INTRODUZIONE
Questa tesi di laurea magistrale studia la presenza nell’opera di Eugenio Montale di motivi,
immagini e temi riconducibili all’archetipo culturale e letterario del poeta-profeta.
Per l’impostazione di base e per i percorsi storico-filologici da me seguiti nella definizione
di tale archetipo, il mio lavoro si pone in continuità con una serie di studi di Elena Niccoli
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, cui
va il merito, in primo luogo, di aver individuato sistematicamente le forti omologie morfologi-
che e semantiche presenti fra il profetismo biblico e i paradigmi della cultura classica che asso-
ciano l’ispirazione poetica a quella profetica, e, in secondo luogo, di aver descritto la genesi,
dalla confluenza di queste due tradizioni, di un modello culturale tanto complesso quanto ca-
pace di conservare la propria vitalità attraverso i secoli; le indagini di Niccoli si concludevano
inoltre con l’ipotesi che la relazione tra poesia e profezia possa rappresentare, più che un puro
fenomeno letterario e/o religioso, la manifestazione di un tratto antropologico comune all’espe-
rienza umana al di là delle contingenze storico-geografiche.
La clamorosa persistenza dell’associazione fra poesia e profezia fino alle soglie del terzo
millennio ha, probabilmente, la sua ragion d’essere nella paradossale ambivalenza già antica-
mente insita nella figura del profeta, una tipologia umana estremamente complessa e capace di
produrre molteplici suggestioni filosofiche, letterarie ed esistenziali.
La letteratura greca e la tradizione giudaico-cristiana mostrano bene come l’esperienza del
veggente, dell’indovino o del poeta ispirato si situi sempre all’interno di una polarizzazione i
cui estremi sono, da una parte, una situazione “di massima luce”, in cui il profeta è in sintonia
con la divinità, la sente al proprio fianco, suscitando in chi lo circonda l’obbedienza e il timore
per la sua parola ispirata; dall’altra, una condizione negativa, “notturna” per così dire, dove il
privilegio si rovescia in condanna, gli uomini non hanno orecchi per ascoltare e credere, e la
presenza di Dio non si dà che per sottrazione, attraverso un enigmatico, o tragico, silenzio.
Relativamente al profetismo biblico è stato detto che «l’apprensione dell’assoluto, il sentimento
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Cfr. ELENA NICCOLI, Poesia e profezia nella letteratura romantica [tesi di dottorato], Università Cattolica del
Sacro Cuore di Milano, 1998, pp. 1-105; Ead., Poesia e profezia: origini di un archetipo, in «Intersezioni», 20,
2000, n. 1, pp. 19-42.
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incrollabile della prossimità del Dio lontano, della presenza del Dio nascosto, della verità del
paradosso, dell’armonia delle contraddizioni»
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caratterizzano la profezia e le sono essenziali.
Quella del profeta si presenta insomma, già dalle sue più antiche attestazioni, come un’espe-
rienza ambigua, ossimorica, caratterizzata da un misterioso privilegio e insieme da un inquie-
tante destino di isolamento e sacrificio, segnata dal possesso di doni straordinari e al contempo
minacciata continuamente dallo spettro del fallimento e della propria possibile illusorietà.
All’avventura del profeta è connaturato tanto il senso della presenza del divino, quanto la per-
cezione della sua lontananza o il timore della sua assenza: pertanto la prospettiva profetica,
nella sua complessità paradossale, sembra capace di offrire spunti tanto ai poeti “religiosi”
quanto ai poeti – per così dire – “laici”, le cui opere manifestano una continua e irresolubile
inquietudine spirituale, o un ateismo costantemente messo in crisi dal persistere o dall’affac-
ciarsi di interrogativi esistenziali, etici e morali.
A Montale, autore “laico”, sarà dedicata la seconda parte della presente ricerca.
Il primo capitolo della tesi verterà sulla definizione dell’archetipo culturale e letterario della
poesia profetica, con una disamina dei relativi nuclei semantici e tematici di cui poi, nel capitolo
successivo, si sonderà la persistenza attraverso l’opera del grande poeta ligure.
Il Capitolo 1 è diviso in due parti. Nella prima mi occuperò dello statuto della parola nelle
civiltà antiche, soffermandomi sui poteri che le venivano attribuiti in Grecia e nell’ebraismo;
darò inoltre alcuni cenni circa lo sviluppo e la crisi dell’ottimismo metafisico e gnoseologico
occidentale, fondato proprio sulla centralità del linguaggio. Nella seconda parte riassumerò le
principali tappe storiche della formazione del modello poetico-profetico, esaminando l’imagery
e i motivi di cui esso si compone: in particolare, i nuclei ai quali dedicherò maggiore attenzione
sono riassumibili sotto le categorie dell’ambiguità dell’elezione, del dualismo parola-silenzio,
della visione e del sacrificio.
