti” nell’inconscio del soggetto.
Il problema terapeutico sembrava così ridursi alla possibilità di
mettere il paziente in condizione di ricordare ciò che era stato rimosso
dalla consapevolezza, ma che in realtà rimaneva attivo nei suoi effetti
patogeni.
Pur non essendo nostra intenzione esporre i fatti in modo del tutto
storico, presenteremo un brevissimo sunto dell’esperienza freudiana di
quel periodo e per far questo useremo uno dei casi clinici analizzati da
Freud. Esemplare per questo fine, ci sembra quello di Anna O.
La sua malattia durò due anni e nel corso di questi ella presentò
una serie di disturbi fisici e mentali. Stando a quanto detto da Freud:
«Ella soffriva di una grave paralisi con anestesia di entrambi gli
arti di destra, che a volte interessava anche quelli del lato sinistro del
corpo, di disturbi della motilità oculare, con notevole danno visivo, di
difficoltà nella postura del corpo, di forte “tussis nervosa”, di nausea
ogni volta che cercava di alimentarsi, e, una volta di incapacità di bere
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durata molte settimane, nonostante la sete tormentosa. Anche la sua
capacità di linguaggio si era deteriorata, fino ad arrivare
all’impossibilità di parlare e capire la sua lingua madre; infine la
paziente andava soggetta a stati di “assenza”, di confusione, di delirio,
di alterazione di tutta la personalità» (Freud, S., 1909).
I medici che l’avevano in cura avevano escluso una lesione
organica cerebrale e formulato la diagnosi di isteria, patologia allora
trascurata dalla classe medica. Ma non da Breuer. Questi, accorgendosi
che quando la paziente cadeva nei suoi stati di “assenze” mormorava tra
sé parecchie parole, decise di approfondire ciò che occupava i pensieri
della giovane donna ricorrendo all’ipnosi. Breuer, utilizzando questo
metodo, assisteva ad un’apparente e temporanea guarigione: notava,
infatti, una cessazione del sintomo che però si ripresentava, uguale o in
altra forma, più tardi.
Da questo, Freud e Breuer ipotizzarono l’esistenza, nell’inconscio
della paziente, di un ingorgo affettivo che doveva affiorare, e che era
stato determinato da un trauma sessuale vissuto nell’infanzia.
Ma veniamo al dunque. Il caso clinico di Anna O. è di grande
interesse per l’individuazione di un fenomeno, importantissimo in
psicoanalisi, che è quello di transfert.
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A quell’epoca non aveva ancora questo nome e solo gradualmente
si arrivò ad una prima formulazione del concetto, partendo dalla nozione
di falso nesso. Il falso nesso stava ad indicare una sorta di errore che la
paziente commetteva, riversando sulla figura dell’analista l’affetto
divenuto cosciente, relativo ad un ricordo ancora inconscio.
All’epoca del caso di Anna O., in realtà, non era ancora così
chiara la formulazione di questo concetto, così come l’abbiamo
presentata, ma, proprio in questo caso, il falso nesso sembra essere più
evidente.
Infatti, Anna O. riversa questo affetto divenuto cosciente su
Breuer e, ben presto, questo finisce col diventare il padre sostitutivo
(ecco il falso nesso), intrecciando con lui una simil relazione amorosa.
Breuer, per ragioni private, era particolarmente legato a questa
paziente e per lei trasgredì ad una delle regole più importanti dell’analisi,
quella dell’astinenza dal contatto. Arrivò addirittura ad imboccarla nei
momenti più bui della malattia.
Gli affetti che vengono rivolti all’analista, nel falso nesso, sono
affetti congelati, incapsulati, relativi a quella che più tardi sarà detta età
edipica, che vagano nell’inconscio delle pazienti alla ricerca di vie
d’uscita, vie di soddisfacimento.
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Dal concetto di falso nesso si arrivò, intorno al 1906, a quello di
Spostamento. Nel portare avanti l’idea dello spostamento d’affetto,
Freud, ancora influenzato dal metodo catartico, chiarì che lo scopo
dell’analisi era di obbligare i soggetti a ricordare per confermare la
costruzione dell’analista.
Successivamente, Freud presta maggiore attenzione alle resistenze
che vengono date dal paziente all’atto del ricordare, e all’abilità
dell’analista nel metterle allo scoperto.
Secondo Freud infatti:
«Le forze che si opponevano, sotto forma di resistenze, al
riemergere nella coscienza delle idee dimenticate, erano le stesse che
avevano provocato l’oblio, rimuovendo dalla coscienza le esperienze
patogene» (Freud, S., 1909).
Questo è il punto di passaggio alla teoria del conflitto che è
determinato, in principal modo, dalla lunga autoanalisi che Freud
condusse su di sé. Quest’esperienza gli permise di comprendere quanto
forte potesse essere il lavoro della psiche espresso dai vissuti
fantasmatici. Tali vissuti affiancano quelli reali e possono assumere
uguale valenza, per il soggetto.
