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pianeta. Scavalcando non solo la distanza fisica ma anche le eventuali barriere
che gli Stati abitualmente frapponevano.
La liberalizzazione dei servizi recentemente approvata a Ginevra, che permette a
banche e istituzioni finanziarie di operare liberamente in tutti i paesi firmatari
dell'accordo, rappresenta il completamento di un processo che si era sviluppato
per merito delle sole innovazioni tecnologiche che permettevano già a tutti i
cittadini del mondo di operare in qualsiasi piazza e di raggiungere qualsivoglia
operatore in ogni parte del globo.
Questo non toglie nulla all'importanza del Trattato sul libero scambio dei servizi
dal momento che la possibilità offerta alle imprese di avvicinare il cliente "a casa
sua", amplifica, com'è ovvio, le possibilità di una più ampia e più razionale
raccolta e distribuzione del risparmio e perfeziona il processo di globalizzazione
già in atto sui mercati finanziari.
La globalizzazione è innanzitutto un fenomeno economico e sotto questa
angolazione essa va esaminata, non senza qualche sorpresa. Infatti la
globalizzazione risulta più o meno imponente a seconda del metro che usiamo
per misurarla.
Se facciamo lo sforzo di voltarci indietro non di dieci o venti anni, ma
allunghiamo lo sguardo sino a prima del 1914, ossia agli anni precedenti la
grande guerra, e confrontiamo la globalizzazione di quel mondo, che usciva da
un secolo e mezzo di battaglie liberiste e di guerre coloniali, con quello di oggi,
scopriamo che la quota di investimenti stranieri su quelli nazionali era allora
maggiore di oggi.
Ma anche maggiori di oggi erano i flussi di emigranti rispetto alla popolazione,
ed anche, in rapporto al prodotto lordo, movimenti di capitale attraverso le
frontiere.
Si tenga conto inoltre che prima del 1914 esistevano ancora gli imperi austriaci,
russi e ottomani i cui movimenti interni non potevano essere denominati allora
transazioni internazionali, come lo sarebbero oggi, quando quelle entità
politiche sono suddivise in numerosi Stati autonomi.
3
Solo con il 1944, a Bretton Woods, si posero le basi della ricostruzione di un
ordine monetario mondiale, ma la divisione del mondo in blocchi, il processo di
decolonizzazione che infittì la maglia dei confini fra i popoli, il timore di un
nuovo evento bellico mondiale, la crisi petrolifera degli anni Settanta resero
oltremodo lento il processo di liberalizzazione dell'economia mondiale.
Esso si è accelerato dopo gli anni Ottanta giungendo tuttavia a superare, in
dimensioni, la libertà economica de la belle époque, in solo due settori: il
movimento di merci e quello dei capitali finanziari.
Entrambe le due crescite sono state provocate da fatti tecnici, prima ancora che
da accadimenti politici o da modifiche legislative. Entrambe hanno certamente
beneficiato delle azioni condotte dal Fondo Monetario Internazionale, in
particolare verso i paesi emergenti, per ridurre i rischi di cambio, ma in definitiva
l'accrescimento degli scambi di merci e di titoli trova la sua maggiore
giustificazione nell'enorme riduzione dei costi di trasporto per le prime, e nelle
nuove tecnologie informatiche e telematiche per i secondi.
Sia la riduzione dei costi di trasporto che l'apertura ai movimenti di capitali
hanno arrecato benefici ai paesi industrializzati.
La diffusione del container, infatti, ha ridotto soprattutto i costi di trasporto dei
prodotti manufatti favorendo in tal modo un paese come l'Italia, importatore di
materie prime ed esportatore di beni trasformati, e che oggi può vendere nei più
lontani angoli del globo a prezzi di poco superiori a quelli all'uscita dalla
fabbrica.