Anche il Capitolo 2 ha una struttura duplice. La prima parte è incentrata sul problema della
comunicazione in Montale e sulla permanenza, nella sua poetica, della marca profetica della
balbuzie. La seconda parte, più ampia, è invece dedicata alla presenza nell’opera di Montale
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ANDRÉ NEHER, L’essenza del profetismo, Casale Monferrato, Marietti 1984, p. 269.
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delle categorie della visione e del sacrificio, di cui mi occuperò esaminando la concezione esi-
stenziale del poeta e studiando all’interno di essa la persistenza della dialettica paradossale,
tipica del profetismo, fra opacità e chiarezza, luce e ombra, salvezza e condanna.
CAPITOLO 1
POESIA E PROFEZIA:
ORIGINI E FORME DI UN ARCHETIPO
1.1. Premessa
La cultura occidentale cristiana nasce, nei primi secoli dell’era volgare, dalla sintesi tra l’es-
senza e le forme di due grandi civiltà antiche: quella greca da un lato e l’ebraica dall’altro.
All’incontro di questi due mondi si devono scambi reciproci di immagini, sovrapposizioni di
modelli, passaggi di categorie esistenziali o filosofiche. Un’associazione tra scrittura e ispira-
zione divina operava già da entrambe le parti: si prendano, come prime evidenze, la tradizione
greca dell’invocazione alla Musa e la presenza nella storia ebraica della figura dell’uomo scelto
da Dio come suo “messaggero” per annunciare, a viva voce o per iscritto, la sua parola.
Le forme archetipiche inerenti al rapporto tra poesia e divinazione, vive e presenti nell’im-
maginario di ciascuna cultura, trovarono terreno fertile per la loro fusione nei secoli dell’elle-
nismo e del tardoantico, quando il sistema filosofico greco-romano, dominante nel bacino del
Mediterraneo, si aprì all’influenza delle civiltà mediorientali facendo i conti, anche e soprat-
tutto, con la straordinaria novità del cristianesimo. In quegli anni cruciali per la storia culturale
dell’Europa intera, esegeti e filosofi ellenizzati di parte ebraico-cristiana operarono una conta-
minazione del modello del nabi’ giudaico con i modelli poetici e profetici greco-romani, enfa-
tizzando i punti di contatto e superando le divergenze tra le due tradizioni, fino a far di essi, di
fatto, un unico archetipo. Ci si apprestava così a presentare all’immaginario medievale, rinasci-
mentale e moderno un grandioso paradigma che sovrapponeva, raccogliendone le omologie,
figure pur molto lontane tra loro come Esiodo e Amos, Omero e Mosè, la Sibilla e Isaia, De-
modoco e David, Cassandra e Geremia.
Il modello del poeta-profeta ha perciò una lunga storia: ciò è significativo di un paradigma
poliedrico e pieno di potenzialità anche opposte, capace per questo di parlare ai poeti di ogni
tempo, che sono così liberi di scegliere al suo interno i motivi e gli emblemi più consoni alle
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loro esigenze espressive, per farli propri o – non meno di frequente – per prenderne le distanze
con ironia e verve dissacratoria.
Nascendo dall’incontro tra ebraismo e cultura greca nei primi anni dell’era cristiana, l’ar-
chetipo poesia-profezia è radicato in una visione del mondo antichissima, basata sulla centralità
della parola. George Steiner e altri hanno parlato, non a caso, di «civiltà della parola»
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per
definire il continuum di pratiche e concezioni simili, fondate sul valore del linguaggio, che
hanno caratterizzato le società umane a partire dall’antichità fino ai giorni nostri.
Le culture antiche attribuivano alla parola il potere di ordinare, modificare e addirittura
creare l’universo. Questa forza era ritenuta agire sia a livello metafisico per l’azione di entità
soprannaturali (il Dio biblico, gli dèi pagani, ecc.), sia nel microcosmo della vita quotidiana e
della società tramite le leggi e le pratiche educative, che i miti di fondazione spesso legavano a
una volontà trascendente. Col tempo, la fiducia nella potenza del linguaggio cambiò forma,
allontanandosi a mano a mano dal sostrato animistico e assumendo vesti filosofiche, ma conti-
nuò a rappresentare la chiave di volta del pensiero anche con l’avvento della civiltà cristiana.
