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PARTE I. Calcio e media: ieri ed oggi
Breve storia del calcio in Italia
I.1.1. Prima della Seconda Guerra Mondiale
Il gioco del football si è rapidamente diffuso in tutto il mondo alla fine del secolo
diciannovesimo: furono gli inglesi a reinventarlo
1
. Anche in Inghilterra era stato vietato nei
secoli di minor libertà politica e sociale: ma quando il popolo inglese prese coscienza del
proprio peso economico, nessuno osò più proibirgli di divertirsi come gli garbava. Lo sport è
vecchio come il mondo, perché l’uomo ha sempre mimato la vita e la morte anche per gioco:
tuttavia, etimologicamente, sport è la riduzione monosillabica, e dunque tipica inglese, del
francese arcaico se desporter e dell’italiano diporto, che significa divertirsi, togliersi fuori,
svagarsi. Lo sport degli inglesi ha assunto via via finalità che lo nobilitavano sotto l’aspetto
culturale e sociale.
Attraverso la pratica sportiva si educava divertendo e si procedeva alla selezione psicofisica
dei quadri e dei soldati per la nazione allora egemone nel mondo. Proprio in Inghilterra, il
calcio veniva considerato il più volgare
2
dei giochi: ma anche il più affascinante poiché nel
football agonistico, più che negli altri giochi, si individuò presto un transfert dinamico di
indubitabile utilità sociale.
Gli incassi toccarono cifre anche ingenti e proprio il contributo regolare e costante dei
supporters consentì ai calciatori inglesi di dedicarsi al calcio come a una professione: questo
avveniva in Inghilterra nell’ultimo quarto del secolo diciannovesimo. Il calcio era considerato
alla stregua d’un fenomeno sociale non distinguibile dal progresso delle masse operaie e dalla
necessità di occupare il tempo libero. Il benessere dei britannici era tale – rispetto agli altri
paesi – che banche, uffici e fabbriche sospendevano il lavoro al mezzogiorno del sabato. Il
weekend o fine settimana era totalmente dedicato allo sport negli stadi o in aperta campagna:
infatti, in quegli anni di scarsa grazia, a giocare al calcio erano soltanto «i sudditi di Sua
Maestà britannica»
3
. L’operaio italiano percepiva meno d’una lira dopo aver lavorato
1
«Giochi fondati sui calci alla palla erano stati praticati in Cina (figuriamoci se no) e in molti altri paesi, non
esclusa l’Europa e in particolare l’Italia rinascimentale, che ne aveva delirato al punto da farselo proibire. Il
nostro gioco del calcio era vario e violento» (Gianni Brera, Storia critica del calcio italiano).
2
Anche gli sport si distinguevano socialmente in Gran Bretagna e il più plebeo era il calcio.
Il ragazzino “bene” incominciava a dilettarsi di cricket: e dopo questo, veniva il tennis e ancora il rugby, gioco
violento per gentleman leali. Il calcio, quello era un gioco per gente cafona (cit. Gianni Brera, Storia critica del
calcio italiano)
3
Cit. Gianni Brera, Storia critica del calcio italiano
8
quattordici ore al giorno
4
. La scherma e la ginnastica occupavano il maggiore spazio sui
giornali, anche quelli sportivi. La scherma era indispensabile a chi facesse vita mondana.
Il football lo giocavano in tutto il mondo i soldati, i marinai, gli impiegati più umili, gli
operai specializzati che gli inglesi si portavano dietro per attuare i loro commerci e onorare i
loro appalti industriali. Il Genoa 1893
5
fu il primo club calcistico fondato in Italia, ma non
sempre si ricorda che nacque come club della colonia inglese nella capitale ligure; e la parte
più distinta di quella colonia avrebbe voluto si praticasse unicamente il cricket, che garantiva
del suo ceto
6
.
Nel continente europeo, dunque, ancora negli anni d’inizio secolo lo sport era una pratica
esclusiva: e, mentre in Inghilterra il football era già nell’ultimo ventennio dell’Ottocento un
fenomeno popolare, in Europa restava una pratica in gran parte elitaria. La stessa esclusività
sociale accompagna poi l’affermazione in Europa di un altro sport inglese: il tennis (in Italia
arrivò grazie ad un’altra delle mode dell’Inghilterra vittoriana, le vacanze, che si diffusero nel
nostro paese negli anni Trenta
7
). Lo sport si afferma quindi anche come strumento capace di
distinguere e differenziare identità sociali. Giocare a football, a rugby o tennis, andare in
bicicletta o in automobile significa dimostrare la propria appartenenza a un determinato ceto;
la gente colta s’interessava allo sport per averlo fatto e anche per una sorta di sfida alla gran
parte di lei, che lo snobbava. A tifare agonismo erano soprattutto i semplici.