Si pensi che oggi inviare del Chianti da Castellina a São Paulo in Brasile, a parte
l'imballaggio e lo svuotamento del container, a carico uno del viticoltore e l'altro
del magazzino all'ingrosso, costa come spedire del carbone o del rottame di
ferro, dal momento che il container non viene mai aperto e il suo trasbordo dal
camion alla nave, dalla nave al treno e dal treno al camion avviene attraverso
semplici sollevamenti da parte di particolari gru con un impiego di tempo, di
energia e di denaro non diversi e in alcuni casi inferiori a quelli della merce
solida indifferenziata.
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La riduzione dei costi dei trasporti merci ha enormemente contribuito alla
specializzazione internazionale ed ha in questo sicuramente avvantaggiato la
nostra industria: si pensi, per fare un esempio, che Pininfarina può inviare due
carghi aerei alla settimana di carrozzerie di auto a Detroit dove vengono montati
nei loro châssis.
Allo stesso modo i paesi emergenti del Sud-Est del mondo, inviano
quotidianamente i dischi di memoria negli Stati Uniti, in Europa, in Giappone
per essere montati sui computer. La riduzione dei costi di trasporto dovuta a
miglioramenti della tecnica, l'abbattimento più o meno massiccio, ma
generalizzato dei dazi e dei contingenti, il lento ma crescente smantellamento dei
diritti portuali e aeroportuali e dei monopoli ferroviari, marittimi ed aerei ci
stanno avvicinando ad un mercato globale delle merci, dove la localizzazione del
centro di produzione sarà sempre meno importante.
La scelta del luogo dove produrre sarà quindi sempre più guidata da
considerazioni quali il livello della tassazione, il peso degli adempimenti
amministrativi e legali, il costo del lavoro, il comportamento, le attitudini e il tipo
di specializzazione della manodopera e dei dirigenti, la cultura d'impresa, la
dotazione di infrastrutture, la mancanza di criminalità e la stabilità politica.
Non è quindi la geografia, intesa come maggiore o minore vicinanza ai centri di
consumo ed alle grandi vie di comunicazione, a definire la possibilità di crescita
e di nuovi insediamenti produttivi, ma l'ambiente nelle sue componenti
economiche, sociali, giuridiche, politiche e di dotazione di infrastrutture
avanzate.
Lo stesso fenomeno avviene in numerosi settori dei servizi, grazie alla diffusione
dei processi di comunicazione telematica in rete. Si pensi ad esempio che un
unico centro informatico della Citybank, in Texas, tratta tutte le operazioni di
tutte le filiali sparse nei quattro angoli del mondo.
Al momento tale processo di globalizzazione interessa solo la produzione: per
quel che riguarda la vendita e la fornitura di servizi la vicinanza con il
consumatore sembra ancora fondamentale e il recente accordo di Ginevra sulla
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liberalizzazione dei servizi finanziari è proprio teso a ridurre le distanze, e quindi
i costi, fra i clienti ed i fornitori di questi servizi.
Tuttavia, anche se in una prospettiva più che decennale, man mano che
prenderanno piede le vendite di merci e l'offerta di servizi per via telematica e se
verrà introdotta e si diffonderà l'uso della moneta informatica, anche la necessità
della vicinanza fisica fra venditore e compratore potrà affievolirsi.
Di dimensioni ben maggiori e comunque con un impatto emotivo sull'opinione
pubblica enormemente superiore è stata la globalizzazione realizzata in questi
anni dal mercato finanziario. Le cause del suo impatto sull'opinione pubblica
sono facilmente spiegabili: l'assoluta novità del fenomeno (mai nella storia del
mondo si era registrato qualcosa di simile), la dimensione delle cifre in gioco (nel
1995 le cifre trattate "ogni giorno" in valute diverse nei soli tre mercati di New
York, Londra e Tokyo avevano già superato i due milioni di miliardi, e cioè più
del prodotto interno lordo italiano "annuo") ed il fatto che ormai oltre la metà
delle famiglie italiane possiede, ha posseduto o si appresta a possedere dei titoli e
quindi sente una parte del proprio patrimonio e del proprio reddito, come di
fatto è, legata giorno per giorno agli andamenti delle borse internazionali.
