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INTRODUZIONE
Il presente lavoro di tesi si inserisce all’interno di uno studio longitudinale più ampio sullo
sviluppo cognitivo, motorio e socio-emotivo dei bambini a cui viene diagnosticata una
patologia oncologica nei primi tre anni di vita.
Il progetto, avente lo scopo di comprendere se il cancro nella prima infanzia possa
influenzare lo sviluppo delle abilità cognitive, motorie e d’interazione dei piccoli pazienti,
è stato avviato nel settembre 2003 dal gruppo di ricerca della Professoressa Axia, del
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università degli
Studi di Padova, in collaborazione con la Clinica di Onco-Ematologia Pediatrica
dell’Ospedale di Padova e la Fondazione Città della Speranza, con la supervisione del
Professor Marc H. Bornstein, direttore del Centro di Ricerca del Bambino e della Famiglia
del NICHD (Bethesda, USA).
Il contesto più ampio dello studio è quello dei continui progressi scientifici e tecnologici
nell’ambito dell’oncologia medica che, aumentando notevolmente la possibilità di
diagnosi precoce e di cura per la maggior parte dei tumori pediatrici (Rapporto AIRTUM,
2008), danno luogo ad una crescente necessità di informazioni psicologiche nell’ambito
dell’oncologia pediatrica. La ricerca su questo tema documenta la presenza di una pluralità
di effetti negativi nei bambini che hanno vissuto l’evento cancro (Buizer et al., 2008;
Gurney et al., 2009; Speechley et al., 2006). Tuttavia, pochissimi studi hanno valutato le
conseguenze a lungo termine dell’insorgere della malattia nella prima infanzia (Kaleita,
Reamn, MacLean, Sather e Whitt, 1999) e non esiste ad oggi una ricerca prospettica sullo
sviluppo dei bambini affetti da patologia tumorale nei primi tre anni di vita. Ciò appare
essere una grave mancanza, dati il forte impatto che una malattia potenzialmente letale
come il cancro può avere su qualsiasi individuo e l’importanza dei primi anni di vita per lo
sviluppo del bambino.
Questo lavoro di tesi si focalizza sull’aspetto longitudinale del progetto ed in particolare
sulla valutazione di come procede nel tempo lo sviluppo cognitivo e motorio dei piccoli
pazienti, confrontati con bambini sani appaiati per genere ed età.
Gli obiettivi che hanno guidato lo studio sono sei. Il primo obiettivo consiste nel verificare
eventuali differenze nello sviluppo cognitivo nel tempo (a pochi mesi dalla diagnosi, T1, e
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dopo un anno dalla prima valutazione, T2) tra i bambini malati e quelli sani. Il secondo
obiettivo punta ad indagare la presenza di eventuali differenze tra i bambini malati e quelli
sani, al T1 e al T2, nello sviluppo motorio. Il terzo obiettivo si propone di verificare se
l’insorgere del cancro nel figlio modifichi i livelli d’ansia delle madri, confrontate con le
madri dei bambini sani. Il quarto obiettivo intende valutare se esiste un’associazione tra
alcune variabili mediche e lo sviluppo cognitivo e motorio dei bambini malati. Il quinto
obiettivo vuole indagare invece la possibile associazione tra variabili genitoriali come i
livelli d’ansia e i sintomi da Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS) riportati dalle
madri dei bambini malati e lo sviluppo cognitivo e motorio di questi ultimi. Il sesto
obiettivo si propone di scoprire quali variabili mediche e genitoriali presenti al T1
costituiscano dei predittori del funzionamento cognitivo e motorio del bambino al T2.
Per l’indagine di tali quesiti si è scelto di utilizzare un approccio multimetodo integrando
l’uso di procedure di valutazione diretta (scale di sviluppo), con l’uso di procedure di
valutazione indiretta (questionari), per ottenere una maggiore quantità di dati e ovviare ai
limiti dei singoli strumenti. Per l’assessment del bambino sono state utilizzate le scale
Bayley (1993) fino ai 42 mesi di età e le scale Griffiths (1970) dai 43 mesi in su; per
l’assessment delle madri sono stati proposti dei questionari self report, tra cui lo STAI
(Spielberger, 1983) per entrambi i gruppi e l’ LTFU (LTFU, Lonnie Zeltzer et LTFU staff,
CCSS, Department of Pediatrics, University of Minnesota, USA – adattamento in italiano
di Tremolada M., 2003) per le sole mamme dei bambini malati.