L’espansione dello sport e in particolare del calcio, che non fu comunque sempre pacifica e
lineare, tuttavia avvenne. In Italia, ad esempio, la Federazione Italiana del Football (FIF)
nasce il 15 marzo 1898 a Torino
8
, dove si decide anche di dar vita a un campionato nazionale,
che nel maggio dello stesso anno sarà vinto dal Genoa. Alla vigilia della prima guerra
mondiale il football, la pratica certamente più diffusa del modello sportivo britannico, si
giocava ovunque in Europa
9
; e la sua diffusione avrebbe potuto essere più ampia se lo spirito
4
Mentre negli opifici dell’Inghilterra industriale la settimana lavorativa si aggirava intorno alle 55 ore, proprio
grazie al ridotto orario del sabato, gli orari negli altri Paesi europei erano più gravosi. L’orario si prolungava
indefinitamente fino a raggiungere anche le 15-16 ore giornaliere.
5
Per la precisione Alfred Wahl ricorda nel suo libro Il calcio, una storia mondiale, che il Genoa Cricket and
Football Club venne fondato il 7 settembre del 1892.
6
«Il console subì le democratiche pressioni dei più modesti inglesi, impiegati delle ditte che in porto o
lavoravano alla realizzazione della linea ferroviaria da Ventimiglia a Roma», ricorda Gianni Brera in Storia
critica del calcio italiano.
7
«Dopo la prima guerra mondiale, il tempo libero divenne una realtà per crescenti strati sociali, i quali si
accostarono per la prima volta agli strumenti di una cultura popolare che si adeguava alla modernità del
progresso tecnologico, scoprendo ad esempio il cinema e la radio. La popolarizzazione della vacanza divenne
fenomeno esteso nell’Europa degli anni Trenta. L’Italia scoprì il turismo di massa attraverso l’introduzione delle
40 ore lavorative, l’istituzione del sabato fascista nel 1934 e l’organizzazione dei treni popolari che a tariffe
scontate trasportavano intere famiglie al mare o in montagna» (Stefano Pivato, L’era dello sport).
8
L’iniziativa fu di una società genovese (Genoa) e tre torinesi (F.C. Torinese, Internazionale, Società Ginnastica
Torinese).
9
Il football ebbe un’importante espansione, passando come società da 995 a 2920. A dare la definitiva conferma
della popolarità del football sono soprattutto le folle degli spettatori. In Francia assistono alle partite della
nazionale 20-30000 persone.
9
sportivo dell’Inghilterra vittoriana non fosse stato considerato in alcuni Paesi qualcosa di
estraneo alle singole culture nazionali. Ad ogni modo, nel 1904 l’olandese Hirschmann e il
francese Guérin fondano la FIFA (Fédération Intrenationale de Football Association): se
l’esordio di una competizione mondiale per nazionali inizialmente avviene solo nel quadro
delle Olimpiadi, nel 1930 a Montevideo si svolge il primo campionato del mondo
10
, cui
partecipano tredici squadre (solo quattro europee).
Lo sport è diventato ormai adulto e il calcio, nel nostro Paese, continua a spopolare anche
grazie all’evoluzione dei mezzi di trasporto, senza i quali sarebbe stato fatalmente confinato in
ambiti regionali. Nel 1913 il campionato della FIGC (ex FIF), prima limitato al Nord,
comincia a contare un girone Centro – Sud nel 1913; il primo campionato nazionale ha come
data invece il 1927 e nel 1930-31 nascerà la formula a girone unico che tuttora persiste.
Calcio e ciclismo (l’altro sport che ebbe un boom in questo periodo), però, tale era la loro
rilevanza, finirono con diventare apertamente professionistici. Così facendo, finivano per
essere rappresentati nelle gare olimpiche da sconosciuti dilettanti che non potevano suscitare
l’entusiasmo negli spettatori l’entusiasmo dei duelli tra Binda e Guerra o la passione
trascinante di Zamora e Mathhews
11
.
