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INTRODUZIONE
L’approvvigionamento energetico basato sul petrolio o sul carbone ha compromesso
la qualità dell’ambiente e costituisce il maggior ostacolo da superare per attuare
politiche di sviluppo sostenibile del territorio. I danni provocati all’ambiente negli
ultimi decenni si ripercuoteranno, infatti, sulle generazioni future: inquinamenti da
anidride carbonica, ossido d’azoto, monossido di carbonio e micro polveri sono una
parte dei gravissimi danni all’ambiente a causa dell’uso di energia ricavata dal petrolio e
dal carbone.
Il concetto di sviluppo sostenibile si è arricchito negli ultimi anni di nuovi significati
riguardanti sia la necessità di soddisfare i bisogni delle popolazioni attuali che la
garanzia per quelle future di accedere alle risorse naturali continuando nella riduzione
del loro consumo.
La dichiarazione di Rio de Janeiro, con i suoi ventisette principi, ha determinato
diritti e responsabilità degli Stati in riferimento all’ambiente e allo sviluppo sostenibile,
allo scopo di tutelare il patrimonio naturale, conservandolo integro, come diritto per le
generazioni future. Con il Programma, denominato Agenda 21, le Nazioni Unite
tentavano di delineare un piano d’azione per i Governi e per le Istituzioni allo scopo di
arginare i danni sul clima terrestre e si stabilì che la concentrazione di biossido di
carbonio nell’atmosfera era la principale causa dell’innalzamento della temperatura, ma
gli accordi e le proposte contenute in quei documenti non sono stati mai considerati
come effettivamente vincolanti.
Dalla stesura del Protocollo di Kioto del 1997, però, si è registrato un maggiore
interesse verso tale problematica, sia perché la Russia e gli Stati Uniti hanno
cominciato ad esprimere finalmente la propria volontà di ratificare quest’ultimo
documento sia perché, con il Vertice Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile di
Johannesburg, si è capito quanto grave sia la situazione attuale.
In Italia sono stati numerosi gli interventi legislativi da parte delle Istituzioni per la
lotta all’inquinamento, ma è necessario agire ancora in maniera strutturale ed organica
affinché le diverse Regioni realizzino una corretta politica di sviluppo della produzione
di energie da fonti rinnovabili e tentino la riqualificazione dei territori già compromessi
dall’inquinamento.
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L’evoluzione delle politiche internazionali rivolte a combattere gli effetti
dell’inquinamento ha permesso di comprendere che la massiccia produzione di energia
dal sole e dal vento non può più essere rinviata poiché occorre porre un freno ai
cambiamenti climatici, sicuramente prodotti anche dall’inquinamento dell’atmosfera.
In Puglia, il notevole surplus di energia, già ottenuto con la costruzione della centrale
termoelettrica Federico II, tra le più grandi d’Italia, si è sommato alla nuova produzione
di energia prodotta dai numerosi impianti fotovoltaici che hanno permesso alla nostra
Regione di contribuire alla fornitura di energia elettrica anche di altri territori.
I tradizionali operatori hanno contribuito a fare della Puglia la prima Regione in
assoluto, per potenza installata di energia elettrica ed anche per numero di impianti e la
nostra regione continua ad essere oggetto di un enorme interesse da parte di altri Gestori
e di numerose Società di impianti di pannelli fotovoltaici, sicuramente per il
soleggiamento continuo del territorio, ma soprattutto per la normativa e per gli incentivi
utili agli investitori ed alle imprese.
Un semplice strumento come quello della DIA (Dichiarazione di Inizio Attività), che
permette di impiantare, senza ulteriori documentazioni, pannelli sino ad 1MW di
potenza, ha stimolato il proliferare di modificazioni del territorio da parte di un numero
eccessivo di investitori, tale da suscitare allarme nell’opinione pubblica.
Due diverse scelte della politica energetica italiana stanno spingendo verso la
proliferazione incontrollata di impianti fotovoltaici, eolici, a biomasse, ecc., ma anche
verso il nucleare, con allarme delle popolazioni interessate e confusione negli atti delle
singole amministrazioni locali.
