PREMESSA
In queste pagine si tratta della tematica del brutto e, in particolare del significato
che la bruttezza assume in letteratura.
La scelta del tema è scaturita da una semplice riflessione: per secoli studiosi,
filosofi, artisti e intellettuali si sono concentrati esclusivamente sulla ricerca e
sullo studio della bellezza, tralasciando costantemente, per un motivo o per
l’altro, l’analisi del suo contrario.
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Con questo lavoro, si vuol dimostrare, invece, come il brutto possa essere un
elemento estetico altrettanto interessante e presente tanto nella sfera estetica,
quanto in quella storica, artistica e letteraria.
Prendendo spunto dalla recente tendenza a un ritorno allo studio e all’analisi
del brutto, che si può notare dalla pubblicazione di testi come, appunto, la
Storia della Bruttezza di Umberto Eco, in questa sede, partendo da una
necessaria introduzione alla disciplina estetica, si cerca di arrivare alla
trasposizione della tematica della bruttezza all’interno di un romanzo
fondamentale nell’Ottocento romantico francese - e non solo - quale Notre-
Dame de Paris di Victor Hugo.
L’obbiettivo di questo percorso è, pertanto, quello di dimostrare che anche il
brutto, considerato da sempre entità negativa e inferiore rispetto alla bellezza,
possa, al contrario, risultare altrettanto interessante ed emozionante.
Anche se normalmente la figura del brutto nelle arti non è mai predominante,
ma serve da sfondo per far risaltare quello che di bello c’è nel contesto, per
quanto riguarda il romanzo di Hugo, la situazione si può considerare atipica.
L’enorme fortuna, infatti, da subito goduta dall’opera è dovuta proprio alla
presenza predominante e costante del brutto di cui la trama è pervasa, brutto,
che diventa qui protagonista assoluto e non più strumento tramite il quale
godere del bello.
Si assiste, quindi, a una sorta di trasformazione del brutto in bello, nel senso in
cui la bruttezza, presente sia nei luoghi, sia nelle situazioni e nei personaggi di
tutto il romanzo, risulta l’elemento originale, particolare e se vogliamo “bello”,
che cattura l’attenzione e l’interesse del lettore, che ne è così totalmente
coinvolto e affascinato.
Lo scopo di questo lavoro è perciò quello di ripercorrere, se pur brevemente e
senza nessuna pretesa di esaustività, la storia della disciplina estetica e dello
sviluppo dei concetti di bellezza e bruttezza, per dimostrare, tramite l’analisi del
testo, la tesi, già ampiamente sostenuta, dell’assoluta relatività dei concetti di
bello e di brutto.
Chiedete a un rospo che cosa è la bellezza, il vero bello, il to kalòn. Vi risponderà che
consiste nella sua femmina, coi suoi due begli occhioni rotondi che sporgono dalla
piccola testa, la gola larga e piatta, il ventre giallo e il dorso bruno. Interrogate un negro
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della Guinea: il bello consiste per lui nella pelle nera e oleosa, gli occhi infossati, il naso
schiacciato. Interrogate il diavolo: vi dirà che il bello è un paio di corna, quattro zampe a
grinfia, e una coda.
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CAPITOLO PRIMO
IL BELLO E IL BRUTTO
1. Introduzione all’estetica
Lo studio della bellezza è un duello in cui l’artista
urla di spavento prima di essere vinto.
1
U. Eco, Storia della bruttezza, Milano, Bompiani, 2007, p. 10.
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Charles Baudelaire
1.1 Definizione del termine
Per poter dare una corretta definizione dei termini “bello” e “brutto” è necessario
prima affrontare il concetto di Estetica:
In primo luogo, estetica è termine che si richiama alla dimensione emozionale e
passionale: studio legato all’etimologia del nome con cui è stata battezzata e che di
conseguenza si riferisce alle sfere del sensibile (della percezione, dell’immaginazione,
della memoria) e alle questioni qualitative del piacere.