Nella integrazione delle masse nel regime, i mezzi di comunicazione di massa esercitarono
un ruolo primario. Anzi, per questo aspetto l’esperienza del fascismo italiano costituì una
modello di riferimento in Europa, elevando i moderni media (tra cui lo stesso sport) a
strumenti del consenso
12
.
Quanto le imprese sportive divenissero funzionali alla propaganda del regime, è
testimoniato anche dalla popolarità che assunse il fenomeno sportivo nella società italiana a
partire dagli anni Venti. Se ancora nei primi anni del Novecento lo sport era fenomeno
elitario, con il fascismo si avviò ad assumere caratteristiche di massa. A darcene la misura è
soprattutto il calcio. All’esordio della nazionale, avvenuto nel 1910 all’Arena di Miano,
avevano assistito poco più di 4000 spettatori, Erano ben 35000 nel 1927 allo stadio S. Siro per
la partita Italia – Cecoslovacchia. Quattro anni più tardi, nello stesso stadio, più di 50000
furono gli spettatori dell’incontro Italia – Austria. Anche il campionato di calcio si avviò, a
partire dagli anni Venti, ad assumere forme partecipative e spettacolari in precedenza
sconosciute. Nel 1928 la Juventus, già sotto la protezione della famiglia Agnelli, inaugurò la
10
La Coppa si chiama Rimet, in onore dell’allora presidente della FIFA cui spetta l’idea originaria.
11
Gli idoli dell’epoca, nel ciclismo e nel calcio. I campioni sportivi raggiunsero indici di popolarità che li
elevarono a stelle di prima grandezza, già sfruttati per campagne pubblicitarie come avviene ai giorni nostri. Il
fenomeno fu prettamente americano, inizialmente, per poi spostarsi anche in Europa.
12
«Il regine mussoliniano costituì il primo esempio di utilizzazione, da parte di uno Stato, dell’organizzazione
sportiva come strumento di propaganda. E il modello italiano avrebbe trovato imitatori non solo nel Terzo Reich
ma in gran parte dei regimi totalitari europei: dall’Ungheria di Horthy alla Francia di Vichy, dalla Spagna di
Franco al Portogallo di Salazar» (Stefano Pivato, L’era dello sport).
10
politica del calcio spettacolo ingaggiando l’asso argentino Orsi e garantendogli uno stipendio
mensile di 8000 lire, una Fiat e un premio forfetario di 100000 lire. Si trattava di cifre
considerevoli, in un’Italia che negli anni Trenta avrebbe vagheggiato uno stipendio di mille
lire al mese.
Tornando al rapporto tra calcio e regime, la seconda edizione dei campionati del Mondo si
svolse proprio in Italia nel 1934. Operazione a lungo e pazientemente preparata,
quell’occasione fu gestita dal regime con l’esplicito intento di mostrare all’opinione pubblica
internazionale la capacità organizzativa del fascismo
13
. Nuovi stadi furono esibiti alla stampa
internazionale come simboli della perfezione ingegneristica e architettonica del regime. La
radio, che trasmise in diretta in alcuni Paesi europei gli incontri più importanti, mostrò
l’elevato livello tecnico raggiunto dall’Italia fascista. Tuttavia sul piano propagandistico
l’effetto più importante fu quello conseguito sul campo dalla nazionale guidata da Vittorio
Pozzo. La vittoria nella finale contro la Cecoslovacchia consacrò l’Italia tra le massime
potenze del pallone. I giornali italiani parlarono di “epico trionfo dello sport fascista” (Il
Messaggero) e di “grande vittoria nel nome e per il prestigio del Duce” (La Gazzetta dello
Sport). Di avviso completamente diverso fu la stampa internazionale, che accusò la classe
arbitrale di compiacenti aiuti alla nazionale italiana
14
.
Un effetto ancora più ampio ebbe quindi la seconda vittoria della Coppa Rimet che i
giocatori di Pozzo conquistarono a Parigi nel 1938: l’Italia, patria del fascismo, otteneva quel
successo proprio nella città che aveva tenuto a battesimo gli ideali della Rivoluzione francese
e l’esperienza dei Fronti popolari, quella Parigi che costituiva il luogo simbolico
dell’antifascismo italiano. E la stampa di regime non perse l‘occasione per salutare in quella
vittoria la supremazia non solo fisica ma anche morale degli ideali del fascismo su quelli della
democrazia: la vittoria calcistica andava considerata «la vittoria dell’eccellenza atletica e
spirituale della gioventù fascista proprio nella capitale del Paese che ha idealità e metodi
antifascisti».
