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Dopo una breve disamina degli eventi che hanno determinato un certo
sviluppo economico-territoriale del Paese, si passa ad analizzare i rapporti di
domanda di trasporto soddisfatta tra le varie regioni nel triennio 89/91 (onde avere
un’idea delle loro modificazioni nel breve periodo), soffermandosi in particolare
sull’ultimo anno. L’obbiettivo è quello di estrapolare in un secondo momento, da
queste relazioni commerciali intercorrenti internamente alle regioni e tra le stesse,
le quantità trasportate modo per modo, in maniera tale da conferire ai dati
successivi un significato che sarebbe molto più difficile cogliere senza un’analisi
d’insieme.
Si procede poi, dopo aver suggerito una interpretazione della domanda del
trasporto, a ripartire la stessa tra le varie modalità, in particolare tra
l’autotrasporto e il trasporto marittimo, fornendo inoltre le quantità movimentate
relativamente al 1991.
Solo a questo punto si entra nel vivo dell’argomento, dando le varie
definizioni del cabotaggio, individuando gli elementi che lo dovrebbero far
preferire ad altri modi per determinate categorie di merci, ed esaminando una
sintesi statistica dei movimenti del 91 che saranno in seguito confrontati con i dati
del 92 e del 93, ultimo anno di cui purtroppo si dispongono i dati. In questa sede,
si parte dai movimenti delle navi nei porti, scindendo poi i flussi da essi generati
tra interni alle regioni ed interregionali, tra trasporti petroliferi e non, e
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procedendo poi ad un’ulteriore scissione di questi ultimi nei capitoli merceologici
che li compongono. Il tutto nel tentativo di dare una risposta sufficientemente
esauriente alle tipologie dei traffici di cabotaggio ed alle distanze che questi
coprono.
Si prosegue andando a considerare l’offerta ed i collegamenti tra il
cabotaggio di merci varie ed altre modalità di trasporto, effettuati nell’ambito dei
trasporti intermodali intesi come possibilità di incrementare o sostenere traffici
che altrimenti facilmente rischierebbero di prendere altre vie.
Nell’ultimo paragrafo, relativo alle prospettive di sviluppo , dopo un breve
accenno ai noti problemi che affliggono nei nostri porti le navi cabotiere, ci si
occupa più approfonditamente dei problemi normativi che sorgono in ambito
comunitario e degli accordi conclusi con i paesi della fascia sud del Mediterraneo.
È proprio in questi ambiti, infatti, che si giocano gli incrementi o i decrementi
dello sviluppo futuro del cabotaggio, dal momento che attualmente le sue
opportunità nel solo ambito nazionale sono estremamente limitate e condizionate
da ostacoli di vecchia data e difficili da superare.
7
I. LA GEOGRAFIA DEL TRASPORTO MERCI
IN ITALIA.
1. Quadro economico-territoriale del Paese.
Per poter analizzare nel dettaglio la situazione attuale del traffico di
cabotaggio in Italia, occorre soffermarsi, sia pur brevemente, su alcuni dei fattori
che l’hanno determinata, ovvero:
ξ le scelte di politica economica degli ultimi decenni (va evidenziato, in
proposito, l’orientamento del nostro mercato alle esportazioni, il quale, se da una
parte ha contribuito all’integrazione a livello comunitario ed internazionale della
politica economica italiana, dall’altra ha condannato il paese a scontare a livello
produttivo le fluttuazioni cicliche dei mercati esteri);
ξ la situazione geomorfologica, che a rigor di logica avrebbe dovuto
influenzare diversamente le scelte suddette, ma spesso, o per ragioni di parte, o
per una quanto mai miope interpretazione dell’intero sistema dei trasporti, ha
portato ad uno sviluppo dei vari modi di trasporto secondo un criterio di reciproca
concorrenzialità, fino a travalicare, talora, i limiti tecnici e merceologici propri di
ciascuno di essi;
8
ξ la distribuzione della popolazione.