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Ciò che emerge da questa prima definizione del termine è che questa disciplina
filosofica si occupi principalmente di dare un nome e una catalogazione a tutte
quelle sensazioni che si manifestano durante il rapporto che si viene a creare
tra la sensibilità umana e l’aspetto qualitativo delle cose, intese come tutto ciò
che costituisce “oggetto di percezione”.
Ma estetica è storicamente anche studio delle teorie dell’arte e dei processi produttivi
dell’artisticità. È, infine, la fusione di queste due questioni: poiché è il piacere che
induce a costruire nuovi oggetti o situazioni piacevoli, è la sensibilità che spiega le
potenzialità del fare, ed è l’oggetto che si trova al termine di questa genesi produttiva a
indurre nell’osservatore i percorsi passionali dell’emozione.
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Da questa seconda accezione emerge un altro importante aspetto: l’estetica
non solo si lega alla sfera delle emozioni personali, ma è anche studio dei
processi artistici, vale a dire che, in qualità di disciplina filosofica, cerca di dare
una spiegazione più concreta al motivo per cui l’uomo ricorra continuamente
alla produzione di oggetti estetici, che a loro volta, regalano a chi li osserva
sensazioni ed emozioni sempre differenti e soggettive.
Questo tipo di definizione, che potrebbe apparire troppo empirica, in virtù della
quale si parla di estetica ovunque siano presi in considerazione i processi
2
E. Franzini, M. Mazzocut-Mis, I nomi dell’estetica, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 152.
3
Ivi.
8
qualitativi della ricezione e della produzione, del piacere del fare, è forse un tipo
di approccio meno ingenuo di quanto si voglia far credere. Non solo per il
motivo che non vincola l’estetica alla sua storia, che è ad ogni modo un
processo fatto a posteriori, ma anche perché indica nella qualità, cioè in tutto
ciò che non è riconducibile né al quantitativo né alla sola fattualità, il suo
comune orizzonte, l’unico che forse è in grado di spiegare sia quando l’estetica
è nata sia come possa essere analizzata.
L’estetica si occupa delle nozioni qualitative, per esempio “opera”, “bello”, “sentimento”
ecc.; non di una parcellare applicazione del generale al particolare e alla sua
situazionalità. Si concentra, si potrebbe dire con linguaggio kantiano, sulle modalità
funzionali della “facoltà di giudicare” e non sui singoli, particolari giudizi.
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L’estetica, quindi, non soltanto è una disciplina che si occupa di tutto ciò che è
considerato come elemento qualitativo, ma studia anche le modalità tramite le
quali noi giudichiamo quello che ci sta attorno. Come affronteremo in uno dei
prossimi paragrafi, proprio Immanuel Kant (1724-1804) nella sua Critica del
Giudizio, ci spiega come la formazione del giudizio estetico sia un processo
prettamente personale e soggettivo: in parole semplici quello che per una
persona può essere giudicato come bello, per un’altra può essere benissimo
visto come brutto, o comunque privo di bellezza.
L’estetica, dunque, come ogni parte della filosofia, è una riflessione critico-conoscitiva,
che si sviluppa in connessione, in dialogo, e non in fusione empatica, con le verità
intrinseche agli oggetti, ai temi presi in esame, che sono in questo caso complessi
storico-spirituali, legati a universi motivazionali ed espressivi.
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È dunque chiaro come la riflessione estetica si sviluppi tramite processi di tipo
conoscitivo, che portano al “dialogo” tra noi e gli oggetti, dialogo che condurrà
poi alla nostra reale conoscenza di essi. Come vedremo più avanti, solo tramite
l’esperienza, che ci lega alla percezione degli oggetti da quando siamo piccoli,
noi possiamo sviluppare un giudizio critico.
4
Ibidem, p. 154.
5
Ibidem, p. 155.