La crescita sul territorio nazionale della green economy ha coinvolto già oltre 6000
comuni tra il 2008 ed il 2010 ed ha compromesso, talvolta in modo grave, i territori ed i
paesaggio. Alcune città risultano come produttrici di un potenziale energetico enorme,
comunque superiore al fabbisogno locale, ed alcune regioni come la Puglia hanno
imposto l’obbligo del fotovoltaico anche per gli edifici di nuova costruzione.
Attualmente la normativa sta diventando più complessa perché non si assegnano più
incentivi da parte della Regione in funzione di un potenziale impianto ma solo se le
condizioni imposte dal GSE (Gestore servizi elettrici) sono soddisfatte. C’è infatti la
convinzione che l’ambiente debba essere rispettato e la volontà che il risparmio effettivo
di energia ricada positivamente sugli stessi territori.
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Attraverso la raccolta di atti normativi, l’elaborazione di dati statistici e l’esame di
documenti e di particolari situazioni locali, derivanti da scelte politiche che hanno
permesso il proliferare degli impianti fotovoltaici, questa ricerca mi ha consentito di
comprendere in quali termini le più importanti problematiche relative all’ambiente ed al
clima abbiano condizionato le scelte politiche della nostra Regione, producendo
situazioni spesso molto complesse.
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C A P I T O L O I
IL RISPARMIO ENERGETICO E LE FONTI
RINNOVABILI PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE
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1.1 Dalla coscienza ecologica al concetto di sviluppo sostenibile
Nel 1986, anno del referendum anti-nucleare, l’Italia abbandonò anche la volontà di
incentivare la ricerca sulle fonti energetiche alternative ai combustibili fossili e si pose
sempre più nelle mani delle nazioni che producono petrolio.
Nel ventunesimo secolo, però, tutti gli uomini devono affrontare una grande sfida,
consapevoli ormai che il progresso economico, basato quasi interamente sul consumo
dei combustibili fossili, petrolio, gas e carbone, non è più sostenibile perché
l’inevitabile loro esaurimento ed i cambiamenti climatici, causati da una intensa attività
umana soprattutto nei paesi altamente industrializzati, stanno provocando danni
inestimabili al nostro pianeta ed alle generazioni future.
Le maggiori risorse petrolifere si trovano nelle regioni politicamente instabili, in
particolare nell’area del Golfo Persico, e ciò ha reso la questione della sicurezza degli
approvvigionamenti uno dei principali obiettivi dei governi del mondo occidentale ed ha
causato molti problemi nei rapporti di equilibrio tra le nazioni interessate.
Il bisogno di ridurre le emissioni di gas nell’atmosfera, causa principale
dell’aumento della temperatura della Terra, è sentito maggiormente dai Paesi
occidentali anche perché, gli altri, quelli in via di sviluppo, consumano energia in
quantità considerevoli ed impongono le loro necessità come prioritarie rispetto alla
tutela dell’ambiente. Le nazioni industrializzate, però, se da un lato continuano ad
utilizzare combustibili fossili, per mantenere i propri elevati standard produttivi, hanno,
d’altro canto, imparato a lottare contro alcune forme di inquinamento e vedono nel
proprio interno crescere l’allarme contro l’uso indiscriminato del petrolio.
I movimenti ambientalisti, dopo i primi atti di denuncia degli anni settanta,
raggiunsero notevoli successi nel perseguimento di alcuni obiettivi fissati da accordi
internazionali per la lotta all’inquinamento, superando il limite di una visione
eccessivamente locale del problema ambientale e volgendo il loro interesse all’analisi e
alla ricerca di soluzioni sull’intero sistema mondiale
(1).
La svolta fu possibile nella
discussione del problema ambientale quando finalmente si stabilì che le politiche del
mondo dovevano essere pianificate e che Stati Uniti e Repubbliche Socialiste Sovietiche
(1) Cfr. Rapporto Meadows, Conferenza di Stoccolma 1972; Rapporto Bruntland, Conferenza di Rio de Janeiro.
