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Capitolo 1. IL DOLORE E LA SUA STORIA
Il dolore nella storia della medicina e nelle diverse culture
Il dolore ha rappresentato sin dalle origini della storia umana, uno dei problemi piø drammatici per
l'uomo ed il sollievo da esso è stato il compito principale di medici-guaritori dell’antichità e ancora
oggi rappresenta uno dei problemi piu’ attuali della medicina moderna.(Salvadori, 2005)
Fin da quando l’uomo e’ apparso sulla terra, il dolore è stato oggetto di paura, superstizione, interesse
e studio e la battaglia per il sollievo e la sconfitta del dolore è stata lunga e tormentata.
Quando ancora vivevano di caccia e di raccolta, gli esseri umani hanno appreso, osservando gli
animali, alcune modalità di comportamento, per esempio inumidire con la saliva le parti contuse e
doloranti del corpo. In seguito forse la ragione e l’esperienza li hanno indotti a bagnarle con acqua
fredda e ad applicarvi foglie e radici per contrastare sintomi. Con la costituzione della società e la
conseguente specializzazione dei ruoli nella comunità, alcuni individui sono diventati esperti nell’uso
dei rimedi officinali.
Prima della civilizzazione, magia, religione e medicina erano strettamente collegate, e la malattia ed
il dolore venivano considerati una punizione divina causata da una negligenza umana individuale o
collettiva, od una conseguenza dell’intrusione di spiriti maligni nel corpo. Nelle popolazioni
primitive il dolore era visto come uno spirito nemico dentro la persona che soffriva. ¨ su questa base
che lo stregone o lo sciamano intervenivano sul sofferente con una leggera ferita, attraverso la quale
doveva uscire lo spirito maligno che generava il dolore.
Nel corso dei secoli e attraverso le culture dei popoli, si è passati dalla considerazione del dolore
come segno di un evento traumatico in un rapporto semplicistico di causa-effetto, alla visione
teologica del dolore e della malattia determinata da influssi delle divinità come nell’antico Egitto,
fino alla medicina cinese (2600 a.C.) che lo integrava nell’alterato equilibrio tra le due forze
energetiche Yng e Yang.
Questa visione si arresta quando, prima in Grecia grazie a Ippocrate (460-377 a.C. circa) ed alla sua
teoria dei quattro fluidi, e poi nel resto del mondo, una nuova concezione della medicina permette di
interpretare in modo razionale i fenomeni naturali come il dolore. I primi tentativi per diminuire il
dolore risalgono agli Egizi, la cui cultura era molto avanzata: furono i primi a capire che il freddo
inibisce la circolazione e la sensibilità. Gli Egizi conoscevano la “pietra di Melfi”, una roccia che
strofinata sopra le membra da amputare o cauterizzare sedava il paziente.
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Figura 1.
L’evoluzione delle conoscenze erboristiche, fecero scoprire l’oppio, la mandragora e la cannabis.
L’oppio (dal greco òpion), che deriva dal papavero bianco, era già conosciuto dai Sumeri nel 3500
a.C. come rimedio al mal di denti e nell’antico Egitto era conosciuto come tranquillante. La
mandragora era un analgesico naturale utilizzato da Plinio il Vecchio, naturalista romano, prima di
un’operazione chirurgica.
Nel 3000 a.C. gli Assiri ricorrevano a narcotici vegetali, quali papavero, mandragora e cannabis per
provocare uno stato di coma transitorio durante il quale poter operare.
Nel 500 a.C. gli Indios peruviani provocavano un’anestesia della lingua e delle labbra facendo
masticare foglie di coca, mentre il filosofo greco Ippocrate (460-377 a.C.) utilizzava una “spugna
soporifera” imbevuta di oppio, giusquiamo e mandragora, per addormentare un malato.
¨ ancora un medico greco, Dioscoride (I secolo d.C.), che coniò la parola “anaisthesia” per
descrivere gli effetti della mandragora, che ritroviamo utilizzata, nel 1200, da Domenico de Luca.
Nel 1500 Valerius Cordus scoprì le proprietà ipnotiche dell’etere etilico e Paracelso ne scopre il
potere analgesico, ma ambedue non ne intuirono l’importanza clinica, così la lotta al dolore
procedette su altre strade.