Dall'inizio degli anni Sessanta i mercati avevano già trovato il modo di scavalcare
le barriere poste ai movimenti finanziari con la creazione dell'Euromercato, nel
quale banche collocate in uno Stato potranno accogliere depositi e fornire crediti
nella divisa di altri paesi.
Quando il sistema dei cambi fissi crollò nel 1972 le economie industrializzate,
fra le quali anche l'Italia, cominciarono a smantellare i loro controlli sui
movimenti di capitali.
Alla fine degli anni Ottanta e con maggiore forza negli anni Novanta anche i
paesi in via di sviluppo hanno iniziato ad aprirsi.
Contemporaneamente, soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottanta, le
innovazioni in campo telematico ed informatico hanno di fatto creato un nuovo
immenso mercato di operatori collegati in rete in grado di comprare e vendere
in tempo reale su tutte le piazze, mentre il ventaglio delle offerte si allarga
6
attraverso la creazione di nuovi prodotti e la crescente diffusione dei fondi
d'investimento aperti al pubblico.
Il 1997 è stato inoltre un anno particolarmente importante ai fini di un ulteriore
allargamento e potenziamento del mercato globale dei capitali finanziari. Infatti,
anche grazie alle capacità ed all'impegno del direttore della World Trade
Organization (WTO), Renato Ruggiero, si sono raggiunti nell'anno: l'accordo
sulla liberalizzazione delle telecomunicazioni, quello sulle tecnologie
dell'informazione ed infine, la mattina del 13 dicembre (ma con l'orologio fermo
alle 12 del giorno 12 e non per scaramanzia, ma per rispettare il termine
concordato) l'accordo sulla liberalizzazione dei servizi finanziari, bancari ed
assicurativi che entrerà in vigore per 102 paesi firmatari, che rappresentano il
95% del mercato finanziario mondiale.
Se i primi due trattati aiuteranno indirettamente (riducendo i costi, i tempi e la
libertà delle comunicazioni) il potenziamento del mercato finanziario globale, il
terzo trattato, permettendo il libero insediamento degli operatori in tutti i paesi
firmatari, accrescerà notevolmente il già imponente flusso di transazioni
internazionali, di mezzi di pagamento e di titoli di credito e di proprietà e loro
derivati.
In linea di principio maggiori flussi di capitali attraverso le frontiere dovrebbero
apportare importanti benefici. Il risparmio e gli investimenti saranno "allocati"
in maniera più efficiente. I paesi poveri, con grandi necessità di investimento,
vedranno ridursi la strozzatura causata dalla mancanza di capitali.
I risparmiatori non essendo più confinati ai loro mercati nazionali potranno
cercare in tutto il mondo opportunità di investimento che offrano rendimenti
più elevati. I rischi possono essere ulteriormente diversificati e quindi ridotti,
potendosi articolare i portafogli in più ampi ventagli di opportunità.
Questa grande espansione del mercato dei titoli e dei loro derivati, come già a
suo tempo la crescita dell'Euromercato, suscita non poche perplessità, in
particolare con riferimento al ruolo dello Stato e del potere di manovra della
politica fiscale e della politica monetaria.
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Innanzitutto, come è stato infinite volte detto, un tale grande afflusso di mezzi
di pagamento in movimento rende del tutto inadeguate le possibilità di
resistenza da parte delle banche centrali alla speculazione sulla moneta, dal
momento che le riserve anche dei maggiori paesi (e domani della stessa Unione
Europea) sono di dimensioni addirittura ridicole a fronte della massa di liquidità
che viene ogni giorno trattata sul mercato mondiale.
Allo stesso modo una politica di bilancio che punti sull'eccedenza della spesa
pubblica a fini sociali o a sostegno dell'occupazione e che crei un'attesa di rialzo
dei tassi d'inflazione, risulta se non impossibile certo estremamente rischiosa per
gli effetti che questa attesa produce sui mercati finanziari, scatenando movimenti
speculativi che aggraverebbero le difficoltà che quelle manovre avevano
intenzione di risolvere.