Questo lavoro di tesi si suddivide in sei capitoli.
Nel primo capitolo si parla del cancro in età pediatrica. Vengono descritti l’epidemiologia
e le percentuali di sopravvivenza per i tumori infantili con una particolare attenzione a
quelli più frequenti nei primi anni di vita, il coinvolgimento dell’intera famiglia nella
drammatica situazione vissuta dal bambino malato e i punti cardine della psiconcologia
pediatrica.
Il secondo capitolo si focalizza sullo sviluppo cognitivo e motorio dei piccoli pazienti. In
particolare, dopo una breve presentazione delle conseguenze del cancro e di ciò che esso
comporta sul benessere dei bambini piccoli viene presentata una rassegna della letteratura
sugli effetti della patologia oncologica sullo sviluppo cognitivo e motorio dei piccoli
pazienti.
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Il terzo capitolo prende in esame la condizione dei genitori dei bambini oncologici. Viene
presentata una rassegna della letteratura sull’adattamento genitoriale alla malattia del
figlio e i livelli di distress nel corso del tempo, con particolare riguardo ai sintomi d’ansia
e da DPTS.
Nel quarto capitolo vengono presentati gli obiettivi, le ipotesi e il metodo della ricerca. In
particolare vengono descritti i partecipanti, la procedura, il setting, il timing e gli strumenti
utilizzati per la valutazione del bambino e del genitore.
Nel quinto capitolo vengono riportati i risultati delle analisi statistiche.
Nel sesto capitolo vengono discussi i risultati a partire dai quesiti iniziali e alla luce della
letteratura esistente. Infine vengono esaminati i limiti della ricerca e le implicazioni future.
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CAPITOLO I
IL CANCRO INFANTILE E LA PSICONCOLOGIA PEDIATRICA
1.1 La malattia neoplastica in età evolutiva
Il termine cancro si riferisce a qualsiasi neoplasia maligna, dove neoplasia significa
crescita relativamente autonoma di tessuto (Tolone, 2001).
Il cancro origina da un accumulo di mutazioni, alterazioni dei geni
1
che regolano la
proliferazione e la sopravvivenza delle cellule, la loro adesione e la loro mobilità. Le
mutazioni possono svilupparsi in tempi molto differenti, anche sotto l'influenza di stimoli
esterni (AIRC, 2010). Quindi, il cancro si può formare a partire da un malfunzionamento
nel processo di divisione cellulare, da una regolazione difettosa del ciclo di divisione
cellulare o da un’alterazione del processo di apoptosi
2
(Pastenrak, 2001). Il tumore
benigno può essere considerato la prima tappa di queste alterazioni, anche se molto di
frequente si arriva alla malignità senza evidenti segni precursori (AIRC, 2010).
I tumori infantili, pur rappresentando la seconda causa di morte in età pediatrica dopo gli
incidenti (traumi e avvelenamenti), costituiscono un evento raro, con un’incidenza cento
volte inferiore a quella della popolazione adulta e dai tumori degli adulti si distinguono sia
a livello biologico che istologico. L’incidenza dei tumori infantili varia a seconda della
fascia d’età: essa è minima tra i 6 e i 12 anni e crescente negli adolescenti, mentre è
massima nei primi anni di vita. Tra le varie fasce d’età, inoltre, si distribuiscono
diversamente i differenti tipi di tumore: il neuroblastoma, il tumore di Wilms, il
retinoblastoma e il medulloblastoma sono i più comuni nei lattanti e nella prima infanzia,
la leucemia linfoblastica si presenta più frequentemente intorno ai 4-5 anni, i linfomi di
1
Le alterazioni dei normali processi cellulari sono dovute a difetti di uno o più geni regolatori. I proto-oncogeni sono i
geni che producono le proteine necessarie per la crescita e la divisione cellulare e possono essere alterati in vari modi:
possono essere amplificati producendo un’eccessiva proliferazione di cellule poco differenziate oppure possono avere
delle mutazioni puntiformi nella struttura molecolare del gene oppure possono essere oggetto di traslocazione
cromosomica. I soppressori, invece, sono i geni che regolano la crescita cellulare e programmano l’invecchiamento e la
morte delle cellule, quindi una loro inattivazione comporta un acrescita incontrollata di cellule indifferenziate.