Anche Hitler aveva sottolineato, nel Main Kampf, l’idea di uno sport asservito alla causa
della grandezza nazionale
15
. Il risultato di maggior prestigio conseguito dal regime hitleriano
fu quello delle olimpiadi di Berlino del 1936; il vero trionfatore dei giochi berlinesi fu il
13
«I manifesti del campionato mostravano un Ercole che faceva il salito fascista con un pallone ai piedi. Il
Mondiale del 1934 a Roma fu per il Duce una grande operazione di propaganda, Mussolini assistette a tutte le
partite dal palco d’onore, il mento alzato verso le tribune gremite di camicie nere, e gli undici giocatori della
squadra italiana gli dedicarono le vittorie con la mano tesa» (Stefano Pivato, L’era dello sport).
14
Sport”, organo francese della Federazione Sportiva del lavoro, parlò esplicitamente di una vittoria della
brutalità e dello sciovinismo al solo fine di dimostrare al mondo “la più grande Italia fascista invincibile nello
sport come in tutti gli altri campi”. E, concludeva il giornale degli sportivi comunisti francesi, quella vittoria era
il frutto di accordi preliminari fra i dirigenti della FIFA e il regime.
15
Scrivendo che «milioni di corpi allenati nello sport, imbevuti di amor patrio e di spirito offensivo, avrebbero
potuto trasformarsi in un paio d’anni in un esercito».
11
Fuhrer, almeno sul piano degli effetti propagandistici che quell’appuntamento ebbe sulla
scena internazionale. Lo stesso leader nazista aveva sottolineato che occorreva trasformare
l’appuntamento in un’occasione per dimostrare al mondo ciò che la nuova Germania era
capace di fare: rimane tuttavia il clima di grave intolleranza in cui quei giochi si svolsero,
come dimostra l’episodio del grande sprinter nero Jesse Owens cui Hitler si rifiutò di stringere
la mano.
Pure nella Russia di Stalin, alle soglie della seconda guerra mondiale, fu varato un intenso
programma di educazione sportiva, destinato a trasformare lo sport in uno dei veicoli
principali dell’ideologia sovietica. Lo sport, a Mosca e dintorni, venne concepito come una
forma di socializzazione politica, al punto che alcuni studiosi non hanno esitato a considerare
l’atleta sovietico come il corrispettivo sportivo del lavoratore stacanovista; in questa
prospettiva, la conquista del record e del primato - nello sport non meno che nel lavoro -
sarebbe stato uno degli obiettivi della “costruzione del socialismo”.
I.1.2. Dopo la Seconda Guerra Mondiale
L’Italia era ormai talmente malata di calcio che il campionato, disputatosi regolarmente
nonostante la guerra, fu sospeso solo il 25 aprile del 1943
16
. E, soprattutto, lo stop durò di
fatto solo quattro mesi e mezzo, poiché le competizioni (seppur non “ufficiali”) ripresero
subito dopo lo sbarco alleato al sud, in Puglia
17
. Per capire a pieno l’importanza sociale
assunta ormai da questo sport nella penisola, basti pensare che la stessa Repubblica Sociale
continuava a disputare un campionato che desse una parvenza di normalità alla cittadinanza; e,
a riprova di questo, nonostante i danni di guerra fossero stimati nell’ordine di circa 3.200
miliardi di lire del tempo, 14 ottobre 1945 il campionato di calcio di serie A ricominciò
regolarmente. Il pallone, insieme al cinema, era il più grande veicolo di “normalizzazione” per
gli italiani: non è blasfemo affermare che tutto lo sport
18
aiutò l’Italia a risollevare la testa
dalle macerie del conflitto mondiale e a rinsaldare uno spirito unitario nazionale
19
.
Nel nostro Paese, del resto, come in altri paesi dell’Occidente, ci si stava avviando alla
trasformazione che portava verso una società di massa; la diffusione della pratica sportiva,
parallela all’espansione di altre forme di consumo (tv, cinema, radio, teatro) nasceva dal
16
Cit. Stefano Aperti, Società, mass media e tifoserie.
17
In Puglia si organizzò la Coppa di Puglia; nell’entusiasmo delle Liberazione sul suolo italico si diffusero poi
decine di tornei amichevoli.
18
Esemplare il caso dell’impresa di Gino Bartali nel Tour de France del 1948, quando fu espressamente
“incitato” dai poteri forti dello Stato a vincere una tappa di alta montagna nel giorno che seguì l’attentato a
Togliatti.