9
Riguardando queste prime definizioni di estetica, che come affermato poco fa,
esulano dalla sua storia, risulta evidente che questa disciplina trova il suo
campo di studio nell’ambito del sensibile e si sofferma a osservare l’aspetto
qualitativo del piacere. È, inoltre, una disciplina filosofica che ci consente,
tramite l’esperienza acquisita negli anni della nostra vita, di esprimere un
personale giudizio estetico, di dialogare con gli oggetti e classificarli in modo da
arricchire giorno per giorno il nostro bagaglio esperienziale:
L’estetica vive così la sua specificità disciplinare, il suo senso teorico, all’interno di
conflitti, la cui accettazione è presa di coscienza filosofica che non esistono norme
fondamentali e sistematiche, un genere di discorso universale in grado di spiegarli, di
ricondurne a un’unità astratta i modi con cui la qualità si offre nel suo senso espressivo,
venendo emotivamente percepita.
Forse proprio nella consapevolezza della varietà dei conflitti e nel tentativo, a volte
ingenuo, di dirimerli, l’estetica moderna e contemporanea ha frequentemente insistito,
in vari modi, sulla propria “scientificità” o sulla sua assenza.
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1.2 Percezione, relazione ed esperienza estetica.
Il termine estetica deriva dal latino Aisthesis che significa proprio percezione,
sensazione. Ma in cosa consiste una percezione?
Normalmente la percezione si ha quando si viene a contatto con qualcos’altro,
un elemento di diversa natura che può essere un colore, un odore, un suono,
una superficie, e così via. Non basta, però, avere la semplice percezione di un
oggetto per parlare di estetica, si può percepirlo anche solo dal punto di vista
puramente oggettivo, ovvero quando la relazione con il percipiente non
coinvolge quelle dimensioni dell’esperienza di chi osserva che non sono
facilmente trasportabili in quel contesto.
L’estetica manifesta che lo sguardo non è soltanto una funzione strutturale o
grammaticale. La descrizione è un processo necessario per il sapere ma non esaurisce
6
Ivi.
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il senso dei suoi oggetti, che presentano un orizzonte anonimo, non totalmente
rappresentabile, che sempre di nuovo va indagato e analizzato.
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Infatti né le qualità primarie (proprietà oggettive, geometrico-meccaniche), né
quelle secondarie (colori, odori, sapori, etc.) rappresentano il problema estetico;
sono quindi le qualità relazionali quelle che lo propongono, perché includono le
prime due qualità e ne trascendono. Si instaura così una relazione percettiva,
che implica un’esperienza, ossia l’esperienza estetica dell’oggetto.
Le proprietà relazionali sono quelle in cui si fa attenzione all’incisività dello
scambio o del rapporto, non bisogna pensare che ci sia un ordine da seguire
per avere un’esperienza estetica, è tutto giocato sulla relazione,
sull’immediatezza e sulla spontaneità.
Come afferma Elio Franzini, la percezione estetica che noi abbiamo degli
oggetti, siano essi artistici o meno, è accompagnata da un processo conoscitivo
che ci permette di riconoscerne la loro natura:
La ricerca di una dimensione veritativa profonda, che può rivelare anche il limite stesso
dell’analisi scientifica, e della sua potenzialità conoscitiva, non è nella mente del
filosofo, nella sua abilità “tecnica”, bensì in ciò che gli oggetti, le opere, le forme sono
per noi, per l’intensità sensibile, espressiva, passionale, emozionale della nostra vita
estetica, in cui soltanto si offrono e si esibiscono sensibilmente.
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L’attuazione di questo processo conoscitivo non spetta solamente alla figura
dello studioso, non serve una preparazione o una predisposizione specifica per
poterlo portare a termine; al contrario, noi tutti nella nostra vita veniamo a
contatto con oggetti estetici o prendiamo parte a esperienze estetiche ogni
giorno, ed è soltanto tramite l’uso dei nostri sensi e con l’aiuto dell’esperienza
che possiamo “comunicare” con ciò che ci circonda. Come precedentemente
affermato, si possono distinguere due tipi di percezioni: una di tipo puramente
oggettivo, cioè nella quale non entra in gioco la nostra sfera emotiva, oppure di
tipo sensoriale, quando osservando un oggetto non ci limitiamo a riconoscerne
le sue qualità primarie e secondarie, ma instauriamo con esso un legame più
profondo, che coinvolge le nostre emozioni:
7
Ibidem, p. 158.
