Il candomblé di Rio de Janeiro e di São Paulo, al contrario, si è maggiormente urbanizzato a causa del
ritmo frenetico delle due megalopoli. Tuttavia Salvador de Bahia continua ad essere vista da tutti come
la patria mitica del candomblé dove ci si reca per ricevere l’axé.
Attraverso questo elaborato mi sono proposta di dare un’idea generale di tutto ciò che è e che
rappresenta questa grande religione afro-brasiliana, non solo per gli afro-brasiliani stessi ma anche per
tutti coloro che nel tempo si sono avvicinati ai suoi principi a tal punto da farne una ragione ed una
filosofia di vita.
Nell’approcciarmi al candomblé, ho cercato di immedesimarmi nei suoi fedeli e nelle loro convinzioni
religiose e, giorno per giorno, ho scoperto sempre di più una realtà completamente nuova e fresca.
Sono rimasta affascinata dalla visione del mondo del candomblé, dalla grande devozione che hanno i
fedeli nei confronti degli orixás e, soprattutto, dalla capacità ed elasticità di questa religione nell’aver
saputo adattarsi alle trasformazioni al punto da diventare per molti un punto di riferimento, nonché una
via d’uscita da una realtà crudele.
Possiamo affermare che al giorno d’oggi il candomblé è una religione diffusissima fra tutti i ceti sociali
della popolazione, senza distinzione di razza, di provenienza o di colore della pelle. Esso è diventato un
vero e proprio fenomeno sociale, che lotta quotidianamente per la supremazia con il cattolicesimo e
anche con tutte le altre religioni afro-brasiliane.
Grazie a questa tesi è iniziata per me un’immersione nella realtà brasiliana, così affascinante e ricca di
colori, che spero di poter vedere presto dal vivo. Per il momento mi limito ad illustrare nelle pagine che
seguono ciò che ho compreso di questa realtà e spero di farlo in modo gradevole.
La tesi è suddivisa in quattro capitoli: nel capitolo 1 presento il candomblé, la sua storia e tutto ciò che i
fedeli africani sono riusciti a portare di esso con sé nel Nuovo Mondo; nel capitolo 2 illustro il mondo
degli orixás, con tutte le loro caratteristiche particolari e le loro personalità; il capitolo 3 vuole essere
una descrizione di tutte le cerimonie che fanno parte del terreiro, come le feste pubbliche, e della vita di
un fedele, come ad esempio l’iniziazione o la possessione; nel capito 4, infine, mi sono dedicata
all’illustrazione delle tecniche di cura e di terapia utilizzate dalle personalità di spicco del candomblé.
5
Capitolo 1: dall’Africa al Brasile
1.1 La tratta degli schiavi
Come sia nato e si sia sviluppato il culto del candomblé in Brasile è ancora un mistero. Per cercare di
rispondere a questo interrogativo dobbiamo necessariamente risalire agli inizi delle deportazioni di intere
popolazioni che, dalla costa occidentale dell’Africa (dal Senegal, dall’Angola, dalla Nigeria e dal Congo) e
da quella orientale (dal Mozambico e dal Madagascar), venivano caricate e spedite in sovraccariche navi
negriere verso il nuovo mondo da poco scoperto.
Il risultato di questi traffici portò ad una caleidoscopica moltitudine di razze differenti che non parlavano
la stessa lingua, essendo nate in contesti sociali e spirituali diversi.
Le documentazioni storiche ci indicano che i primi trasporti di schiavi ebbero inizio appena 38 anni dopo
la scoperta del Brasile (1500), e cioè nel 1538, e che si protrassero fino alla metà del 19 secolo, anche se in
realtà continuò illegalmente fino alla fine del secolo. I riferimenti alla quantità di schiavi africani deportati
in totale sono piuttosto discordanti: secondo Barbàra (2003:5) non meno di 500.000 africani furono
deportati in tutto il territorio; Pinsky (2004) parla di 1.732.000 schiavi deportati dal 1531 al 1850; secondo
l’IBGE, Instituto Brasileiro de geografia e estatistica, (2000) furono deportati circa 4 milioni di africani,
l’equivalente di un terzo di tutto il commercio negriero.