19
«Non c’è al mondo nazione che non pensi a questo sport come collante, aggregante, eccitante, ricostituente»
(Gian Paolo Ormezzano, Verso il calcio del Duemila in Alfred Wahl, Il calcio, una storia mondiale).
12
desiderio di possedere nuovi strumenti di divertimento assicurato, con il quale dimenticare la
presenza di certe contraddizioni sociali ed esistenziali
20
. Il rapporto tra mass media e sport,
spesso visto oggi solo in termini negativi, deve invece essere riconsiderato alla luce dei
vantaggi che la “cultura dello sport” ha saputo dare al Paese, diffondendosi anche negli strati
più profondi della società e contribuendo alla nascita di una vera e propria filosofia del corpo,
mai esistita prima.
Il modello vincente dello sport, negli anni più recenti, sembra invece essere costituito solo
dalla sua trasformazione in fenomeno che muove soprattutto denaro. Particolarmente
significativo di questa evoluzione è proprio il nostro Paese, in cui il consumo di sport
registrato nel secondo dopoguerra non ha probabilmente paragoni al mondo. In Italia, fra il
1950 e il 1960, le spese per lo spettacolo sportivo passarono da 5897 a 14298 milioni. In dieci
anni. gli spettatori delle partite calcistiche aumentarono del 30%, gli incassi raddoppiarono.
Significativa di questa evoluzione fu anche la progressione delle cifre legate al concorso
pronostici del calcio italiano: il Totocalcio
21
.
Gestito a partire dal 1948 dal CONI, esso registrò nel 1947 un incasso pari a 7.057.041.638
lire. Il decennio dopo, quei ricavi risultarono quintuplicati e nel 1975 un’inchiesta stimò che il
Totocalcio, tuttavia in forte calo negli ultimi anni dopo l’avvento delle scommesse legalizzate
e la nascita di nuovi concorsi dall’ampio montepremi come il SuperEnalotto, coinvolgesse più
del 35% degli italiani
22
. Uno degli aspetti degenerativi di questa evoluzione è certamente
offerto dalla sempre più stretta interconnessione fra il mondo dello sport, quello della politica
e quello degli affari. Lo stretto legame tra questi ambiti si è rivelato in tutta la sua ampiezza in
occasione dei campionati del mondi di calcio del 1990: i politici italiani hanno fatto a gara
affinché il flusso di denaro pubblico, destinato alla costruzione di nuovi stadi e di nuovi
impianti, confluisse verso i loro collegi elettorali
23
.
L’inizio del “calcio show”, con tutto il flusso di denaro ad esso connesso, va tuttavia
rintracciato nel 1965, quando l’entrata in funzione dei primi satelliti sincroni aveva permesso
le riprese in diretta da un continente all’altro, rivoluzionando il sistema televisivo e
amplificando lo spettacolo sportivo. Da lì le battaglie per l’audience (che il calcio assicura
come nessun altro spettacolo, i dati lo dimostrano) e per i diritti tv
24
, che sono argomento di
20
Cit. Giovanni Bechelloni in Segnali dello sport.
21
Nato con il nome di SISAL nel 1946, dall’idea orginale del giornalista triestino Massimo Della Pergola
22
Dati raccolti in Storia sociale del calcio in Italia (Papa e Panico).
23
Le centinaia di miliardi che il governo italiano ha stanziato con apposita legge per l’allestimento delle strutture,
hanno certamente costituito uno stimolo per rinnovare obsoleti impianti sportivi ma anche un’occasione per
speculare, spesso illecitamente, sulla erogazione del denaro pubblico. La previsione per la costruzione degli
impianti, valutata inizialmente in 570 miliardi, è lievitata dell’93,8%, salendo a 1248 miliardi.
24
In Italia, il regime di concorrenza in questo settore inizia quando nel 1981 Berlusconi acquista per Fininvest i
diritti del Mundialito. Negli anni Novanta sarà la volta delle televisioni a pagamento che, come vedremo nei
capitoli successivi, rivoluzioneranno il mondo del calcio.
13
discussione ancora attuale. La RAI (Radio Televisione Italiana) aveva comunque già iniziato
le trasmissioni nel 1954 e il calcio assunse subito un ruolo cardine, tant’è che nel giorno
dell’inizio delle trasmissioni ufficiali, il 3 gennaio di quell’anno, fu dedicata la metà della
fascia pomeridiana al “Pomeriggio sportivo”, una rubrica domenicale di avvenimenti
agonistici, alla quale si aggiungeva in chiusura di serata la “Domenica sportiva”.