L’Italia ha una economia essenzialmente fondata sull’industria, ponendosi nel
novero dei Paesi industrialmente più sviluppati del mondo. È, questo, il risultato
di un processo molto rapido: prima della II guerra mondiale l’Italia era infatti
eminentemente agricola, benché non mancassero le industrie di tipo anche
moderno, dislocate in alcune aree del Nord ed innestate sull’economia
capitalistica che, avviata nell’ottocento, aveva privilegiato il settore tessile. Ma gli
sviluppi dell’industria italiana, che aveva conosciuto i suoi primi slanci nell’era
giolittiana, quando aveva preso avvio anche l’industria siderurgica e poi quella
meccanica, non potevano essere consistenti e sicuri in un paese come l’Italia,
povero di materie prime e per di più con un mercato molto ristretto. La salita al
potere del fascismo orientò l’economia verso forme chiuse, artificiose, di
sostegno. La grande industria fu protetta con una politica doganale nel quadro di
un regime autarchico, che cercò di reggersi puntando sulla ricchezza delle braccia
e sull’espansione massima dell’agricoltura; tuttavia tranne l’area padana, dove
effettivamente l’agricoltura aveva caratteri capitalistici ed un notevole dinamismo
imprenditoriale, il rimanente mondo rurale era in genere poco produttivo e
fortemente arcaico (latifondo e microfondo nel Sud, mezzadria nell’Italia centrale,
piccola proprietà nell’area circumpadana). Comunque col dopoguerra l’Italia attuò
un radicale cambiamento di politica economica: scelse l’Europa, entrando nel
9
1948 a far parte dell’OECE, l’odierno OCSE, l’organizzazione internazionale
promossa dagli Stati Uniti per aiutare la ricostruzione economica dei Paesi
europei mediante aiuti economici (il famoso piano Marshall).
Nella progressiva apertura dell’economia italiana agli scambi con l’estero una
tappa decisiva fu, nel 1951, l’adesione alla CECA, base e premessa per la futura
Comunità Economica Europea, di cui l’Italia fu uno dei soci fondatori. Col 1951
nasce in pratica la moderna economia italiana, basata essenzialmente
sull’industria. Questa economia industriale sfruttava l’unica grande risorsa a
disposizione dell’Italia: l’abbondanza di manodopera. Era un taglio reciso con
l’Italia rurale del passato, il che, se da un lato costituiva un indubbio salto di
qualità implicante profonde ripercussioni sociali oltre che economiche, dall’altro
poneva le premesse di quello sviluppo contraddittorio, che avrebbe finito col
portare il Paese all’odierna situazione, con alcuni settori industrialmente ben
sviluppati, altri del tutto carenti e con una agricoltura rimasta povera ed
abbandonata a se stessa. Si vede nella tabella n.1 nella prossima pagina come si
distribuisce la popolazione attiva tra i tre settori (agricoltura, industria e terziario)
all’interno delle varie regioni e l’indice di coloro che sono in cerca di
occupazione.
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Tabella n.1 - Italia: forza lavoro per regione per l’anno 1991 (migliaia).
regione agricoltura industria terziario totale in cerca di
occupazione
Piemonte 121 745 939 1.805 134
Valle d’Aosta 5 13 35 53 2
Lombardia 120 1.671 2.069 3.860 164
Trentino-Alto Adige 41 95 253 389 14
Veneto 135 759 957 1.851 88
Friuli-Venezia
Giulia
26 149 301 476 28
Liguria 28 147 457 632 62
Emilia-Romagna 153 612 978 1.744 91
Nord 627 4.194 5.989 10.810 583
Toscana 76 480 874 1.430 127
Umbria 28 105 185 318 35
Marche 58 216 322 596 42
Lazio 91 399 1.484 1.974 256
Centro 250 1.200 2.867 4.318 460
Abruzzo 55 141 277 473 57
Molise 23 29 65 117 21
Campania 211 423 1.127 1.761 481
Puglia 208 315 756 1.279 246
Basilicata 39 50 104 193 52
Calabria 118 127 373 618 187
Sicilia 208 309 961 1.478 440
Sardegna 78 129 338 545 125
Mezzogiorno 944 1.519 4.001 6.464 1.609
Italia (1991) 1.814 6.909 13.365 21.592 2.652
Fonte: ISTAT. Annuario statistico 1992.