In definitiva tutti gli strumenti della politica keynesiana e postkeynesiana
risultano spuntati, in condizioni estreme del tutto inutilizzabili. In effetti una
delle ipotesi che sta alla base della costruzione keynesiana è l'esistenza di uno
spazio economico chiuso, come quello offerto dagli stati fra le due guerre
mondiali, con un controllo completo sui movimenti di merci e di moneta alle
frontiere.
La conseguenza di ciò è il trasferimento di una parte della sovranità nazionale ad
organismi più ampi, regionali (Unione Europea, NAFTA, ...) e mondiali: il
Fondo Monetario Internazionale.
Ma l'effetto della globalizzazione finanziaria sulla politica degli Stati può essere, e
in molti casi già si dimostra essere, ancora più penetrante.
Infatti gli operatori sui mercati internazionali valutano l'offerta finanziaria di un
paese confrontando il rendimento dei suoi titoli con tre rischi: quello di
svalutazione della moneta, di crescita dell'inflazione e quello definito
genericamente "rischio paese", il cui allarme scatta in conseguenza di fatti quali
l'instabilità politica, crisi sociali, fenomeni diffusi di terrorismo o di delinquenza,
mancanza di autorevolezza del governo, minacce di separatismo, disordini
interni, pericoli di guerra, ecc.
8
La consapevolezza che le valutazioni internazionali riducono di molto la
possibilità di manovra dei governi non solo sul terreno strettamente economico,
ma anche in quei settori tradizionalmente affidati alla valutazione interna degli
Stati modificano lo stesso gioco delle forze politiche e dei rapporti maggioranza
minoranza.
Se il mercato delle valute e dei titoli diviene sempre più globale, se il mercato
degli investimenti trova nutrimento nella finanza globale ma anche nelle radici
difficilmente estirpabili del locale, il mercato del lavoro mostra non equivoci
segni di muoversi non verso una maggiore apertura, ma anzi ad una contrazione
dei suoi flussi ed anche ad una delimitazione delle aree, all'interno delle quali i
flussi sono più attivi.
Che non si possa parlare di un mercato globale e neppure continentale del
lavoro è constatazione univoca e sotto gli occhi di tutti: i movimenti della
manodopera non sono tali da aver creato né da far presagire nel prossimo
futuro, una omogeneizzazione dei salari.
Ciò non avviene nei paesi dai quali fuoriesce manodopera i cui livelli salariali
sono cresciuti, là dove sono cresciuti, a causa di uno sviluppo endogeno delle
economie, sia pure aiutato da investimenti provenienti dall'esterno (Brasile,
Malesia, Taiwan, Corea del Sud).
Ma un livellamento dei salari non si verifica neppure nei paesi che ricevono gli
immigrati: tutte le analisi compiute calcolano che il peggioramento dei salari dei
lavoratori non specializzati, laddove questo si è verificato (ad esempio negli Stati
Uniti, che hanno anche prodotto le analisi più approfondite) dimostra che tale
deterioramento discende innanzitutto dall'evoluzione tecnologica, mentre la
concorrenza degli immigrati non ha nessuna influenza, ovvero, se esiste è del
tutto trascurabile in termini quantitativi.
Essa infatti sarebbe responsabile di non più del 2 o 3 % del peggioramento.
La teoria economica non è sufficiente a spiegare in maniera univoca e completa
tutti i meccanismi che stanno alla base della formazione del salario, anche perché
essi si intrecciano con le politiche statuali di redistribuzione del reddito, con la
maggiore o minore forza delle organizzazioni sindacali, con fattori demografici,
9
con il ritmo degli investimenti e l'introduzione di nuove più avanzate
tecnologie.
Tutto questo messo in conto, va però subito aggiunto che i movimenti di forza
lavoro che il mondo sta registrando alle soglie del 2000 sono inferiori in termini
quantitativi a quelli sperimentati negli ultimi due secoli, quando la fame di terre
spinse i contadini europei verso il nuovo mondo, il sistema schiavistico strappò i
negri dalla loro Africa, le autorità coloniali trascinarono i coolies indiani in
Africa e nei Caraibi, gli autocrati russi popolarono a forza le steppe dell'Asia, la
seconda guerra mondiale e la decolonizzazione costrinsero milioni di persone a
spostarsi per ricollocarsi entro nuovi confini.