Nel Medioevo, in Occidente la cultura giudaico-cristiana conferisce grande valore al dolore come
mezzo di purificazione attraverso cui l’uomo giunge alla salvezza dell’anima dopo aver messo
scompiglio nell’ordine stabilito da Dio. In questo periodo, grazie al supporto della Chiesa, si afferma
la logica della pedagogia della sofferenza: il dolore deve essere accettato, anzi ricercato tramite
pratiche auto-punitive, come modalità di redenzione e crescita spirituale.
Filosofi e psicologi rimasero legati all’idea aristotelica della natura affettiva del dolore.
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Dopo l’anno Mille ha inizio in tutta Europa la fase pre-universitaria della medicina durante la quale,
la medicina inizia a laicizzarsi, e la malattia ed il dolore sono nuovamente considerati prodotti di
cause naturali.
Soltanto con Cartesio (1596-1650) il dolore diviene segnale di precisi malfunzionamenti somatici. Il
filosofo francese sviluppa il primo paradigma organicista del dolore sottolineando la funzione
biologica protettiva, recuperata e sistematizzata scientificamente all’inizio del XX secolo dal
fisiologo e neurologo Charles Sherrington (1857-1952). Nel periodo illuminista il dolore viene
considerato come sintomo in grado di facilitare la diagnosi da parte del medico.
Ward in Inghilterra e Marshall in America furono i piø convinti sostenitori delle dimensioni sia
sensoriali che affettive del dolore.
I primordi della neurofisiologia e i principali modelli teorici sul dolore
La prima interpretazione della origine neurogena del dolore si deve a Galeno (130-201 d.C.) che
localizzava i meccanismi del dolore nel sistema nervoso centrale considerandolo una pura sensazione
trasmessa dal sistema nervoso. Ad essa contrapposta era l’ipotesi aristotelica del dolore come
emozione che invade la coscienza.
Figura 2.
L’inizio dell’epoca moderna è segnato dalla fondamentale scoperta della trasmissione elettrica del
dolore e dalla nascita della neurofisiologia moderna che chiude definitivamente la diatriba tra la
teoria del dolore di Aristotele e quella di Galeno.
Passando attraverso le epoche di Leonardo da Vinci, Vesalio, Varolio, Cartesio si arrivò all‘800,
epoca in cui l’affinarsi delle conoscenze di anatomia e fisiologia umana, portarono alla formulazione
di due diverse teorie fisiologiche del dolore: la Teoria della Specificità e quella dell'Intensità dello
Stimolo.
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La Teoria della Specificità
La causa diretta e lineare della sofferenza è il principale oggetto di interesse e studio delle teorie della
specificità. Queste teorie rispecchiano il dualismo cartesiano che descrive il dolore partendo
dall’osservazione del comportamento della persona.
Negli ultimi quattro secoli, la ricerca scientifica ha sostenuto un approccio meccanicistico al tema del
dolore. In tale prospettiva, la teoria della specificità formulata da Schiff nel 1858 affermava che il
dolore rappresenta una specifica forma di sensibilità, fornita di un proprio apparato sensitivo
completamente indipendente da quello degli altri sensi (tatto, caldo, freddo ecc.). A sostegno di
questa teoria Schiff aveva effettuato anche esperimenti di analgesia su animali e osservazioni cliniche
su pazienti con lesioni midollari patologiche o traumatiche.
Nel 1840 il fisiologo tedesco Johannes Peter Müller (1801-1858) sostiene l’ipotesi che il cervello è in
grado di ricevere informazioni sugli stimoli esterni, anche quelli dolorosi, solamente attraverso la
parte sensitiva del sistema nervoso. Tuttavia nel 1894 il fisiologo austriaco Maximilian von Frey
(1852-1932) sviluppò una piø organica e completa teoria della specificità del dolore, partendo
dall’evidenza che la cute umana possiede una grande varietà di punti sensoriali unici per le diverse
sensazioni. Secondo tale teoria, le terminazioni libere dei nervi sono recettori specifici per il dolore.
Queste scoperte hanno aiutato le successive ricerche in campo fisiologico ad individuare i diversi tipi
di fibre coinvolte nel processo di trasmissione e modulazione delle informazioni dolorose e ad
identificare nel tratto spinotalamico “la via del dolore”.
La Teoria dell'Intensità
Alla fine del XIX secolo, il fisiologo tedesco Alfred Goldscheider (1858-1935) provò a dimostrare la
debolezza delle ipotesi di von Frey e suggerì che, per poter capire a fondo i meccanismi sottesi al
dolore, si debba ipotizzare un qualche processo centrale di sommazione (teoria della sommazione).