Attualmente l’agricoltura partecipa per meno del 5% alla formazione del
prodotto nazionale, mentre l’industria concorre con circa il 39%, e per oltre il
56% incidono le attività terziarie. Le industrie che hanno avuto una funzione di
11
guida nella fase di sviluppo sono state quella chimica (in particolare la
petrolchimica) e quella meccanica, specie dei mezzi di trasporto. Entrambe sono
industrie che sfruttano le materie prime di cui l’Italia è pressoché mancante: il
petrolio, il ferro ed il carbone. Perciò l’industria è cresciuta dipendendo dalle
importazioni; al tempo stesso la sua organizzazione industriale ha dovuto
impegnarsi per il commercio estero, data la limitatezza di quello interno. Da ciò
derivano i caratteri dell’economia italiana, che si è internazionalizzata
specializzandosi nell’industria di trasformazione, con tutte le debolezze di un
simile sistema, che può avere fasi miracolistiche e fasi depressionarie di estrema
gravità. Il periodo di più forte espansione, che si definisce del “miracolo”, è
durato dal 1951 al 1963 ed ha registrato tassi di crescita annua della produzione
del 6%. In tale periodo il sistema economico italiano ha posto le proprie strutture
fondamentali. Oltre alla grande industria privata hanno assunto un ruolo di
preminente rilievo le industrie di Stato, il quale partecipa direttamente alla
gestione economica con la maggiore holding italiana, l’IRI, un ente creato nel
1933, cui si sono aggiunti nel 1953 l’ENI, preposto al settore degli idrocarburi e
successivamente altre imprese a partecipazione pubblica, presenti in vari settori
produttivi; infine nel 1962 vi è stata la nazionalizzazione del settore dell’energia
elettrica (ENEL).
Lo sviluppo industriale ha determinato profonde trasformazioni nella vita e
12
nella società italiane (tra l’altro è stato pagato con il grande flusso migratorio dal
Sud) e se è una norma costante che i rapidi mutamenti dei sistemi economici
creino squilibri e contrasti, questi si sono però presentati più marcati in Italia che
in altri Paesi. Appare infatti chiaro che il pur rilevantissimo sviluppo
dell’economia italiana si è realizzato sulla base di fattori in gran parte
occasionali, per spinte in gran parte sollecitate da capitale del Nord, senza che lo
Stato intervenisse opportunamente con un’adeguata programmazione volta a
sostenere con una crescita equilibrata ed a risolvere i problemi di una società
soggetta a radicali trasformazioni. Lungi dall’avere in qualche modo composto le
preesistenti fratture del sistema produttivo, lo sviluppo economico ha presentato
un aspetto sempre più marcatamente trialistico, che supera ed aggrava la
precedente contrapposizione tra le due Italie del Nord progredito e del Sud afflitto
da gravi ritardi economici e sociali. Si distingue così tra: “Nord-Ovest (Piemonte,
Valle d’Aosta, Lombardia e Liguria), meglio noto come «triangolo industriale»,
con il 27% della popolazione italiana. Centro-Nord-Est (Lazio, Marche, Umbria e
Toscana, Emilia-Romagna, Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia),
ossia due gruppi di regioni con rispettivamente il 19% ed il 18,5% della
popolazione nazionale; Mezzogiorno (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania,
Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna), col 35,7% della popolazione”
1
.
1
SORICILLO M., 1984; op.cit., pp. 28-33.
13
Gli squilibri tra queste grandi aree, ma anche quelli all’interno delle stesse
regioni più avanzate, costituiscono uno dei problemi più gravi dell’Italia odierna.
Nella tabella n.2 si può vedere il PIL ai prezzi di mercato, regione per regione nel
1990.
Tabella n.2 - Italia: PIL ai prezzi di mercato (1990) nelle varie regioni.
regione totale (miliardi
di lire)
% del
totale naz.
Per ab. (Migliaia di
lire)
Piemonte 117.236,4 8,9 26.908,2
Valle d’Aosta 3.243,6 0,2 28.058,8
Lombardia 261.887,8 20,0 29.340,9
Trentino-Alto Adige 24.436,0 1,9 27.487,1
Veneto 114.198,7 8,7 26.003,9
Friuli-Venezia Giulia 32.338,8 2,5 26.904,2
Liguria 44.178,1 3,4 25.637,2
Emilia-Romagna 110.104,8 8,4 28.050,7
Toscana 86.095,9 6,6 24.173,4
Umbria 17.290,9 1,3 21.048,0
Marche 34.124,2 2,6 23.809,8
Lazio 133.734,6 10,2 25.812,0
Abruzzo 25.329,1 1,9 19.953,6
Molise 5.503,5 0,4 16.384,3
Campania 92.497,2 7,0 15.862,2
Puglia 67.637,0 5,2 16.596,4
Basilicata 8.523,5 0,6 13.663,8
Calabria 27.214,1 2,1 12.639,5
Sicilia 78.591,9 6,0 15.158,1
Sardegna 27.899,9 2,1 16.797,0
ITALIA 1.312.066,0 100,0 22.754,7
NORD-CENTRO 978.869,8 74,6 26.798,8
MEZZOGIORNO 333.196,2 25,4 15.765,4
Fonte: ISTAT. Anno 1994.