La percezione di questo rallentamento è naturalmente poco visibile in Italia, che
essendo paese abituato a fornire al mondo masse di emigranti, si è trasformata
in terra verso la quale affluisce manodopera, e ha quindi l'impressione di sentirsi
invasa da una massa di diseredati che premono alle proprie frontiere.
Tuttavia si considerino alcuni fatti.
In primis anche all'interno di un'area di libera circolazione della manodopera
come l'Unione Europea, i movimenti di manodopera si sono fortemente
rallentati e questo senza che siano di molto diminuite le differenze di salario,
poniamo, tra Danimarca e Portogallo. Anche all'interno di un solo paese come
l'Italia, i movimenti di manodopera sono divenuti, dopo l'esodo impetuoso degli
anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, del tutto trascurabili e questo nell'ambito di
un territorio dove vigono la stessa lingua e le stesse norme.
Vi è quindi una tendenza ad accettare con meno facilità di un tempo gli
spostamenti nonostante la molto maggiore rapidità ed economicità dei trasporti
e delle comunicazioni.
I sociologi dovrebbero aiutarci a spiegare tale fenomeno, ma l'impressione
generale è che quando l'esodo era contemporaneamente rurale e agricolo, e cioè
l'emigrante si spostava da un ambiente rurale ad uno cittadino e
contemporaneamente da un lavoro agricolo ad uno industriale o commerciale,
erano sufficienti differenziali di reddito attesi minori di quelli necessari oggi per
spingere all'emigrazione.
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Ma se questo è vero allora dovremmo attenderci anche una minore volontà ad
emigrare, nonostante la crescente pressione demografica, dai paesi in via di
sviluppo dove ormai i fenomeni di urbanizzazione sono altrettanto massicci ed a
volte anche superiori a quelli del mondo industrializzato.
La seconda considerazione riguarda l'atteggiamento dei governi, che
tendenzialmente frappongono sempre più ostacoli alla libera circolazione della
manodopera.
L'Unione Europea, mentre da un lato abbatte tutte le barriere ai movimenti fra i
cittadini dei paesi membri, dall'altro rende più difficile l'ingresso agli
extracomunitari ed il ritardo con il quale l'Italia ha potuto aderire al trattato di
Schengen (che abolisce i controlli alla frontiera fra i paesi comunitari) deve
essere attribuito al timore, espresso dagli altri paesi, che le nostre frontiere siano
troppo permeabili all'immigrazione.
Oggi è più difficile, per un indiano, già cittadino del Commonwealth entrare in
Gran Bretagna di quanto non lo fosse trent'anni fa o per un congolese entrare in
Belgio, per un indonesiano entrare in Olanda e per un eritreo entrare in Italia.
Questo perché sotto la pressione dell'opinione pubblica (e a volte degli stessi
sindacati) di partiti nazionalisti e xenofobi, si accentua la diffidenza verso
cittadini di altri paesi ed aumentano le difficoltà al loro ingresso.
Un esempio fra i più clamorosi è quello offerto dagli Stati Uniti d'America nei
confronti del Messico. Mentre da un lato con la creazione ed il potenziamento
del NAFTA (North America Financial & Trade Agreement) si riducono sempre
più le barriere ai movimenti di capitali, di tecnologie e di merci, dall'altro il più
ricco vicino del Nord accentua i controlli alle frontiere, mentre numerosi Stati e
municipi rendono più problematico l'insediamento degli ispanici limitando o
proibendo loro il godimento dei servizi pubblici basilari.
Queste proibizioni all'ingresso, spingendo gli immigrati a scegliere modi illegali
di ingresso hanno come effetto l'aumento, in percentuale, fra i nuovi arrivati, di
persone con professionalità illegali e delinquenziali, con la conseguenza di
accrescere i sentimenti di ostilità dei residenti nei confronti di tutti gli immigrati.