La tratta ebbe origine dalla crisi demografica india e dalla conseguente richiesta di manodopera a basso
prezzo da utilizzare inizialmente nelle grandi piantagioni di canna da zucchero e, in seguito, nelle miniere
che erano state scoperte in un secondo tempo nell’interno del paese, in Minas Gerais e zone limitrofe. La
cattura avveniva con metodi violenti e brutali. Dopo essere stati marchiati a fuoco gli uomini, le donne e i
bambini venivano spogliati e fatti salire sulle navi, dove erano ammassate molte più persone di quante
potessero essere trasportate. Il viaggio in mare risultava un vero inferno, soprattutto a causa del terrore e
della tristezza che provavano i prigionieri che temevano di essere stati catturati dai bianchi per essere poi
mangiati al loro arrivo nel porto di destinazione. Le navi negriere erano talmente cariche che i poveri
sventurati non potevano neanche sdraiarsi, ma erano obbligati a stare seduti per tutta la durata del viaggio,
legati a due a due con pesanti catene. A volte per mantenerli in “salute”, venivano fatti salire sul ponte e
obbligati a saltare con le catene alle caviglie. Chi moriva durante la traversata veniva buttato in mare.
All’arrivo nei porti le madri venivano divise dai figli senza alcun riguardo per i bambini.
La tratta degli schiavi verso Salvador de Bahia si può dividere in quattro cicli:
1) il ciclo della Guinea : seconda metà del XVI secolo;
2) il ciclo dell’Angola e del Congo: XVII secolo;
3) il ciclo della Costa di Mina : primi tre quarti del XVIII secolo;
4) il ciclo del Golfo di Benin, Dahomey, Nigeria: dal 1770 al 1850.
Si può nominare anche un ultimo periodo, quello dell’illegalità, che si caratterizzò per la clandestinità;
anche se dal 1815 erano stati stipulati dei trattati fra Inglesi, Portoghesi e Brasiliani che abolivano il
traffico negriero a nord dell’Equatore, il triste commercio continuò fino alla fine del secolo.
6
Furono soprattutto i Sudanesi e i Bantu a essere deportati in Brasile; fra i Sudanesi arrivarono gli Ioruba
(Nagô, Igexá, Egbá, Ketu, Ibadan, Ijebu) che furono destinati soprattutto alle piantagioni dello stato di
Bahia e del Nord-est, e i Dahomeani ( Jejê o Ewe) destinati alle piantagioni del Maranhão. I Bantu,
invece, erano costituiti da numerose tribù del Congo, dell’Angola e della Costa Orientale. Sembra che
siano stati proprio loro i principali responsabili della costruzione dei Quilombos, repubbliche libere
fondate nella foresta da schiavi fuggiaschi che erano formate da più villaggi e nelle quali si cercava di
ristabilire le culture e i valori di origine. Fu una vera rivoluzione contro lo schiavismo messo in pratica
nel Brasile coloniale. Spesso nei Quilombos confluirono anche Indios e mulatti.
Secondo Barbàra (2003:11), la cultura europea di quell’epoca considerava gli africani dei popoli
selvaggi, privi di cultura, che avevano avuto la fortuna di essere stati catturati dai bianchi e di essere
stati civilizzati ed istruiti alla religione cristiana. Raramente si riconosce che i principali artefici della
nascita del Brasile furono proprio quegli schiavi che, provenendo da forti città-Stato, conoscevano la
lavorazione del ferro ed erano abili artigiani. Il livello socio-culturale di queste popolazioni era molto
vario. Si dice che i Bantu del Congo e dell’Angola fossero i più primitivi e per questo fossero i più
remissivi e docili. Erano quindi considerati dai padroni schiavi di serie A, proprio a causa della loro
“dipendenza”. Si diceva addirittura che imparassero meglio la lingua portoghese.
I più temuti, invece, furono i Sudanesi: gli Ioruba e i Dahomeani, che erano abituati a vivere in città-
Stato e conoscevano varie arti fra cui quella della tessitura, la lavorazione del ferro ed erano grandi
artisti per quanto riguardava il rame, l’oro e il legno. Allevavano animali e costruivano fortificazioni.
Erano temuti inoltre a causa della loro cultura; spesso erano superiori ai loro padroni: sapevano leggere
e scrivere nella loro lingua e questo faceva sì che fossero guardati con sospetto.
In Brasile il traffico negriero fu ufficialmente proibito nel 1850 con la legge Eusébio de Queiroz.
1.2 Contributo delle civiltà africane alla cultura brasiliana
In tutto il Brasile si avverte la presenza della cultura africana: dalla cucina, alla danza, dalla musica al
modo di parlare e in particolare alla religione.
Attraversando l’oceano gli schiavi portarono con sé non solo la forza-lavoro ma anche le loro culture e
le loro credenze. Furono le loro divinità a salvarli, a salvaguardare la loro identità e contribuirono a
modificare la società e la mentalità in cui erano stati immessi violentemente.