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In particolare si è rivelata un pressoché assoluto fallimento la politica mirante
ad industrializzare rapidamente il Mezzogiorno (si ricordino tra le maggiori
iniziative, il grande centro siderurgico di Taranto, quello meccanico di
Pomigliano d’Arco, quello petrolchimico di Brindisi, ecc., tutti con impianti
spesso rimasti vere e proprie “cattedrali nel deserto”, per non parlare del mai
realizzato centro siderurgico di Gioia Tauro), il cui divario economico ed ancor
più culturale col resto d’Italia non sono affatto diminuiti in maniera sostanziale.
Nonostante i colossali interventi della Cassa per il Mezzogiorno, il reddito medio
procapite degli abitanti delle regioni meridionali è circa la metà di quello
nazionale; da sola la Lombardia fornisce oltre un quinto della produzione italiana,
poco meno di quella complessiva del Mezzogiorno.
Va inoltre tenuto conto dello spopolamento rurale e del conseguente processo
di accelerata urbanizzazione, che hanno messo in evidenza sia l’insufficiente
sistema di infrastrutture nell’edilizia residenziale, nei trasporti, nei servizi sanitari,
sia la mancanza di misure per un efficace tutela ambientale. Sono infatti in larga
misura mancati gli ammodernamenti e le modificazioni strutturali di quel settore
terziario - trasporti, commercio, turismo, servizi vari - che, in conformità agli
schemi di un’economia matura, anche in Italia si è straordinariamente dilatato,
tanto che oggi esso assorbe, considerando anche gli addetti alla pubblica
amministrazione, circa il 56% della popolazione attiva (contro il poco più
15
dell’11% degli addetti all’agricoltura ed il circa 33% degli occupati nell’industria;
ma per il Mezzogiorno i relativi valori sono di quasi il 21% e di poco più del
25%); in particolare il settore commerciale appare minato dall’eccessiva
frantumazione e dall’arcaica, quindi poco redditizia, organizzazione dell’apparato
distributivo.
Comunque già con il 1963 il “miracolo economico” era finito; in quell’anno
si ebbe infatti un brusco rallentamento produttivo, seguito da fasi alterne di
espansione e di ristagno, mentre si cominciava a fare i conti con l’inflazione
“strisciante”. Ma la crisi vera e propria esplode nel 1973 per l’impennata
gigantesca del prezzo del petrolio, impennata che segna per sempre la fine
dell’energia a basso costo; l’Italia che dipende dall’estero per circa i 3/4 delle
proprie necessità energetiche, è colta dalla crisi internazionale senza aver risolto
le proprie contraddizioni né aver conseguito la piena integrazione nell’area dei
Paesi ricchi, e ne risente in modo particolare. La recessione assume ormai
dimensioni mondiali: tutti i Paesi altamente industrializzati provvedono
concretamente a salvaguardare le proprie economie, assumendo spesso
atteggiamenti più o meno protezionistici; se sul piano occupazionale la situazione
rimane pressoché ovunque drammatica (si contano 10 milioni di disoccupati nella
sola CEE alla fine del 1981), tuttavia l’inflazione riesce in generale a venire
contenuta entro valori accettabili. Non così in Italia, dove gli anni Ottanta nascono
16
all’insegna del vertiginoso aumento dei prezzi e quindi della permanenza di
un’inflazione superiore al 20%, mentre la stretta creditizia operata dal governo è
tale da portare i tassi ufficiali di sconto ed i tassi di interesse a livelli storicamente
mai raggiunti nel Paese. La produzione ristagna, tanto che l’economia entra nella
fase della cosiddetta “crescita zero”; la disoccupazione supera l’8% della forza
lavoro, con punte di oltre il 12% nel Mezzogiorno, e non sembra facilmente
riassorbibile. Nella tabella n.3 si vede schematicamente quello che è stato
l’evolversi del reddito medio nazionale pro capite nel corso degli anni rispetto ad
altri paesi industrializzati.