Con la teoria dei modelli o dei “pattern” di scarica è possibile capire una serie di fenomeni difficili da
spiegare ricorrendo ai modelli precedenti, come la persistenza della sensazione dolorosa dopo la
scomparsa della causa iniziale o l’inasprimento del dolore dovuto all’effetto cumulativo.
Le ipotesi formulate dalle teorie della specificità si sono a lungo scontrate con la teoria dell’intensità
dello stimolo avanzata dal neurologo tedesco Wilhelm Erb (1874), che sosteneva che ogni tipo di
stimolo sensoriale era in grado di causare dolore quando raggiungeva una intensità sufficiente.(Erb,
1895)
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La Teoria del “gate control”
La teoria dei modelli è stato il primo passo di un lungo processo di allontanamento dalle teorie della
specificità, troppo semplicistiche per poter spiegare le diverse tipologie di dolore; essa rappresenta
una premessa necessaria alla teoria del cancello di Melzack e Wall.(Melzack and Wall, 1965)
Secondo questa teoria, l’esperienza del dolore implica tre dimensioni distinte ma interconnesse: la
prima fisiologica, che descrive il cammino dello stimolo doloroso attraverso le vie afferenti al
sistema nervoso centrale, e la seconda e la terza di natura psicologica (una riguarda la dinamica di
valutazione cognitiva collegata al processo di costruzione di significato dell’esperienza del dolore,
l’altra si riferisce ad un processo affettivo-motivazionale che dipende largamente dai valori, dalle
credenze, dai tratti e dalle esperienze del singolo individuo.
Secondo la teoria del cancello, a livello delle corna dorsali del midollo spinale esiste un cancello, un
meccanismo in grado di modulare in senso facilitatorio od inibitorio la trasmissione delle
informazioni dolorose dai distretti periferici verso il sistema nervoso centrale.
L’approccio sensoriale al dolore portò Melzack e Wall a proporre nella loro teoria del cancello la
schematizzazione dei fenomeni inibitori che hanno luogo nel corno posteriore del midollo spinale,
ormai riconosciuto come centro fondamentale d'integrazione e di modulazione dei segnali.
Secondo questa teoria gli interneuroni della Substantia Gelatinosa di Rolando (con funzione di vero e
proprio filtro sulle afferenze dolorose) possono essere inibiti dagli impulsi condotti dalle fibre di
piccolo diametro; sono invece eccitati dagli impulsi condotti dalle fibre di grosso diametro. Se quindi
prevalgono gli impulsi condotti dalle fibre di piccolo diametro si determina una minore azione
inibitrice cioè si apre il cancello agli impulsi algogeni. Se invece prevalgono gli impulsi condotti
dalle fibre di grosso diametro l'azione inibitrice è aumentata cioè il cancello sì chiude e si riduce
quindi la trasmissione degli impulsi dolorosi ai centri superiori.
Al momento questa rappresenta ancora la teoria che meglio di ogni altra mette in evidenza e cerca di
spiegare i complessi sistemi di modulazione degli impulsi nocicettivi a livello del SNC.
In qualche modo Wall e Melzack in accordo con Casey hanno sottolineato, nella formulazione piø
recente della loro teoria, l'importanza degli aspetti cognitivi ed affettivi dell'esperienza dolorosa.
Questi sistemi di controllo legati a circuiti interneuronici sono attivi ai diversi livelli del Sistema
Nervoso Centrale (SNC).
Dagli anni Novanta del secolo scorso, Melzack, basandosi sull’osservazione di alcuni pazienti con
dolore da arto fantasma, ipotizza che le sensazioni associate alla presenza illusoria di una parte del
corpo possano essere spiegate mediante l’attività di una specifica rete di neuroni cerebrali disposti tra
talamo e corteccia e tra corteccia e sistema limbico: la neuromatrice.