In Brasile il modello della società schiavista era rappresentato dalla fazenda che era costituita da tre
edifici: la chiesa, al centro, l’edificio per gli schiavi, la senzala, e la casa padronale, la casa grande. La
Chiesa, che al principio incentivava la deportazione delle popolazioni africane, si mostrò con il passare
del tempo più clemente con gli schiavi, autorizzando lo svolgimento delle loro manifestazioni religiose
alla sola condizione di essere battezzati e di adorare le immagini dei santi cattolici.
Il permesso a dar libero sfogo a queste manifestazioni portò alla creazione di molte confraternite di
africani, con lo scopo di curare le proprie anime. Gli schiavi sapevano che soltanto la cristianizzazione e
7
l’occidentalizzazione avrebbe permesso loro una certa mobilità verticale, ovvero la possibilità di
sopravvivere. Bisognava, quindi, adattarsi, “re-interpretando”, laddove possibile, persino i propri culti
religiosi. Più tardi nacquero anche società carnevalesche, quelle funerarie e di mutuo soccorso, e si
originò anche il candomblé.
Tutte queste associazioni sorsero per compensare gli schiavi della violenta “detribalizzazzione” subita e
per offrire modelli di riferimento a coloro che erano stati privati di tutto ciò che di più intimo
possedevano: gli affetti, una casa, la nazione e soprattutto la dignità personale.
Riunendosi nelle loro feste, rinnovando la forza dei loro simboli, dei loro valori, dei lori ideali, gli
schiavi lavoravano meglio. I padroni portoghesi notarono che era controproducente, dal punto di vista
del loro profitto, un’imposizione ossessiva dell’orario di lavoro, quindi lasciarono fare.
Ci fu un altro elemento a favorire gli africani: la danza, elemento marcante delle manifestazioni
religiose “nere”, che era vista e considerata come una tecnica di eccitazione sessuale. Cosa videro gli
europei nelle danze frenetiche degli africani? Un incentivo alla procreazione, cioè un mezzo per
aumentare il proprio investimento umano senza perdere il capitale. Essi dicevano: «Danzate, neri….e
moltiplicatevi». Ma queste feste, queste sfrenate danze, le stesse che vengono dirette oggi dai pais-de-
santo
1
nei sobborghi della città di Bahia, venivano permesse perché i bianchi immaginavano fossero dedicate
alla vergine e ai santi cattolici, dal momento che venivano celebrate davanti agli altari. In realtà non
avveniva proprio così: erano gli orixás africani i protagonisti celebrati, le divinità alle quali i neri
rendevano omaggio. I cattolici, quindi, chiudevano un occhio, in nome del guadagno e del bene comune
e poi pensavano, in fondo questi africani erano pur sempre battezzati e si sarebbero presto trasformati in
buoni cattolici.
Molti storici vedono in queste organizzazioni l’origine del sincretismo: le confraternite contribuirono
alla conservazione dei rituali religiosi e delle culture africane in genere. Si creò un’intima fusione dei
riti, una simbiosi fra vari elementi spesso appartenenti a due o più culture che entravano in contatto. In
una situazione di sofferenza comune si riuscivano ad unire persino etnie solitamente nemiche e
tradizionalmente rivali. Naturalmente gli africani entrarono in contatto anche con la popolazione
indigena.
Le culture africane in Brasile non si fecero assimilare, ma con grande capacità creativa recuperarono
simboli ed elementi da tutte le culture con cui entrarono in contatto e soprattutto cercarono di spiegare
la vita, tentando di ritrovare un senso e una sensibilità al di là di quello che avevano vissuto.
1.3 Il sincretismo
L’aspetto più evidente del sincretismo è dato dalla corrispondenza tra i santi cattolici e gli orixás
africani, che – in modo un po’ riduttivo per quello che è il complesso religioso del candomblé – è stata
considerata la caratteristica più suggestiva e importante di questo culto afro-brasiliano. Probabilmente è
8
vero, come dice un detto popolare brasiliano, che «gli europei hanno attraversato l’Oceano per imporre
la legge di Cristo e ci sono riusciti nelle messe e nelle processioni ma non nelle anime». (Barba,
1999:12)
Certo è difficile giudicare razionalmente possibile un’armonia tra il politeismo africano e il monoteismo
cristiano. Per i sacerdoti del candomblé, o perlomeno per quelli che tuttora accettano di fatto il
sincretismo, la spiegazione è possibile: esiste una religione universale, che riconosce l’esistenza di un
unico Dio creatore, e poi tanti culti che diversificano e articolano il panorama religioso, ma che possono
essere tutti ricondotti all’assoluto, ossia ad una religione universale.