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Esempio palese del passaggio a tale teoria è la Minuta N, inviata a
Fliess. In questa Freud parla, per la prima volta, di desideri ostili verso i
genitori, evidenziati proprio con l’autoanalisi, ponendo le basi di quello
che poi diverrà il complesso edipico: «Sembra che nei figli questo
desiderio di morte sia diretto verso il padre e nelle figlie verso la madre»
(Freud, S., 1897). Il sogno della domestica Lisl
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che conclude la Minuta,
ne è la testimonianza.
Intorno al 1906, la considerazione che ebbe Freud del transfert
mutò radicalmente. Egli arrivò a concepirlo come essenziale all’analisi,
mentre prima lo concepiva solamente come intralcio.
Nel 1912, Freud nella sua Dinamica della traslazione introdusse il
concetto di clichè di transfert. Con questa nozione, intese parlare della
ripetitività delle modalità relazionali delle persone che è determinata
dalle esperienze dell’infanzia. Tali esperienze vengono modificate, anche
se poco, nel crescere:
«E’ dunque normalissimo e comprensibile –scrive Freud- che
l’investimento libidico, parzialmente insoddisfatto, tenuto in serbo con
grande aspettativa dall’individuo, si rivolga anche alla persona del
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Il sogno della sua giovane domestica Lisl nel quale ella opera la traslazione (termine usato
indifferentemente per indicare il transfert) augurando la morte alla sua padrona (simbolizzante materno)
in modo che il padre (simbolizzante paterno) la possa sposare.
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medico. In conformità con le nostre premesse, questo investimento si
atterrà a certi modelli, procederà da uno dei clichè esistenti nella
persona interessata oppure, in altri termini, inserirà il medico in una
delle serie psichiche che il paziente ha formato sino a quel momento»
(Freud, S., 1912).
Questa convinzione segna in Freud l’abbandono del metodo
catartico, perché non adatto: non si poteva ricordare ciò che si era
rimosso. Dunque, un metodo che inducesse il ricordo era inutile.
Sostanzialmente, quanto detto in quest’opera, è stato ampliato e
meglio definito nelle opere successive, quali: Ricordare, ripetere,
rielaborare (1914), Al di là del principio di piacere (1920), Inibizione
sintomo angoscia (1925), Analisi terminabile e interminabile (1937).
In queste e nelle altre opere che seguirono le pubblicazioni del
1912, Freud diede in realtà più enfasi alle resistenze e ai meccanismi di
difesa messi in atto dal paziente.
Freud parlò anche della valenza che può assumere il transfert.
Disse di un transfert a valenza positiva nel momento in cui vengono a
generarsi sentimenti affettuosi per l’analista, e di un transfert a valenza
negativa se i sentimenti sono, invece, di ostilità. Il concetto di transfert fu
poi trattato, ampliato, stravolto da innumerevoli altri autori.
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I.1.2 La scuola delle Relazioni Oggettuali
Melanie Klein ritenne che nel transfert si manifestassero non tanto
le componenti edipiche, quanto le Relazioni oggettuali dei primissimi
anni di vita. Queste non possono essere ricordate dal paziente ma
possono essere ricostruite proprio dall’analisi delle reazioni di transfert:
«Il paziente, infatti, è portato inevitabilmente a far fronte ai
conflitti e alle angosce che rivive nei confronti dell’analista avvalendosi
degli stessi sistemi usati nel lontano passato. Ciò vuol dire che egli cerca
di distaccarsi dall’analista così come cercava di distaccarsi dai suoi
oggetti originari» (Klein, M.,1952).
Tale pensiero è stato non solo sposato ma anche fatto proprio da
coloro che si usa considerare appartenenti alla scuola delle Relazioni
Oggettuali, tra cui si ricordano W.R.D. Fairbairn, W. D. Winnicott e M.
Balint. Quest’ultimo ipotizzò anche la possibilità di cogliere,
nell’evoluzione del transfert, la successione delle fasi attraverso cui il
paziente è passato nel suo primo sviluppo.
Per Winnicott il transfert era uno strumento necessario per
produrre quella regressione che permette al soggetto di rivivere e
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rielaborare la condizione infantile che si era rivelata non adatta. Egli era
convinto che dovesse essere l’ambiente esterno ad adattarsi alle esigenze
del bambino nel suo percorso evolutivo ed in analisi, dunque, si doveva
far rivivere al paziente l’originaria rottura tra sé e l’ambiente esterno. In
questo modo, era possibile far elaborare al soggetto il trauma e far
rimarginare tale rottura.
I.1.3 C. G. Jung
Altra concezione del transfert ha, invece, C.G. Jung che,
considerando la libido
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un’energia generica, ritenne che il transfert non
possieda una natura puramente sessuale e non esprima, inevitabilmente, i
rapporti edipici già vissuti. Secondo Jung, infatti, il transfert può essere
anche espressione di tendenze psichiche che chiedono di essere
attualizzate e può essere la proiezione di qualunque cosa.
Il transfert erotico diventa solo uno dei tanti possibili transfert.
Jung ipotizzò l’esistenza di un’intensità per il transfert e sostenne
che essa è determinata dal contenuto di questo. Ad esempio, un transfert
particolarmente intenso sarà determinato da un contenuto sicuramente
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Col termine Libido Freud usò indicare l’energia corrispondente all’aspetto psichico della pulsione
sessuale; energia che guida il comportamento di ogni uomo al fine di essere scaricata.