(Melzack, 1990, Ronald, 1999)
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Secondo la teoria della neuromatrice, che è l’evoluzione della teoria del cancello, il cervello non si
limita ad elaborare i segnali provenienti dalle aree periferiche, ma genera uno schema integrale del
corpo, assumendo un ruolo preminente rispetto alle strutture nervose inferiori.(Melzack, 2001,
Iannetti and Mouraux, 2010)
Figura 3. Le risposte della neuromatrice producono percezione del dolore, come pure risposte omeostatiche e
comportamentali.(Melzack, 2001)
Questa teoria fornisce una cornice concettuale nuova alla questione del dolore, in particolare a quella
delle sindromi dolorose croniche che sono caratterizzate da una grande intensità del dolore e da un
ruolo indefinito della patologia sottostante. Tale prospettiva sostiene che il dolore, piuttosto che
essere prodotto direttamente dagli stimoli sensoriali scatenati da una lesione tissutale o da una
patologia, è originato dall’architettura sinaptica della neuromatrice, capace di creare, fra gli altri,
anche il pattern neuronale specifico del dolore, costituito dall’intersezione di neuromoduli sensoriali,
affettivi e cognitivi.(Melzack, 2005a) (Figura 3)
Parallelamente a questi eventi la neurofisiologia faceva altri importanti passi in avanti.
Nella seconda metà dell’Ottocento, Camillo Golgi metteva a punto una tecnica per l’osservazione
microscopica del tessuto nervoso che è stata definita rivoluzionaria e grazie alla quale lo spagnolo
Santiago Ramon y Cajal riuscì a dimostrare che le cellule nervose erano unità anatomiche e
funzionali distinte e che i dendriti erano implicati anch’essi nella trasmissione del linguaggio
nervoso. Sempre al Cajal si deve l’accertamento che tra due neuroni vi è una sottile interruzione
(quella che, appunto, Sherrington battezzerà con il nome di sinapsi).
Sul finire del secolo, poi, si diffuse la convinzione che alla base della conduzione nervosa vi fossero
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degli impulsi elettrici, ciò che non escludeva che vi fosse anche una trasmissione chimica.
Nel 1975 Hughes, Smith e Kosterlitz isolarono i cosiddetti oppioidi endogeni, sostanze morfino-
simili prodotte dal cervello che, legandosi ai rispettivi recettori nel sistema nervoso centrale,
svolgono un’azione analgesica simile a quella della morfina. Tale scoperta ha permesso la
formulazione della teoria biochimica dei recettori oppioidi.
La Teoria della plasticità
Con la scoperta della sensibilizzazione centrale si è previsto un nuovo modello in cui il dolore possa
sorgere a causa di cambiamenti nelle proprietà dei neuroni nel SNC: la sensibilizzazione
centrale.(Latremoliere and Woolf, 2009)
In effetti ci sono specifici percorsi nocicettivi e questi sono soggetti a facilitazione complessa e a
controlli inibitori; per cui entrambi i modelli della specificità e dell’intensità sono stati in parte
corretti.
Infatti i cambiamenti nelle proprietà funzionali dei neuroni in questi percorsi del dolore sono
sufficienti a ridurre la soglia del dolore, aumentare l'entità e la durata delle risposte all'input nocivo e
permettere agli ingressi normalmente innocui di generare sensazioni di dolore. Il dolore non è quindi
semplicemente un riflesso di ingressi periferici o una patologia ma è anche un fenomeno dinamico
della plasticità neuronale centrale: teoria della plasticità.
Negli ultimi 26 anni si sono visti enormi progressi nella comprensione della natura e delle
manifestazioni della sensibilizzazione centrale e dei suoi meccanismi molecolari sottostanti.
Abbiamo valutato quale trigger può indurre la sensibilizzazione centrale, attraverso quali vie di
segnalazione e per mezzo di quali effettori. La complessità è sconfortante perchØ l'essenza della
sensibilizzazione centrale è un mosaico in costante evoluzione delle alterazioni dell’eccitabilità di
membrana, di riduzioni nelle trasmissioni inibitorie e aumento nella efficacia sinaptica, mediata da
molti fattori molecolari convergenti e divergenti su uno sfondo di switch fenotipici e alterazioni
strutturali. (Latremoliere and Woolf, 2009)
• Plasticità neuronale
Per plasticità neuronale si intende la capacità del sistema nervoso di modificarsi rispetto agli stimoli
esterni.
Il primo ad utilizzare il termine plasticità fu lo psichiatra italiano Ernesto Lugano nel 1906, a
proposito della trasmissione sinaptica. Successivamente Ramon Y Cajal avanza l’ipotesi
dell’esistenza della plasticità neuronale (1933). Sono gli studi di Donald Hebb intorno al 1950 che
iniziano a parlare estesamente della plasticità: “Le connessioni corticali sono rafforzate e modellate
dall’esperienza”.