8
Ibidem, p. 159.
11
Si, vi sono pensieri vivi e pensieri morti. Il pensiero che si muove sulla superficie
illuminata, che può sempre essere verificato e riscontrato lungo i fili della casualità, non
è necessariamente il pensiero vivo. Un pensiero che s’incontra in questo modo rimane
indifferente come un uomo qualsiasi in una colonna di soldati in marcia. Anche se un
pensiero è entrato nella nostra mente molto tempo prima, prende vita solo nel momento
in cui qualcosa, che non è più pensiero, che non è più logico, si combina con esso, così
che noi sentiamo la sua verità, al di là di ogni giustificazione, come un’ancora che
lacera la carene viva e calda…Ogni grande scoperta si compie solo per metà nel
cerchio illuminato della mente cosciente, per l’altra metà nell’oscuro recesso del nostro
essere più interiore, ed è innanzi tutto uno stato d’animo alla cui estremità sboccia il
pensiero come un fiore.
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L’esempio dovrebbe rendere più chiaro il fatto che nella relazione estetica
l’elemento fondamentale è l’esperienza: quest’ultima non ha un tempo preciso,
né si può contare, ma avviene nell’arco della nostra vita a livello psichico.
Di per sé non esistono oggetti solo materiali e tangibili così come non esistono
oggetti che sono definiti assolutamente belli, ma divengono estetici in virtù della
relazione che si crea con chi li contempla. Ecco che si può parlare quindi di una
sorta di “tragitto dell’estetica, che dalla sensazione porta verso il sentimento e
da questo a un giudizio in cui la riflessione è interpretazione del senso
espressivo e qualitativo delle cose e della nostra relazione con esse”.
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Perché s’instauri la relazione estetica, bisogna presupporre una sorta di
attenzione all’aspetto, perciò si può capire che, se il percipiente non è
predisposto, non viene colpito dall’aspetto dell’oggetto, anche se si trattasse di
un oggetto puramente bello. Quando parliamo di “predisposizione
all’attenzione”, non vogliamo affermare altro che l’osservatore deve avere e
mantenere un certo stato d’animo per far sì che la relazione estetica abbia inizio
e si completi.
Un esempio banale potrebbe essere questo: gruppi di ragazzi in gita scolastica
vengono spesso accompagnati a visitare città d’arte, musei o mostre: in queste
situazioni è difficile che s’instauri la relazione di cui sopra, sia per cause inerenti
all’età, sia perché in quelle situazioni l’attenzione dei ragazzi è monopolizzata
dalle dinamiche di gruppo.
9
R. Musil, I turbamenti del giovane Törless, trad. it. di A. Rho, Torino, Einaudi, 1990, p. 179.
10
E. Franzini, M. Mazzocut-Mis, I nomi dell’estetica, cit., p. 159.
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Per far sì che lo sguardo si sposti verso un oggetto estetico, che non deve
essere necessariamente di tipo artistico, c’è bisogno che l’attenzione
dell’osservatore venga sorpresa, catturata e spostata. Nel discorso estetico il
moto che risponde alla bellezza è quello dello stupore: il bello deve
meravigliare. Questo meccanismo avviene in modo percettivo, spontaneo e
immediato. Non possiamo negare l’immediatezza di questo sentire, la relazione
estetica nella sua affettività non è mediata da concetti determinati: l’affettività
non nasce dal riflettere dopo aver avuto un’esperienza estetica, ma accade in
modo percettivo, subito.