Tabella n.3 - Italia: reddito nazionale pro capite confrontato co quello di alcuni
Paesi (in dollari USA).
1958 1960 1965 1970 1979 1984 1989
Italia 478 644 884 1587 5133 6430 15150
Belgio 936 1126 1428 2413 10272 8630 16390
Francia 1003 1202 1448 2606 9562 9810 17830
Rep. Fed. di Germania 838 1188 1455 2711 11047 11160 20750
Regno Unito 1014 1276 1467 1986 6325 8590 14570
Paesi Bassi 695 890 1274 2211 9568 9540 16010
Svezia 1342 1692 2248 3730 11416 11880 21710
Spagna 299 317 594 884 4796 4450 9150
USA 2115 2559 2910 4294 9482 15540 21100
Giappone 284 421 694 1658 7421 10650 23730
Fonte: ISTAT. Anno 1990.
Diventano ormai dominanti i fattori di fragilità del sistema economico
italiano, che erano rimasti in ombra negli anni della crescita facile. In particolare
17
la mancata ristrutturazione industriale, la pressoché nulla programmazione
generale (mentre la spesa pubblica si dilata oltre misura, costituendo un peso non
più sopportabile per il Paese e non lasciando spazio ai necessari investimenti),
unitamente all’elevato costo del lavoro ed al non meno altissimo costo del denaro,
sono tutti elementi che concorrono a rendere sempre meno competitivi i nostri
prodotti sui mercati mondiali. Le esportazioni subiscono così un progressivo
indebolimento, mentre si accrescono enormemente i costi delle importazioni (in
particolare quelle relative al petrolio) anche a causa dell’enorme deprezzamento
della lira nei confronti del dollaro: nel 1980 la bilancia commerciale registra un
deficit di oltre 18600 miliardi di lire contro i 4600 miliardi dell’anno precedente.
L’andamento discendente della produzione industriale è ormai un dato con cui
bisogna fare i conti. Sono gravemente malati soprattutto i “giganti” dell’industria,
sia privata sia soprattutto pubblica: l’IRI, l’ENI, l’EFIM (Ente Partecipazioni e
Finanziamento Industria Manifatturiera), che tanto peso hanno nel complesso
dell’economia italiana e la cui situazione è sempre più precaria, sia per la vera e
propria inefficienza gestionale, largamente basata su principi assistenziali
piuttosto che produttivi, sia perché nelle aziende statali figurano settori come il
siderurgico, il cantieristico, il chimico, ecc., per i quali la crisi si presenta diffusa
in quasi tutti i Paesi industrializzati. Tra le misure per un rilancio dell’economia
italiana figurano pertanto proprio le privatizzazioni delle aziende pubbliche.
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La recessione però ha colpito duramente anche molte delle medie e piccole
imprese produttrici di articoli di tradizionale esportazione, quali i generi di
abbigliamento, le calzature, le pelletterie, ecc.; l’“economia sommersa”, in parte
legata a questi tipi di produzione, pur continuando ad essere un elemento di
sostegno per il resto dell’economia ed una valvola di sfogo per la disoccupazione
e la sottoccupazione mediante l’ampio ricorso al “lavoro nero”, non è certamente
in grado di risolvere i problemi di fondo dell’industria italiana. Il recupero della
produttività e dell’efficienza tecnologica può infatti passare solo attraverso il
rilancio della media e grande azienda, che resta la struttura portante di ogni Paese
economicamente avanzato. La crisi economica mondiale ha naturalmente toccato
in modo pesante anche l’Italia, tanto che nel triennio 1981-83 il reddito nazionale
diminuì (-1,6%) e soltanto nel secondo semestre del 1983 (con la caduta del
prezzo del petrolio) si è avviata una ripresa per altro lenta e moderata. Il
fenomeno di terziarizzazione si è andato imponendo. Gli addetti alla pubblica
amministrazione ed ai servizi che nel 1973 rappresentavano il 43% della forza
lavoro, sono ora attestati sul 56%. L’economia italiana, d’altra parte, ha
dimostrato di essere in grado di superare il grave ritardo che si era accumulato
nell’acquisizione di nuove tecnologie affidate all’elettronica e di saper evitare il
rischio grave di trovarsi collocata fuori mercato di fronte alle soluzioni introdotte
nelle grandi imprese che operano a livello mondiale.