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Successivamente moltissimi studi hanno dimostrato come l’ambiente stimolante ha molteplici effetti
sul cervello, incluso un aumento del numero delle connessioni cerebrali. Un ulteriore contributo di
Hebb alla teoria connessionista e alle neuro-scienze computazionali è stata quella di espandere la sua
regola a gruppi di neuroni: eccitandosi insieme questi formano raggruppamenti cellulari associativi.
Secondo il pensiero di Hebb l’attività cognitiva è determinata dall’attivazione sequenziale di questi
insiemi.(Bennett et al., 1996, Sanes, 2000, Volkmar and Greenough, 1972)
• Plasticità sinaptica
¨ una forma di modificabilità delle sinapsi per le normali operazioni del sistema nervoso.
La plasticità sinaptica è fondamentale per la memoria e il dolore.
Figura 4.
Le capacità adattive delle unità neuronali in contesti di apprendimento associativo sono state
postulate nel 1949 da Hebb: quando un assone della cellula A (la cellula presinaptica) prende parte
ripetitivamente nel processo di eccitamento della cellula B (la cellula postsinaptica), qualche
cambiamento strutturale o metabolico subentra in una o entrambe le cellule in modo che l’efficienza
di A, come cellula eccitatrice di B, aumenti.(Figura 4)
La contemporanea presenza di un potenziale d’azione sulla cellula pre-e post-sinaptica è necessaria
per l’apprendimento. Le sinapsi che mettono in moto meccanismi associativi del tipo descritto dalla
“learning hebbian rule” vengono tipicamente chiamate ”sinapsi hebbiane”. La presenza di queste
all’interno del cervello umano è stata provata oltre venti anni dopo la postulazione di Hebb.
Solo nei primi anni ‘60 il gruppo di Krech, Rosenzweig e Bennet evidenzia che il cervello può essere
modificato dall’allenamento o da altre esperienze. Ed è stata inoltre ricondotta a varie e distinte
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manifestazioni di attività intellettuale legate all’apprendimento.(Rosenzweig and Bennett, 1996)
(Rolls, 2000, Rolls, 1999)
¨ stato così dimostrato che le modificazioni durevoli della sinapsi sono alla base della
memorizzazione e dell’apprendimento perchØ consentono l’immagazzinamento delle informazioni
nell’encefalo (Luscher et al., 2000).
La plasticità sinaptica coinvolge variazione nella funzione sinaptica, come pure le alterazioni nella
struttura sinaptica. (Ji et al., 2003)
A seconda delle sinapsi e dell'intensità, frequenza e durata dell'attività svolta, si possono evocare
aumenti (facilitazione, potenziamento o sensibilizzazione) e diminuzioni (assuefazione, depressione o
desensibilizzazione) nella funzione sinaptica. (Mendell, 1984)
La plasticità sinaptica riflette principalmente l’accumulo di Ca2 nel terminale presinaptica formatosi
durante l'attivazione ripetitiva, provocando aumento del rilascio vescicolare o un impoverimento
delle vescicole dopo un uso prolungato. Pertanto si descriveva l’attività della sinapsi relativamente
transitoria. Tuttavia, 30 anni fa, Bliss e Lomo rivelavano l'esistenza di cambiamenti duraturi
nell'efficacia della trasmissione sinaptica. Durante la registrazione dei potenziali del campo sinaptico
extracellulare nell'ippocampo, hanno dimostrato che questi potenziali potrebbero essere potenziati per
ore a seguito di uno stimolo condizionante di breve durata ad alta frequenza: il fenomeno del
potenziamento a lungo termine (LTP). (Bliss and Lomo, 1973)
Vent'anni fa, fu scoperta un'altra forma di plasticità sinaptica attività dipendente – questa volta del
midollo spinale – che contribuiva alla ipersensibilità del dolore post-infortunio: il fenomeno della
sensibilizzazione centrale.
(Woolf, 1983, Wall and Woolf, 1984)
Ci sono in realtà distinte forme di sensibilizzazione centrale al di là della forma classica transitoria
attività dipendente. Queste forme includono cambiamenti LTP-simili, come pure i cambiamenti
trascrizione-dipendenti localizzati e diffusi, nella trasmissione sinaptica del midollo spinale.
PerchØ esiste il dolore, la memoria e la plasticità sinaptica?
Gli organismi viventi devono essere in grado di percepire il loro ambiente vicino per essere in grado
di ritirarsi dal o evitare situazioni potenzialmente pericolose.