Attraverso il tubo catodico e le pagine dei giornali sportivi, i quali prosperano da noi come
in nessun’altra parte del Globo, l’Italia intera nel Dopoguerra ha pianto e gioito, soprattutto
per le imprese della Nazionale, che ad ogni grande evento (Mondiale o Europeo) catalizza le
attenzioni di tutto un Paese in fermento. E, se l’avventura disgraziata del 1966 in Inghilterra
provocò un’ondata di feroci polemiche, che scatenarono quanti vedevano in malo modo una
certa esasperazione del calcio di allora
25
, quattro anni dopo fu proprio attraverso la televisione
che un’intera nazione, prima soffrì davanti allo schermo e poi scese in piazza
26
,
nell’indimenticabile notte dell’Azteca (Italia – Germania 4-3, nella semifinale del mondiale
messicano vinto poi dal Brasile) che viene ricordata da tutti come il primo vero evento
mediatico sportivo nazionale
27
. Ma ci si ricorda bene anche come furono accolti gli azzurri al
ritorno a Fiumicino: con lanci di pomodori. La vittoria con i tedeschi era passata da neanche
una settimana ma la sconfitta in finale con il Brasile e il famoso “caso Rivera
28
” avevano
velocemente cambiato l’umore dei tifosi italiani.
Contraddizioni tipiche delle abitudini di una nazione, abituata a criticare tutto quanto sia
criticabile per poi salire sul carro dei vincitori ed esaltare i nuovi “eroi”, prima tanto bistrattati.
E’ successo in modo eclatante nell’estate del 1982 quando sono stati accoliti da trionfatori, al
rientro in Italia, quegli azzurri neo campioni del Mondo che solo qualche settimana prima
erano (anche sotto l’impulso di una stampa anti Bearzot
29
) alla gogna pubblica, per gli scarsi
risultati e per il fresco scandalo del Totonero che aveva colpito l’opinione pubblica.
E in tempi più recenti, giusto la scorsa estate, abbiamo potuto capire nuovamente quali
sentimenti altamente contraddittori sia capace di provocare il pallone nella nostra penisola.
25
Se Gianni Brera si concentrò con le scelte tecniche di Fabbri, reo a suo dire di essersi affidato a giocatori
estrosi ma dalla scarsa tempra agonistica, ci fu chi si scagliò contro i vizi del calcio moderno e auspicò un ritorno
all’antico. «L’ozio e il denaro sono all’origine dei vizi - scrisse un giornalista napoletano - sin quando non si
porrà un argine al fiume di benessere nel quale i giocatori italiani annegano, episodi del tipo di Middlesbrough
(l’Italia sconfitta per 1-0 dalla Corea, piena di dilettanti) si ripeteranno e nessuno porrà fare niente per evitarli».
26
La folle corsa in piazza non mancò di suscitare voci di sdegno da più parti per i disordini provocati. L’Italia,
forse, non era ancora pronta per quelle che Indro Montanelli definì “brutalità”.
27
Quella partita, cui assisterono 28 milioni di spettatori, fu giocata quando nel nostro Paese, a causa del fuso
orario, era notte fonda; anche se quelli furono i primi campionati del Mondo in cui si giocò ad orari improbabili
(nelle ore più calde, ad esempio a mezzogiorno) per favorire la messa in onda nel Continente europeo.
28
Il centrocampista del Milan, stella del Milan e Pallone d’Oro solo un anno prima, dopo aver deciso con un suo
gol la semifinale contro la Germania, venne poi impiegato per soli sei minuti dal C.T. Valcareggi in finale.
29
L’allenatore di quell’Italia vincente, che fu sulla panchina della nazionale anche nel mondiale precedente
(quello del 1978) e in quello successivo (nel 1986).
14
Dallo scandalo di Calciopoli
30
, scoppiato a maggio, che portò una ventata di delusione e di
sconforto in tutti gli appassionati, si è passati due mesi dopo all’incredibile esplosione di gioia
popolare per la vittoria della Nazionale di Lippi ai Campionati Mondiali di Germania 2006.
Un successo contro ogni pronostico, che ha fatto riemergere una passione mai sopita. Forse,
addirittura, più forte di prima.