Tali sentimenti di ostilità sono tanto più forti quanto maggiori sono le differenze
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etniche e soprattutto culturali. Ecco perché gli emigranti tendono sempre più a
spostarsi all'interno di aree culturali omogenee.
Vi è quindi da un lato una minore facilità della manodopera a spostarsi come
conseguenza di diverse cause: inurbamento diffuso, maggiori opportunità di
crescita anche nei paesi più poveri, ostilità e razzismo nei paesi di accoglienza, e
dall'altro una sempre maggiore volontà di rendere difficile l'accesso soprattutto
nei confronti di popolazioni di etnia e di cultura diverse.
La soluzione quindi per un riequilibrio dei redditi a livello mondiale ma anche
continentale e nazionale (come fra il Nord e il Sud dell'Italia) è da ricercarsi in
una crescita dei movimenti di capitale e soprattutto degli investimenti produttivi,
che però sono alla ricerca di condizioni ottimali a livello locale di microregioni.
È dunque dal capitale che dobbiamo aspettarci un aumento della mobilità. Il
trend degli ultimi anni lascia intravedere (come ha dimostrato l'ultima relazione
dell'UNCTAD, l'organismo delle Nazioni Unite cui è affidato il compito di
aiutare la crescita dei paesi poveri) una crescente disponibilità del capitale, non
solo finanziario, a collocarsi in misura ogni anno maggiore nei paesi in via di
sviluppo. Esso naturalmente non si muove da solo, ma con un seguito di servizi,
di tecnologie d'avanguardia, di tecnici professionisti e manager di alto livello in
grado di controllare i complessi processi produttivi ed aziendali moderni.
Si rafforza così e diviene sempre più rilevante in termini di apporto qualitativo,
se non quantitativo, il piccolo esercito dei "nuovi nomadi" come è stato definito,
composto da persone di elevata istruzione, di origine cosmopolita, che non si
identificano, se non per il colore del passaporto, con una particolare nazione,
che parlano fluentemente inglese e operano indifferentemente a Detroit, a
Lagos, a Bombay, ad Almaty a Dubay, i più al servizio delle multinazionali degli
organismi internazionali e delle associazioni del volontariato, altri come battitori
liberi nel campo degli scambi commerciali, dei media, della medicina, del diritto,
dell'insegnamento.
È questo il piccolo esercito di lavoratori d'élite, missionari non più della fede ma
del progresso e spinti, chi dall'interesse, chi da spirito umanitario, chi da ordini
burocratici che fa, a torto, pensare ad una maggiore mobilità interplanetaria del
12
lavoro. Sono loro, siano essi europei, americani, africani o asiatici, i responsabili
della diffusione dell'inglese come lingua franca, i portatori del messaggio di
tolleranza, di libertà economica, e di spirito di intraprendenza, in una parola: i
predicatori della cultura democratica occidentale.
Scopo principale, ma non esclusivo, di questo lavoro è cercare di individuare gli
effetti che la globalizzazione ha sul mercato del lavoro, sul mercato dei capitali,
sul sistema di produzione di beni e servizi, sui sistemi di comunicazione, sullo
stato, sull’individuo.
Le prime due parti serviranno da introduzione percorrendo le tappe storiche
principali del capitalismo e analizzando quali possono essere gli effetti della
globalizzazione sui due capitalismi (renano-nipponico e anglosassone).
Nella terza e quarta parte verranno invece trattati gli argomenti oggetto della
stessa tesi: la globalizzazione e i suoi effetti socio-economici.
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PARTE PRIMA
PERCORSO STORICO DEL CAPITALISMO
14
1. Definizioni: cosa si intende per capitalismo
Il termine <capitalismo>, che ha avuto in anni recenti tanto grande diffusione
sia nel linguaggio popolare che nel lavoro storiografico, viene usato in sensi
molto diversi, e manca ogni accordo sul problema di quale sia il suo impiego
corretto: ciò che non è, forse, del tutto sorprendente.