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importante.
I.1.4 L’interpretazione del transfert
Oggi, dando uno sguardo molto ampio sull’universo degli
indirizzi teorici in psicoterapia, possiamo affermare che il concetto di
transfert è indubbiamente stato almeno considerato.
Questo è possibile evincerlo considerando l’importanza che viene
data all’interpretazione del transfert.
Possiamo, in questo modo, facilmente suddividere tutti gli
indirizzi in due grandi gruppi, quello delle terapie cosiddette espressive e
quello delle terapie supportive.
Le prime sono terapie che considerano di estrema importanza
l’interpretazione del transfert, e fanno di questa lo strumento principe per
portare a guarigione il paziente. Fanno parte di questo gruppo tutte le
psicoterapie psicodinamiche e la psicoanalisi prima tra tutte, la
sistemico-relazionale, la terapia centrata sul cliente, la transazionale, ecc.
Del secondo gruppo invece la prerogativa predominante è, al
contrario, il rifiuto per l’interpretazione del transfert e un maggiore
spazio dato al presente del paziente. Ritroviamo le terapie
comportamentali, la terapia della gestalt, ecc.
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Questi due gruppi si differenziano anche per la durata della
terapia. Per le terapie espressive la durata è maggiore. Per le terapie
supportive la durata è inferiore.
I.2 Il controtransfert
Un accenno al controtransfert è d’obbligo.
Il controtransfert può, generalmente, definirsi come il transfert
dell’analista. È un fenomeno di risposta al transfert del paziente e la sua
utilità, all’interno dell’analisi, è stata discussa a lungo.
Per Freud in un primo momento, il controtransfert era un forte
ostacolo al corretto proseguimento dell’analisi, in quanto invalidava
quell’atteggiamento di impassibilità e di distacco emotivo che lui stesso
raccomandava parlando della regola dello specchio:
«Il medico dev’essere opaco per l’analizzato e, come una lastra
di specchio, mostrargli soltanto ciò che gli viene mostrato»
(Freud,S.,1911-12).
Della stessa idea era anche Winnicott che considerava il
controtransfert un impedimento alla facilitazione della regressione del
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paziente. La prima a considerare il controtransfert un mezzo utile alla
conoscenza più approfondita del paziente fu la Heimann e con lei, tra gli
altri, C. G. Jung e Melanie Klein.
C. G. Jung partì dal presupposto che il trattamento terapeutico
fosse prima di tutto una relazione. Asserì l’ineliminabilità del
controtransfert e la sua importanza come strumento per conoscere il
paziente e per interagire attivamente con lui:
«Non giova affatto a chi cura difendersi dall’influsso del paziente,
avvolgendosi in una nube di autorità paternalistico-professionale: così
facendo egli rinuncia a servirsi di un organo essenziale di conoscenza. Il
paziente esercita lo stesso, inconsciamente, la propria influenza sul
terapeuta e provoca dei mutamenti nel suo inconscio: quei
perturbamenti psichici (vere e proprie lesioni professionali) che sono
ben noti a tanti psicoterapeuti, e illustrano clamorosamente l’influenza
quasi chimica del paziente. Una delle manifestazioni più note di questo
genere è il controtransfert indotto dal transfert …» (Jung, C.G.,1929).
Per Jung il controtransfert non va respinto ma accolto e analizzato,
perché è alla base di quella reciprocità trasformativa che conferisce alla
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relazione quell’aspetto dinamico che la caratterizza, dove sono in azione
non solo l’Io dell’analista e del paziente, ma anche i loro inconsci.
Per Melanie Klein, invece, il controtransfert può considerarsi una
sorta di “contenitore materno” dove il paziente introietta l’esperienza
rivissuta nella relazione col terapeuta.
Betty Joseph, appartenente alla scuola kleiniana, asserì che il
controtransfert era lo strumento privilegiato per comprendere la relazione
che si crea all’interno del setting
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terapeutico:
«Molto di ciò che sappiamo sul transfert proviene dalla nostra
comprensione di come il paziente agisca su di noi per le più svariate
ragioni; di come il paziente cerchi di attirarci nel suo sistema difensivo;
di come essi agiscano inconsciamente con noi nel transfert, cercando di
farci agire con loro; di come essi trasmettano aspetti del loro mondo
interno, costruito nell’infanzia e poi elaborato nella fanciullezza e
nell’età adulta, esperienze che spesso non trovano espressione in parole
e che noi possiamo captare solo dai sentimenti che sorgono in noi,
attraverso il controtransfert» (Joseph, B., 1975).
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Il setting è sommariamente definibile come tutto ciò che fa da cornice alla relazione terapeutica. In
Gruppoanalisi si usa definirlo come l’insieme degli elementi visibili (orari, luoghi, pagamenti, ecc.) e si
differenzia dal set che invece è l’insieme degli elementi invisibili (conoscenze del terapeuta, la sua teoria
d’appartenenza, ecc.).