Nonostante tutto: macchiato dagli scandali delle scommesse, dalla violenza negli stadi
sempre più crescente ed emersa negli anni Ottanta in tutti i campi di serie A
31
, dal doping,
dagli errori arbitrali più o meno (soprattutto alla luce delle ultime rivelazioni) in buona fede, il
calcio ancora resiste. Forse perché, come gridato con un filo di voce dal telecronista Fabio
Caressa dopo l’ultimo rigore che ha regalato all’Italia il suo quarto titolo mondiale: «Da noi il
calcio non potrà finire mai, non morirà». Anche se questo inconfutabile dato non ci impedirà
di analizzarne più approfonditamente altri, ben meno piacevoli e qui solo accennati, nelle
prossime pagine. Per capire dove si sia sbagliato e cercare di rendere più bello (e pulito) il
giocattolo preferito di una nazione intera.
30
L’indagine che ha portato allo scoperto le occulte manovre, operate da alcuni dirigenti italiani, per falsare lo
svolgimento del campionato italiano di calcio. Se ne riparlerà approfonditamente più avanti.
31
Il fenomeno ha la sua matrice in Inghilterra, con i cosiddetti hooligans, tristemente noti anche alle nostre
cronache per la strage dello stadio Heysel, in cui morirono 39 tifosi italiani e inglesi durante la finale di Coppa
dei Campioni del 1985 tra Juventus e Liverpool.
15
Lo Sport sulla carta stampata
I.2.1. L’anomalia italiana: tre quotidiani sportivi
Secondo tutti i principali commentatori, italiani e non, il principale indizio dell’elevato
consumo di sport in Italia è la proliferazione della stampa specializzata: l’Italia vanta il
primato, unico al mondo, di tre testate sportive (ed erano quattro, prima della fusione tra
“Corriere dello Sport” e “Stadio”) quotidiane di carattere nazionale. Quella che per molti è
un’anomalia, viene invece letta secondo un’altra luce da Gianni Brera, che nel 1998 affermò:
«Qual è il problema se impazzano i giornali sportivi? Il calcio costituisce oggi, con la musica
leggera, il solo sfogo dinamico e culturale della nostra popolazione. Parlare di evoluzione
calcistica, in Italia, significa pure interessarsi ai progressi o ai regressi del costume, allo status
economico e culturale del Paese, alle condizioni sociali nostre ed altrui negli anni in cui
l’Italia pareva fatta, e da fare erano semmai ancora gli italiani
32
». Ma quando nacque questo
boom tipicamente italiano?
Nel 1855, con la pubblicazione presso la tipografia Eredi Botta del “Giornale della società
nazionale delle corse”, iniziarono a svilupparsi le prime forme di stampa sportiva; per trovare
una pubblicazione di ampio respiro bisognò tuttavia attendere il 1881 con la divulgazione da
parte dell’editore Gorlini di Milano di “Sport Illustrato”, il quale trattava principalmente dello
sport della bicicletta, a quei tempi il più popolare in Italia, tant’è che la “Gazzetta dello Sport”
nacque il 3 aprile 1986 proprio dalla fusione tra due pubblicazioni chiamate “Il Ciclista” e “La
Tripletta”
33
. Nella prima pagina del numero di esordio veniva annunciata una gara ciclistica, la
Milano – Monza – Lecco - Erba, organizzata dal giornale: fu l’inizio di una vena
organizzativa per questa testata: nel 1909 diede vita al primo Giro d’Italia e tuttora continua
con eccellenti risultati ad allestire eventi sportivi che hanno anche, aspetto non secondario, un
forte connubio con il marketing. Infatti la RCS Sport
34
, attraverso l’organizzazione di
importanti manifestazioni, ricava vantaggi sul piano economico e consente al giornale di
impreziosire la propria immagine agli occhi del lettore.
32
Da Storia critica del calcio in Italia
33
Entrambe sorte nel 1892.
34
Società per azioni, staccata dal giornale, che si occupa propriamente dell’organizzazione di eventi. Il ciclismo
(oltre al già citato “Giro d’Italia”, ricordiamo due grandi classiche come la “Milano – Sanremo” e “Il Giro di
Lombardia”) recita ancora la parte del leone, ma non mancano sport giovani come lo sci (lo “Slalom del
Centenario”, dalla formula innovativa, è ora scomparso ma ebbe un eccellente successo di pubblico ai tempi di
Alberto Tomba) e il beach volley.