2
Processo di morte cellulare programmata (Kerr, Wyllie & Currie, 1972), diverso dalla necrosi, in cui la cellula muore
per cause non naturali come ipossia, temperature estreme, tossine prodotte da batteri o virus infettanti.
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non-Hodgkin tra i 7 e i 10 anni, mentre i linfomi di Hodgkin e i tumori ossei hanno i loro
picchi di incidenza in adolescenza.
Di seguito, i tassi di incidenza delle prime tre sedi tumorali più frequenti per ogni classe di
età per il periodo 2000-2004 (Registro Tumori del Veneto, 2011) riscontrati tra i maschi
(Figura 1.1) e tra le femmine (Figura 1.2).
Figura 1.1: Tassi di incidenza delle prime tre sedi tumorali più frequenti per classe d’età, per milione di
maschi.
Figura 1.2: Tassi di incidenza delle prime tre sedi tumorali più frequenti per classe d’età, per milione di
femmine.
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Nel grafico seguente (Figura 1.3), invece, sono illustrati i tassi di incidenza per milione di
bambini, per classe di età e periodo di diagnosi, relativamente a tutti i tumori.
Figura 1.3: Tassi di incidenza di tutti i tumori per classe d’età e periodo di diagnosi, per milione di bambini.
Dal grafico riportato in Figura 3 è possibile notare, come premesso sopra, che le fasce
d’età maggiormente colpite sono quelle dei primissimi anni di vita.
Anche i dati inerenti le probabilità di sopravvivenza sono più rassicuranti per quanto
riguarda i tumori infantili rispetto a quelli degli adulti. Infatti per quanto concerne i tumori
maggiormente diffusi nella prima infanzia si ha una sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi
pari al 90,5% per i linfomi, al 85,7% per le leucemie e al 66,7% per i tumori del sistema
nervoso centrale (Registro Tumori del Veneto, 2011). Ciò è in gran parte dovuto a
particolari caratteristiche clinico-biologiche che rendono i tumori pediatrici maggiormente
sensibili alle terapie, le quali vengono tra l’altro maggiormente tollerate rispetto all’adulto
(Massaglia & Bertolotti, 2002).
Il grafico riportato in Figura 1.4 rappresenta la sopravvivenza osservata per tutti i tumori
nei bambini per periodo (Registro dei Tumori del Veneto, 2011).
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Figura 1.4: Percentuali di sopravvivenza per tutti i tumori, per periodo dalla diagnosi.
Con il sempre maggiore innalzamento delle possibilità di sopravvivenza, è destinato a
crescere sempre più l’interesse verso le problematiche psicologiche di fronte alle quali
vengono a trovarsi questi pazienti, che potrebbero essere definiti quasi cronici per la lunga
durata delle patologie oncologiche e dei loro trattamenti, e i sopravvissuti che possono
confidare in una vita normale e soddisfacente.
1.2 Il cancro come “malattia famigliare”
Il cancro unisce alcune famiglie. Altre si disgregano, ma nessuna sfugge ai cambiamenti
che derivano dall’intrusione di questa malattia che minaccia l’esistenza (Weihs & Reiss,
1996).
In qualità di contesto naturale all’interno del quale si modellano l’identità e lo sviluppo di
ogni persona, la famiglia è la realtà che definisce l’identità e la vita del paziente prima
ancora che egli diventi tale circondandolo fin dal momento della diagnosi (Annunziata,
2002). Proprio in virtù dei forti legami esistenti tra i membri della famiglia e del
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funzionamento di questa come un ‘tutto dinamico’
3
, la malattia oncologica rappresenta un
evento stressante non solo per il paziente che ne è affetto ma per tutta la sua famiglia sul
cui sistema di relazioni il cancro può avere un impatto devastante (Ibidem). Nella maggior
parte dei casi, sembra che si crei una profonda rivalutazione delle priorità e si rafforzino i
legami, ma a volte la ristrutturazione dei ruoli e delle responsabilità imposta dalla malattia
può provocare delle difficoltà che assumono la forma di modelli relazionali disfunzionali
o, in casi estremi, psicopatologici (Annunziata, 2002). Infatti, la storia naturale del cancro
sancisce un cambiamento importante: la perdita dello stato di benessere. Ciò influenza
inevitabilmente la struttura, le relazioni, il ruolo e le funzioni di tutto il nucleo aprendo, in
quanto evento traumatico, una crisi familiare (Invernizzi, Brezzi & Comazzi, 1992) che
richiede alla famiglia importanti cambiamenti volti a mantenere e / o preservare
l’equilibrio e il funzionamento della stessa.