Assai più notevole è il fatto che nella teoria economica, quale viene esposta dalle
scuole tradizionali, lo stesso termine appaia molto raramente, o sia assente del
tutto.
Vi è perfino una corrente di pensiero, seguita da storici e da economisti, la quale
rifiuta di ammettere che al capitalismo, come denominazione intesa a designare
un determinato sistema economico, possa venire attribuito un significato
preciso.
1
Per quanto riguarda gli economisti ciò si deve in larga misura al fatto
che i concetti fondamentali della loro teoria, nella sua formulazione più comune,
vengono elaborati su un piano di astrazione privo di qualunque contatto con
quei fattori storicamente relativi, in funzione dei quali soltanto il capitalismo può
venir definito.
Riguardo agli storici che adottano tale nichilistico punto di vista, sembra che il
loro atteggiamento nasca dall’aver posto così fortemente l’accento sull’estrema
varietà e complessità degli eventi storici, da dover poi giungere a rifiutare tutte
quelle categorie generali, che costituiscono la trama della maggior parte delle
teorie di demarcazione tra le diverse epoche storiche.
Nessun periodo della storia - si afferma - è costituito da un tessuto unitario, ma
invece tutti, da una complessa commistione di elementi diversi: e il voler
contrassegnare una sezione del processo storico col titolo di un elemento
singolo, non è che una semplificazione ingannatrice.
Si potrà parlare di un sistema come il capitalismo come formulazione di un
aspetto che in varia misura ha caratterizzato numerosi periodi della storia; ma in
1
Dobb Maurice. Problemi di storia del capitalismo, Roma, Editori Riuniti, 1980, pag. 17
15
quanto tale, esso non sarà altro che un concetto economico astratto, non
storico: e in generale, il tentativo di rintracciare le origini reali di un tale sistema è
una ricerca vana senza fine.
E’ lecito il sospetto, che tale atteggiamento sia corroborato da considerazioni
meno disinteressate: se infatti il capitalismo non esiste come entità storica, i
critici del presente ordine economico, che domandano un mutamento del
sistema, se la prendono in realtà coi mulini a vento; e Marx in particolare, che è
originariamente responsabile di tutti i discorsi sul <sistema capitalistico>,
costruì soltanto dei fantasmi.
Certuni han fatto un gran parlare di tutto ciò;... oggi, dopo mezzo secolo di
intensa ricerca nel campo della storia economica, raramente gli storici
considerano sostenibile una siffatta posizione, anche quando continuano a
considerare sospetta l’origine della parola capitalismo. Il maggiore storico del
Mercantilismo respinge il concetto di <capitalismo moderno> come un
<indigeribile pasticcio> - è vero; ma l’opinione prevalente di coloro che hanno
indagato lo sviluppo economico dell’età moderna è così riassunta, in un passo
ben noto, dal prof. Tawney:
2
<dopo che studiosi di mezza dozzina di nazioni e
delle più diverse tendenze politiche hanno lavorato sull’argomento per più di
mezzo secolo, negare che il fenomeno esista, o sostenere che esso esiste sì, ma,
solo tra tutte le istituzioni umane, vive come Meldichisecco dall’eternità, o lasciar
intendere, che se pure esso ha una storia, le convenienze impediscono che essa
sia portata alla luce - tutto ciò significa mettersi volontariamente dei paraocchi...
Un autore ... non ha molte probabilità di cavare qualcosa dalla storia europea
degli ultimi tre secoli, se, oltre ad evitare il termine, ignora anche il fatto. ... Si
potrebbe pensare che la varietà dell’uso linguistico offra scarso appiglio alla
discussione e non possa recare gran danno; ma siffatte variazioni non sono
soltanto connesse con diverse valutazioni di ciò che è rilevante per la ricerca
nella moltitudine degli accadimenti storici, e con diversi principi di selezione
2
Tawney. Dall’opera La religione e il sorgere del capitalismo, edizione del 1937