Esiste, nella memoria degli adepti del candomblé, un Dio creatore, che è Olorun, ma, essendo troppo
lontano, questo dio ha bisogno di intermediari, siano essi angeli, santi, o orixás. A stabilire una
corrispondenza tra questi ultimi e i santi del cattolicesimo è intervenuta, ad esempio, l’iconografia;
possiamo immaginare che l’influenza di certe raffigurazioni di alcune stampe religiose possano aver
influito enormemente sulla fantasia dei praticanti, accostando queste nuove figure alle divinità africane;
in questo modo si diede un volto occidentale a delle divinità che fino ad allora avevano trovato un
riferimento soltanto in simboli, figure e statue di terracotta, e che erano prive, dunque, di un’immagine
prestabilita.
Ogum, dio del ferro e della guerra, fu sincretizzato con Sant’Antonio o con San Giorgio, a seconda dei
terreiros
2
;
Oxóssi, dio della caccia, fu associato anche’esso a San Giorgio o a San Sebastiano;
Omolu, dio delle malattie contagiose, fu identificato con San Lazzaro o con San Sebastiano, per via
delle ferite che ne ricoprono il corpo;
Xangô, dio dei tuoni, violento e virile, fu paragonato a San Gerolamo;
Oxum, dea dell’acqua, della bellezza e della vanità fu sincretizzata con la Madonna;
OyáYansã, dea dei venti e delle tempeste, fu sincretizzata con Santa Barbara;
Nanã Buruku, dea delle paludi e del fango, diventò la Sant’Anna dei cattolici;
Yemanjá, madre di numerosi altri orixás e dea del mare, fu sincretizzata con l’Immacolata Concezione;
Oxalá, dio della creazione, fu sincretizzato con Gesù Cristo;
Ossâim, dio delle erbe e delle foglie, fu sicretizzato con Sant’Onofrio;
Oxumarê, dio metà donna e metà uomo, divenne San Bartolomeo;
Logum-Edê, fu sincretizzato con l’arcangelo Gabriele;
Obá, dea del fiume, fu sincretizzata con Giovanna d’Arco o con Santa Caterina;
Euá, dea delle grotte e delle fonti, divenne Nostra Signora di Mont Serrat.
Con un po’ di buona volontà si trovano e si giustificano le corrispondenze fra i santi cattolici e gli
orixás afro-brasiliani. Diverso è il discorso se ci si chiede cosa realmente avvenga nella mente e nel
cuore di un fedele che contemporaneamente va a messa e alle sedute di candomblé, che crede in Dio e
anche in Olorun. È una maschera dei bianchi sui santi neri, oppure un’intima e sentita fusione? Si tratta
di una diversità linguistica oppure di una confusione perpetuata e di convenienza? Difficile dirlo. Quello
9
che si può dire è che il brasiliano è sinceramente cattolico quando si reca a messa, così come è legato
strettamente alla religione africana quando si reca alle sedute di candomblé. Questa duplice
appartenenza viene vissuta dai fedeli con estrema disinvoltura.
1.4 Storia del candomblé
Ancora non si sa esattamente come sia nato e come si sia sviluppato il candomblé. La sua origine è
considerata magica ed è strettamente legata alla città di Salvador de Bahia in quanto i grandi terreiros di
candomblé nacquero proprio in questa città e da qui si sparsero in tutto il Brasile.
A partire dal XIX secolo la Chiesa cattolica aveva istituito delle confraternite che consentivano di
separare le varie etnie africane; ciò impediva che gli schiavi riuscissero a raggrupparsi nuovamente,
tuttavia veniva loro permesso di venerare i propri dei.
A Salvador de Bahia alcune donne originarie di Ketu, antiche schiave libere appartenenti alla
confraternita della Boa Morte, avrebbero organizzato un terreiro di candomblé chiamato Oyá Omi Ase
Àirá Intilè in una casa situata vicino alla chiesa della Barroquinha e dopo varie sistemazioni si
installarono definitivamente nell’Avenida Vasco da Gama con il nome di Casa Branca.
Le versioni su queste sacerdotesse sono varie; sembra che due di queste, Ialussô Danadana e Ianassô
Acalá o Ianassô Ocá, aiutate da un sacerdote chiamato Babá Assicá, sarebbero state le due fondatrici
del terreiro. Il titolo di Ianassô era un titolo altamente importante alla corte del re di Oyo e
corrispondeva a funzioni religiose specifiche e di grande significazione, in quanto colei che deteneva
questo titolo dirigeva il culto di Xangô. Sembra che Ialussô Danadana sia tornata in Africa e là sia
morta. La sacerdotessa Ianassô sarebbe tornata a Ketu, accompagnata da Marcelina da Silva, una sua
figlia spirituale o forse figlia di sangue che era incinta di una bimba che sarebbe stata la madre di una
delle mãe-de-santo
3
più celebri di Bahia, Mãe Senhora.