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Socialiste Sovietiche dovevano impegnarsi a superare le loro contrapposizioni politiche,
per dare seguito a quanto dichiarato nel Rapporto Bruntland
(2)
del ’92. Per consentire
alle Nazioni Unite di “ ... elaborare strategie e misure
per arrestare e invertire gli effetti
di degrado ambientale nel contesto di un accresciuto sforzo nazionale ed internazionale
...”
e favorire in tutti gli Stati lo sviluppo più idoneo e compatibile con l’ambiente, la
Conferenza di Rio De Janeiro cercò di negoziare, in numerosi incontri, gli obiettivi della
risoluzione 44/128.
(3)
I risultati di tali lavori non sono stati sempre apprezzabili perché la Convenzione sul
cambiamento del clima e quella sulla diversità biologica, nonostante avessero caratteri
vincolanti, dettavano solo norme generali o lacunose. La Dichiarazione di Rio de
Janeiro è, comunque, considerata una pietra miliare nel percorso compiuto dall’idea di
sviluppo sostenibile, anche perché, per la prima volta, si pone l’accento sull’esistenza
di una responsabilità comune tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo e, nelle
diverse società, ciò è visto in funzione antropocentrica con una particolare
considerazione per il rispetto dell’ambiente, patrimonio delle società future.
Il documento denominato Agenda 21, prodotto dopo anni di lavoro dalla
Commissione delle Nazioni Unite, pone l’accento sulle emergenze climatico-ambientali
e socio- economiche che, in questo inizio del Terzo Millennio, si pongono dinnanzi
all’intera umanità. Tale documento costituisce un piano di azione per lo sviluppo
sostenibile, da realizzare su scala globale, nazionale e locale con il coinvolgimento di
altri portatori di interesse, quindi con l’acquisizione del principio di responsabilità
comune da parte di associazioni, uomini e non solo Stati.
Le politiche internazionali hanno recepito, però, con molta lentezza l’importanza dei
cambiamenti proposti dalle diverse organizzazioni internazionali o dai numerosi atti
scaturiti dalle diverse conferenze. Infatti, allo stato attuale i governi sembrano meno
preoccupati per i problemi climatici di quanto non lo siano per quelli finanziari.
Eppure, il cambiamento climatico che va aggravandosi influenzerà la futura crescita
economica e rischierà di accrescere le differenze tra le diverse economie dei Paesi del
mondo.
Ora, nel bel mezzo di una crisi ecologica, i cui tratti più manifesti sono i cambiamenti
(2) M. MANCARELLA, Il Diritto dell’umanità all’ambiente. Prospettive etiche,politiche e giuridiche, Milano,
2004, p. 92.
(3) Ivi, pp.97-98.
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climatici che interessano il nostro pianeta, nel tentativo di spiegare le ragioni di questa
crisi, alcuni studiosi sostengono che la causa più importante potrebbe risiedere nella
violazione di alcune leggi naturali.
(4)
Tra queste, gli studiosi annoverano la carrying
capacity e, secondo Nebbia, la crisi ecologica è il risultato della mancanza di tale
attenzione nella nostra cultura sociale ed economica. Gli esperti di ecologia affermano
che il rapido aumento della popolazione a livello globale e la crescita delle attività
industriali rappresentano i fattori che condizionano l’equilibrio ambientale e le capacità
portanti del territorio. Ogni sistema naturale ha una propria capacità portante che,
ovviamente, non è infinita ma limitata, e che probabilmente si trova al limite della
sopportazione.
La definizione più comune di sviluppo sostenibile è quella che deriva dall’idea che
basti non compromettere le possibilità per le generazioni future di soddisfare i loro
bisogni per permettere agli attuali governi di continuare a considerare la Terra come una
proprietà privata, da sfruttare, per le sue capacità produttive senza alcuna
considerazione dei danni provocati dall’eccessivo sfruttamento delle risorse.
In realtà, per salvaguardare la Terra occorre cambiare mentalità e comportamenti,
perché comunque lasciamo la nostra impronta ecologica che è in sintesi la misura esatta
del danno da noi apportato alla natura.
(5)
Secondo molti studiosi, riconoscere i limiti
ecologici e le loro implicazioni a livello di equità sociale deve avere ripercussioni
dirette nelle azioni dei singoli governi.