Ciò significa che per un vasto periodo della storia culturale umana, che va perlomeno dai tempi
di Omero fino alla modernità, la parola ha rappresentato l’asse portante dell’interpretazione del
mondo e dell’esistenza collettiva, dando sostegno all’idea per cui «la civiltà risiede nei testi
sacri, nelle leggi, nella letteratura»
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. In un simile contesto, poeti e profeti non potevano non
avere un’assoluta rilevanza, che spesso si traduceva in prestigio sociale, proprio in virtù del loro
statuto di “operatori” della parola.
La rivoluzione scientifica ha rappresentato uno spartiacque nella storia della cultura: dal Sei-
cento in poi la nostra civiltà è entrata in una fase critica, in cui l’uomo ha abbandonato progres-
sivamente le aspettative tradizionalmente riposte nella parola, cercando nuovi strumenti per
interpretare il mondo. La «crisi della parola»
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, dovuta allo svelamento delle sue fallacie da parte
del metodo sperimentale, ha comportato la fine di quella fiducia che sorreggeva «la sostanza
linguistico-discorsiva della nostra esperienza occidentale ebraico-attica»
6
.
La scienza moderna – si vedrà – ha spostato il criterio dell’esistenza delle cose dalle parole
alle cose stesse, denunciando l’inconsistenza delle istanze del sacro e del metafisico. La storia,
3
GEORGE STEINER, Vere presenze, Milano, Garzanti 2014
4
, p. 91.
4
Ivi, p. 181.
5
Ivi, p. 96.
6
Ivi, p. 92.
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al contempo, si è incamminata tragicamente verso la reificazione dell’uomo con la guerra totale
e gli stermini tecnologici di massa, assurti poi a simbolo di un tralignamento dell’umano nel
disumano davanti al quale ogni parola risulta impotente e inefficace.
Tramontata quella completa fiducia nel linguaggio a cui ho appena accennato e di cui tornerò
a parlare, smorzatasi la fede in Dio e in un cosmo teleologicamente ordinato, consumatosi,
insomma, l’avvento di una società secolarizzata e disillusa, un modello profetico sembrerebbe
avere ben poco da offrire al disincanto della nostra epoca; e tuttavia, l’idea di una poesia pro-
fetica continua ancora a far presa, vuoi per il suo facile prestarsi all’estraniamento parodistico,
vuoi per il suo carattere congenitamente paradossale, per la sua capacità di aprire vie che, pur
partendo dallo stesso centro, possono snodarsi verso direzioni opposte.
È frequente avvertire nella scrittura dei poeti moderni una bruciante nostalgia del sacro, una
tensione carica di inquietudine verso tutto quello che la filosofia contemporanea ha ripudiato.
La poesia dimostra che se la scienza e la storia negano l’Assoluto, non eliminano però la sete
d’invisibile insita nell’essere umano. L’idea di una poesia profetica può resistere, allora, anche
quando l’energia del divino sembra disertare il linguaggio e le cose, e può farlo perché l’espe-
rienza dei profeti contempla da sempre, come vedremo, l’evenienza che le parole “si svuotino”
e che Dio si nasconda al mondo: essa ammette, cioè, la possibilità di un tempo critico, segnato
da un’assenza.
Annunciare la “crisi della parola” nel mondo di oggi non significa giocoforza decretarne la
fine: le parole continuano infatti a prendere parte alla nostra esistenza, seppure in un modo assai
dimesso, differente rispetto al passato. E non significa, neppure, proclamare la fine della poesia:
ci si accorge, in effetti, di come i poeti «nei tempi del ‘dopo-Parola’»
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, dopo aver assistito al
tramonto dell’ottimismo teologico, più che arrendersi a un assoluto mutismo, scelgano di af-
facciarsi su un territorio oscuro ma nuovo, si avventurino a sondare lo spazio dell’abbandono e
della negazione e seguano, visti da una certa prospettiva, le tracce di quei grandi profeti del
passato, i quali, attraversando dolorosamente il versante “notturno” della propria elezione, spe-
rimentarono nella singolarità del loro vissuto la scissione tra il sogno e le cose, tra promessa
metafisica e realtà in atto. Gli autori contemporanei, si può dire ancora con Steiner, «esplorano
il vuoto, la libertà priva di contenuti che proviene dalla latitanza […] del messianico e del di-
vino»
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, e in questo viaggio, proprio perché la lontananza di Dio è essenziale allo spirito profe-
tico tanto quanto la sua vicinanza, l’archetipo in questione conserva intatta la sua validità.
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Ivi, p. 96.
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Ivi, p. 215.