Marcelina da Silva e il suo gruppo ritornarono a Salvador con un africano, Bangboxé, figura mitica del
candomblé.
Da questa radice di tradizione ketu nacque il terreiro della Casa Branca, il cui nome ioruba è Ilé Axé
Iyá Nassô. Successivamente, nel 1910, nacque un’altra famosa casa denominata Axé Opô Afonjá, ad
opera della celebre mãe-de-santo Eugênia Ana Santos, Mãe Aninha, figlia di Xangô.
È da sottolineare che in queste case tradizionali la guida della comunità può essere solo una donna e che
nel terreiro della Casa Branca l’iniziazione continua ad esistere soltanto per il sesso femminile.
La figura femminile, infatti, è centrale nella religione del candomblé; le sacerdotesse esercitano il
proprio potere con un’ autorevolezza ed una saggezza uniche.
Nel XIX secolo ci furono molti figli di africani di prima generazione che si recarono in Africa per farsi
iniziare. Ritornarono poi a Bahia ed ebbero una grande influenza sull’organizzazione dei culti. Si
possono citare due figure mitiche del candomblé: Martiniano Eliseo de Bonfim e suo padre, che arrivò
come schiavo nel 1840, comprò la libertà nel 1850 e dopo altri cinque anni riuscì a liberare anche la
10
moglie. Martiniano nacque libero nel 1859 e a diciassette anni andò con il padre a Lagos per farsi
istruire, da dove tornò nel 1886. Diventò un babalaô
4
molto conosciuto.
Molti ex-schiavi, invece, tornarono in Africa e vi rimasero per sempre.
A partire dagli anni ’20-’30, dalla culla delle culture africane che è Salvador de Bahia, le sacerdotesse
cominciarono ad intraprendere molti viaggi verso il sud del Brasile per iniziare nuovi fedeli e
successivamente fondare dei terreiros di candomblé a Rio de Janeiro e a São Paulo.
La parola “candomblé” è una parola bantu che sembra significare “danze dei negri”, ma è identificato
anche con il nome di un antico strumento musicale.
Il candomblé nacque da schiavi che erano stati divisi in varie “nazioni”, o gruppi, a seconda del luogo di
provenienza. Le nazioni più importanti erano: Angola, Congo di tradizione bantu, Jejê provenienti dal
Dahomey e le popolazioni Ioruba ( Ketu, Igexá, Egbá, Oyo). È possibile distinguere queste nazioni dal
modo di suonare il tamburo, dalla musica, dai colori, dal modo di ballare ecc. Al giorno d’oggi la più
conosciuta è la nazione Ketu, che è anche considerata la più tradizionale.
Il candomblé è la religione afro-brasiliana che maggiormente ha mantenuto le caratteristiche delle
religioni tradizionali africane, sia nella cosmogonia sia nel rituale che nella solidarietà sociale.
Le civiltà africane spesso vengono definite “simboliche” e infatti i disegni, gli oggetti, le piante, le
pietre rimandano sempre ad un “altro”, che è difficilmente spiegabile e rappresentabile. Questo “altro”
non è però un semplice specchio fra oggetti e cose, è invece un filo energetico che collega gli esseri
umani e non, secondo una classificazione del mondo caratteristica del candomblé.
1.5 Struttura della religione
Il candomblé crea un collegamento armonioso fra tutte le parti che compongono l’essere umano, il
cosmo e la società, mettendo in equilibrio tutti questi aspetti dinamicamente..
Esiste una divinità suprema, un principio unico chiamato Olorun o Olodumarê, che non agisce
direttamente sulla Terra, ma è sostituito dagli orixás. Questi sono divinità che hanno avuto
l’incombenza di creare e governare il mondo; ognuno di essi è responsabile di un aspetto particolare
della natura e di certi aspetti della vita sociale e individuale.
Gli orixás sono forze vive che si occupano di:
1) un aspetto del cosmo;
2) un aspetto sociale;
3) un aspetto individuale.
Ogni persona è un frammento della divinità ed è per questo che è considerata figlia dell’orixá, dal quale
ha ereditato le caratteristiche fisiche, psichiche ed energetiche. Tali legami sono impressi in tutto il
corpo, ma solo con l’iniziazione possono essere fissati in modo stabile
11