Il cancro può essere allora definito anche come “malattia familiare” (Biondi & Pancheri,
1992), capace di determinare profondi cambiamenti e un continuo sforzo adattativo
(Invernizzi & Brezzi, 1993; Blanchard, Albrecht & Ruckdeschel, 1997), inteso come
processo dinamico di modificazione dei compiti e delle relative strategie in funzione dello
stato clinico (Yeh, Lee & Chen, 2000).
Il cancro colpisce l’intero sistema famiglia e i membri di questo si trovano perciò a
condividere una stessa esperienza che causa un distress reciproco ed interdipendente
(Annunziata, 2002), il quale sembra derivare in particolare dalla percezione della malattia
come minaccia di separazioni e perdite (Weish & Reiss, 1996). Infatti, se da un lato le
reazioni dei familiari assumono un ruolo di primo piano nel facilitare o ostacolare il
processo di adattamento psicosociale del paziente (Spiegel, Bllom & Gottheil, 1983),
dall’altro, quest’ultimo, con le sue reazioni, influenza il livello di stress o l’adattabilità
degli altri membri della famiglia. Non va dimenticata, infine, l’influenza che anche i
trattamenti medici, come la chemioterapia e la radioterapia, esercitano sulla quotidianità
della famiglia aumentando ulteriormente il carico di compiti e responsabilità dovuto alle
cure e al supporto emotivo del paziente (Cassileth, Lusk, Strouse et al., 1985; Baider &
Kaplan, 1985).
3
La famiglia non è la somma dei suoi componenti, ma “un tutto dinamico in cui il comportamento di ciascuno dei membri è legato al
comportamento di tutti gli altri e ne dipende” (Marc & Picard, 1996).
14
1.2.1. La famiglia del bambino affetto da tumore
Una malattia potenzialmente mortale come il cancro ha un impatto massiccio sulla vita
quotidiana del paziente, la quale si dispiega, nel bambino, attraverso tre ambiti principali:
la scuola, il gruppo dei pari ma soprattutto la famiglia (Sourkes, 1995), spazio
predominante nella vita di tutti i bambini e unico mondo conosciuto dai più piccoli.
La lotta del bambino per resistere e integrare il trauma della malattia potenzialmente
mortale ha luogo entro questa struttura dotata di un’identità, una forza e una vulnerabilità
proprie. In circostanze ottimali, infatti, la famiglia assume un ruolo centrale nel preservare
l’integrità psicologica del piccolo paziente (Rait & Holland, 1986) rappresentando un
rifugio entro il quale il bambino può rifornirsi delle risorse psichiche necessarie a
difendersi dall’assalto della malattia. Tuttavia, lo stress della malattia può invadere la
famiglia, distruggendola oppure unendola a seconda di una molteplicità di variabili. A
questo proposito, probabilmente, l’esperienza della famiglia e il fatto di aver già affrontato
delle difficoltà in passato può in un certo senso predire la risposta del presente. Ecco
perché può essere fondamentale valutare alcune dimensioni da un punto di vista
socioculturale e psicologico quali lo stile di comunicazione efficace o inefficace, il
coinvolgimento emotivo buono o scarso, i ruoli rigidi o flessibili, la struttura complessiva
organizzata o caotica, la definizione del potere e del controllo e a chi sono delegati, la
considerazione del bambino in termini di individualità e competenza, la disponibilità o
meno della famiglia estesa (amici, parenti, comunità). Inoltre è buona norma valutare
anche i fattori che possono compromettere seriamente la capacità di adattamento della
famiglia quali eventuali disturbi psichiatrici, conflitti coniugali, dipendenze, abusi o già
esistenti problemi finanziari; fermo restando che non vanno dimenticati, per una
previsione dell’adattamento familiare, la natura e il procedere della malattia (Sourkes,
1995). Alle famiglie a più alto rischio di adattamento disfunzionale o psicopatologico
vengono normalmente rivolti interventi di tipo specialistico, mentre per tutte le altre sono
sufficienti interventi di sostegno o educativi.