Infatti, gli analisti politici con il dettagliato calcolo dell’impronta ecologica possono
monitorare efficacemente i deficit ecologici, migliorare la gestione dei beni comuni,
prevedere le minacce alla sicurezza derivante dalla mancanza di risorse e calcolare le
ripercussioni sulla competitività. Il calcolo dell’impronta ecologica deve servire ad
indirizzare le politiche della dinamica demografica attuale per evitare future sofferenze
all’umanità e per gestire le risorse in modo più efficace. Tale calcolo, permetterà di
ridurre l’effetto negativo dato dai carichi ecologici e lo sfruttamento delle risorse, e
contribuire infine a mitigare il cambiamento climatico con la riduzione di CO2
nell’atmosfera. Purtroppo però i più recenti studi sull’impronta ecologica hanno
(4) “Quando una popolazione animale entra in uno spazio di dimensioni limitate è[…] dapprima la popolazione
cresce rapidamente, poi più lentamente, poi si stabilizza su un numero di individui che il territorio può ospitare: tale
numero prende il nome di carryng capacity…” (G.NEBBIA, Carrying Capacity in «Economia e Ambiente»,
Anno XXV - N. 3 Maggio-Giugno 2006).
(5) F. FERLAINO, La sostenibilità ambientale del territorio,teorie e metodi, Torino, UTET, 2005, p.144.
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dimostrato che stiamo ancora consumando il capitale naturale per sostenere i nostri
standard di vita e non abbiamo ancora ridotto l’ eccessivo sfruttamento della capacità
biologica della Terra: mancano scelte sagge e coraggiose in termini di risparmio,
cambiamento dei consumi, efficienza tecnologica e protezione degli ecosistemi. Gli
ultimi studi ci dicono che solo alcune nazioni riescono a contenere sia la biocapacità che
l’impronta ecologica del proprio territorio e dei cittadini, i cui elementi si sottraggono
per misurare il deficit ecologico
(6)
.
Per misurare lo sviluppo sostenibile, gli esperti di economia e gli ambientalisti
sostengono che la metodologia da adottare debba essere concordata e derivare da criteri
inerenti diverse discipline. I frequenti attriti tra alcune grandi nazioni,verificatosi anche
recentemente, durante gli incontri internazionali del G20, sono indicatori delle difficoltà
che i governi dei Paesi sviluppati devono superare negli accordi con i leader dei paesi in
via di sviluppo poiché questi ultimi vogliono continuare ad attingere ancora alle risorse
naturali senza freni ed accusano i paesi ricchi di avere grosse responsabilità per i danni
apportati al sistema ecologico.
In realtà questa tesi non è supportata dagli scienziati
perché la conoscenza degli
effetti dell’inquinamento è stata acquisita di recente e pertanto non sarebbe possibile
attribuire responsabilità a chi non conosceva tali effetti. I paesi firmatari della
Convenzione sul clima di Copenaghen, inoltre, non furono nemmeno in grado di
stabilire su quali criteri, tra quelli del Protocollo di Kioto in scadenza nel 2013,
bisognasse fissare gli obiettivi da realizzare. Dagli incontri più recenti risulta che i
leader dei paesi del G20 si sono detti favorevoli a promuovere “politiche verdi” per
stimolare una crescita duratura, collegata alla creazione di posti di lavoro e, dalle
risoluzioni che si adotteranno a Cancun, si spera di poter concordare quantità di
sviluppo idonee a ciascun paese membro.
(7)
Il nodo cruciale, però, è a monte e riguarda
il calcolo della sostenibilità delle singole economie nazionali, in rapporto alla contabilità
internazionale. Infatti, per analizzare la propria contabilità ambientale i paesi del mondo
hanno adottato la misura dell’economia interna, il cui PIL calcola solo la capacità di
produzione e consumo di merci e beni.
(6) Ivi,p.148-149
(7) I risultati di Cancun in www.Politicambiente.it consultato nel dicembre 2010 (I documenti approvati a Cancun
sono due: il primo si riferisce al Protocollo di Kioto sul clima, che scade nel 2012; il secondo è stato definito
“Pacchetto di Cancun” e riguarda i finanziamenti ai paesi poveri e in via di sviluppo, per aiutarli a combattere le
emissioni di gas serra e per sostenere i loro piani di sviluppo nella direzione delle energie rinnovabili e pulite.)