Ad esempio non decidiamo se un quadro ci piace dopo che lo abbiamo visto ma
immediatamente, anzi, riflettere dopo l’esperienza difficilmente ci fa cambiare
idea sulla nostra percezione iniziale. L’immediatezza è intrinseca alla relazione
estetica. Non è sapere che il quadro rappresenta qualcosa in particolare che ce
lo fa apparire bello: perché se noi siamo davanti a un’opera d’arte astratta, ci
piace o meno a prescindere da cosa vuol rappresentare.
Attenzione però, immediatezza non è sinonimo di semplicità: l’immediatezza
non è propria solo di questo tipo di esperienza, ma è caratteristica di ogni
esperienza sensoriale. Quel sentimento di piacere suscitato dallo scambio
sensoriale tra grado di attenzione prestata e aspetto della cosa, è molto
complesso in quanto si tratta di armonia interna, ovvero dell’armonia che si
forma tra intelletto e sensibilità.
1.3 La nascita dell’estetica come disciplina filosofica
L’estetica come disciplina filosofica specifica nasce alla fine del Settecento e,
pertanto, si configura come un fenomeno essenzialmente moderno, come
tentativo di fornire una legittimazione universale a un ambito che, malgrado la
molteplicità di tesi e precetti, non era ancora divenuto oggetto di riflessione
sistematica. Tale ambito è caratterizzato dall’emergere in primo piano della
soggettività con le sue manifestazioni, in particolare il sentimento individuale:
uno stato affettivo, che inizia ad essere concepito sul piano filosofico come la
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fonte delle emozioni, era sconosciuto nell’antichità, epoca in cui, prevaleva la
nozione di passione, ancora ampiamente utilizzata fino a tutto il Seicento.
Estetica come esperienza filosofica dei limiti del pensiero, come interpretazione dei suoi
orizzonti espressivi, di quei nuclei sensibili, metaforici, simbolici da cui può scaturire un
sapere e non soltanto la sua retorica. Estetica come emergenza di un senso non
formalizzabile, in cui l’evidenza percettiva è la presenza di percorsi emotivi, passionali,
in cui pone l’origine stessa delle genesi di tale senso.
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A partire dal Settecento, il sentimento va invece a indicare il riflesso soggettivo
che accompagna ogni nostra esperienza e si configura come terzo ambito
fondamentale della nostra vita spirituale, accanto a intelletto e volontà; tale
nozione non appare caratterizzata da connotazioni di ordine psicologico e trova
il suo terreno di applicazione unicamente in ambito estetico e morale.
L’estetica come materia filosofica, come “scienza”, nasce perciò come tentativo
di fondare in modo critico un settore che appare, per le tematiche affrontate,
votato fin dall’inizio all’accidente e all’irrazionalità e mira a dettare le condizioni
di universalità e di necessità per un tipo di esperienza che, a una prima analisi,
ne è priva:
Usare il termine “scienza” per l’estetica è certo, a volte, l’asettica constatazione del
riconoscimento della sua specificità storica e tematica, necessaria soprattutto di fronte
all’esaltazione di metodi spuri, di analisi parcellari, di residui atomistici che
costituirebbero, nel loro insieme, una nebuloso chiamata estetica. Di fronte a questa
dispersione pulviscolare, parlare di “scienza” per l’estetica significa soltanto trovare un
nome per ribadirne l’evidenza storica, il suo “esserci” tra le discipline filosofiche, con i
suoi molteplici ma precisi percorsi storico-teorici di auto definizione.
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Al di là, tuttavia, di questo uso, il termine “scienza” va probabilmente delimitato.
In primo luogo, infatti, l’estetica non è mai stata nella sua storia, una disciplina
“normativa”. Al contrario si è affermata in quanto “filosofia” proprio in polemica
con le precettistiche della critica o della retorica. Non esiste nell’estetica un
orizzonte valutativo che si riferisca in modo omogeneo a un giudizio
fondamentale, cui le sue proposizioni debbano fare riferimento.
11
Ibidem, p. 158.
12
Ibidem, p. 154.
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