4
Certo è che la presenza della malattia può provocare cambiamenti nei ruoli e nelle
relazioni familiari preesistenti. Per esempio, è piuttosto frequente l’intensificazione del
rapporto tra il bambino e i genitori (soprattutto la madre) e l’esclusione degli altri fratelli
4
Cfr. capitolo 3
15
sani. La concentrazione delle attenzioni sul bambino è comprensibile e necessaria, ma
quando questa diventa la norma può provocare l’emergere di conflitti: la diade marito-
moglie è distrutta e i fratelli, verso i quali solitamente il bambino malato prova sentimenti
ambivalenti, vengono trascurati. Anche se il bambino spesso si accorge e si preoccupa dei
problemi causati dalla malattia, la condizione di vulnerabilità e bisogno in cui si trova lo
porta a scotomizzare questi aspetti e, comunque, non è compito suo ristabilire l’equilibrio
della famiglia. In particolare, se il bambino ha sempre rappresentato il punto centrale della
famiglia, l’insorgere della malattia può portare a investire in maniera davvero drammatica
questo ruolo (Sourkes, 1995).
Altro problema frequente è quello della protezione: il bambino prova rabbia per il fatto
che i genitori non sono in grado di proteggerlo e questo riflette una sensazione di sicurezza
profondamente scossa, in quanto il bambino impara presto che i genitori non sono né
onnipotenti né imbattibili e che esistono forze minacciose che neppure loro possono
controllare; testimoni di questa agonia, i genitori si trovano a confrontarsi con la loro
impotenza. La mancanza di protezione viene rievocata ogni volta che il bambino affronta
una nuova crisi o è sottoposto a procedure dolorose e spesso il bambino tenta di
nascondere ai genitori l’intensità della sua paura e della sua tristezza. Anche i genitori, dal
canto loro, cercano di proteggere il bambino da ulteriori avversità, soprattutto
dall’assistere al loro dolore. In questo modo viene a crearsi un ciclo che isola
reciprocamente bambino e genitori proprio in un momento in cui, invece, l’apertura
potrebbe rappresentare un conforto (Ibidem).
Concludendo, la diagnosi di cancro nel bambino impone al sistema famiglia, di supportare
il piccolo malato, ma anche di imparare a fronteggiare le proprie difficoltà psicosociali
come singoli membri della famiglia (Carpenter & Levant, 1994; Kazak, 1994). Ecco
perché è fondamentale che l’assessment e l’intervento non siano rivolti unicamente ai
piccoli pazienti, ma vengano invece indirizzati anche ai genitori e ad eventuali fratelli,
nonché ad altri membri della famiglia direttamente coinvolti nella cura del bambino
malato.
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1.3 La psiconcologia pediatrica
Sebbene una probabilità media di sopravvivenza pari al 70% possa effettivamente essere
considerata molto buona da un punto di vista medico, essa resta comunque intollerabile se
si ragiona nei termini di una probabilità di morte di circa 1 su 4 malati. Il problema
psicologico che si pone in questo campo deriva dalla natura traumatica del tumore
infantile, essendo questo una malattia ad alto rischio di morte, e dagli aspetti psicologici
intrinseci ai molti eventi che accompagnano ogni lunga terapia dall’esito incerto e ogni
lunga ospedalizzazione, quali l’adattamento alle separazioni, il fronteggiamento del dolore
fisico, i danni alla scolarità, ai processi di adattamento e alle relazioni sociali ecc. (Axia,
Scrimin & Tremolada, 2004). Tutte queste complicazioni, compresi la consapevolezza
della morte certa nei casi terminali e il lutto, costituiscono ulteriori fonti di stress che
possono addirittura rappresentare fattori psichici aggravanti le condizioni mediche
generali (DSM-IV-TR, 2002).
È attorno a questa sofferenza psichica, imposta sia dal trauma della minaccia alla
sopravvivenza fisica che dal particolare iter terapeutico richiesto dalla patologia
oncologica, che ruota la psico-oncologia pediatrica, la quale si propone di capire quali
siano le conseguenze a breve e a lungo termine di tale sofferenza per trovare i modi, le
persone e le condizioni meglio in grado di alleviarla (Axia et al., 2004).
La psico-oncologia pediatrica, quindi, si differenzia sul piano clinico dalla maggior parte
degli interventi psicologici: essa tratta bambini e adolescenti molto malati e perciò
sofferenti, spesso traumatizzati, ma psicologicamente, nella maggior parte dei casi, sani
così come sono sane le loro famiglie. L’origine della sofferenza psichica, infatti, non è
intrapsichica, come avviene solitamente nei casi che si presentano in consultazione, ma è
legata semplicemente ad un evento esterno e incontrollabile. Molto prolungata nel tempo,
questa peculiare sofferenza, anche se non necessariamente, può avere esiti psicopatologici
ed è solo in questo caso che diventa necessario un intervento diretto e specialistico. In tutti
gli altri casi si ha che fare con piccoli pazienti psicologicamente sani e inseriti in famiglie
ben funzionanti per cui il lavoro psicologico deve consistere nell’aiutare queste persone a
ritrovare le loro risorse e a sostenerne l’impiego. Ciò impone alla psico-oncologia
pediatrica l’allontanamento dai principi di diagnosi e terapia normalmente impiegati in
psicologia clinica e l’adozione di modelli specialistici di conoscenza, comprensione e
intervento adatti specificatamente a questa popolazione di pazienti e ai loro familiari.
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1.3.1. La caring niche: il sistema naturale e il sistema esperto
Quando i bambini si ammalano di cancro o di altre malattie gravi, il loro sviluppo prende
necessariamente una strada diversa: essi vengono infatti trasferiti dalla loro nicchia
evolutiva originaria a una nicchia creata appositamente per poter sostenere la loro
sopravvivenza fortemente minacciata, la cosiddetta caring niche (Axia, Scrimin &
Tremolada, 2004). Questa, pur essendo influenzata dall’ecologia più vasta (risorse
economiche, politiche sanitarie, strutture ospedaliere, sistema scolastico, servizi sociali,
cultura di riferimento, sistema della ricerca sul cancro ecc.), è costituita da tutte le persone
responsabili in modo diretto e continuativo della salute fisica e psichica del bambino
malato. Se la nicchia evolutiva
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dei bambini sani coincide con il solo sistema naturale,
dato dalla famiglia e dalla sua rete sociale, la nicchia di cura di cui hanno bisogno i
bambini malati prevede la collaborazione del sistema naturale con un sistema esperto,
composto dai professionisti della salute. Quest’ultimo è attivato primariamente per
garantire la sopravvivenza fisica del bambino, ma anche per preservare il più possibile le
sue potenzialità e favorire il suo normale sviluppo mentale, affettivo e sociale (Axia et al.,
2004).
È evidente che la qualità di vita e il benessere psicofisico del bambino possono essere
garantiti solo attraverso un adattamento organico e flessibile di entrambi i sottosistemi alla
singolarità di ogni piccolo paziente nonché da una loro continua collaborazione e
comunicazione chiara ed efficace.
Infine, la continuità della vitalità e dello sviluppo in un bambino affetto da una malattia
potenzialmente mortale, può essere garantita facendo in modo che lo stress sia il meno
traumatico possibile, aiutando il bambino ad affrontare al meglio la situazione,
assicurando la conservazione di qualche forma positiva di vita anche nei momenti più
difficili e non lasciando che il bambino si senta solo, ma ponendolo sempre al centro di
una fitta rete di comunicazioni comprensibili (Ibidem). Sono questi gli obiettivi più
importanti della psico-oncologia pediatrica.
5
L’idea di nicchia proviene dalla biologia, ma viene impiegata anche in psicologia dello sviluppo per spiegare il reciproco adattamento
tra caratteristiche del bambino e caratteristiche del suoi ambiente di vita (Weisner, 2002). La nicchia evolutiva serve per garantire la
sopravvivenza e lo sviluppo negli individui immaturi della nostra specie per un periodo di tempo molto lungo, ma anche per permettere
loro un felice adattamento sociale e culturale (Axia et al., 2004)