Lo sviluppo nelle creature pluricellulari del sistema nervoso – un apparato specializzato per il
rilevamento di un fenomeno e per la reazione agli stimoli esterni – insieme con l'evoluzione delle
proteine specifiche di trasduzione, ha permesso la precisa differenziazione tra stimoli nocivi e
innocui. Questo sistema di preallarme è stato ulteriormente elaborato dallo sviluppo della capacità di
aumentare la sua sensibilità dopo esposizione ad uno stimolo pregiudizievole – cioè la
sensibilizzazione nocicettiva. Questa sensibilizzazione consente le risposte di fuga essendo evocata
prontamente e con una ridotta soglia, proteggendo un organismo ferito da ulteriori lesioni.
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(Walters, 1994)
La persistenza di una maggiore reattività del sistema nervoso dopo un breve stimolo nocivo ha chiari
paralleli con la memoria, dove le informazioni devono essere archiviate e recuperate. La memoria e
la sensibilizzazione nocicettiva condividono comuni meccanismi molecolari, che analizzeremo in
seguito.
Algologia quantistica: dalla fisica newtoniana alla meccanica quantistica
Quindi a dirla come John Searle, nel “Il mistero della coscienza.” Raffaello Cortina, Milano, 1998,
“Il problema piø importante nelle scienze biologiche è quello che fino a poco tempo fa gli scienziati
non consideravano nemmeno un soggetto degno di indagine scientifica il seguente argomento: in che
modo esattamente i processi neurobiologici che avvengono nel cervello causano la coscienza?”.
L’approccio sensoriale al dolore è sicuramente "limitativo" ed il fenomeno dolore non può essere così
semplificato. E' esperienza di tutti i giorni infatti che stimoli dolorosi e lesioni della stessa entità
danno origine a risposte diverse che variano da soggetto a soggetto e, nello stesso individuo, in
momenti e situazioni differenti.
Nella realtà di tutti i giorni è di comune osservazione che fattori non strettamente sensoriali ma
soggettivi individuali, concorrono alla definizione dell'esperienza dolore. E' ormai da tutti ammesso
che fattori emozionali condizionano in maniera significativa la sensibilità al dolore.
Quando abbiamo un alluce rotto, fa male - ma solo perchØ il nostro cervello dice così.
Si ha la sensazione dell’alluce dolente, ma questa esperienza è tutta contenuta all'interno di una
proiezione mentale della condizione dei nostri piedi all'interno del nostro cervello.
L’emergere degli stati di coscienza avviene per integrazione delle informazioni sensoriali (vista,
udito, tatto) fra il cervello cognitivo ed il cervello emotivo.
L’emergere dello stato cosciente si accompagna alla capacità di percepire. (Tiengo, 2007)
Nel caso del dolore, l’integrazione delle informazioni nocicettive talamiche nei circuiti della
coscienza evoca la percezione del dolore, nelle sue due componenti funzionali cognitiva ed
emotiva.(Tiengo, 2008)
A loro volta alterazioni emotive e cognitive possono interferire sulla percezione del dolore (v.
metafora dello specchio). Infatti Ingvar e Petrovich (Karolinska Institute, Stoccolma) recentemente
hanno potuto, con la risonanza magnetica, evidenziare nell’uomo l’esistenza di un secondo
meccanismo con cui gli stati emotivi possono modulare il dolore stimolando il sistema inibitorio
delle afferenze dolorifiche, ossia agendo oltre che sulla fase di percezione anche sulla fase di
trasmissione.
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La neurofisiologia del dolore è facilmente comprensibile finchØ si parla di eventi riconducibili alla
fisica classica, che è quella newtoniana delle evidenze.
Il nostro sistema nervoso è fatto di materia composta da molecole e queste da atomi che, a loro volta,
contengono particelle subatomiche come l’elettrone. I comportamenti degli oggetti di maggior
dimensione (evidenti ai nostri sensi) sono causati dalle proprietà degli oggetti piø piccoli che li
compongono (a noi invisibili).
Per proseguire con efficacia nelle nostre conoscenze sui meccanismi che governano l’interazione
cervello-mente, e quindi aumentare la nostra comprensione dei fenomeni della percezione del dolore
e del suo controllo, l’indagine deve far riferimento al comportamento delle particelle che
costituiscono il substrato della materia vivente, il che significa passare dalla fisica di Newton alla
meccanica quantistica.
Il primo fisiologo a tentare questo è stato John Eccles, premio Nobel (1963) per le sue fondamentali
scoperte sulle sinapsi e sui sistemi inibitori del sistema nervoso.(Eccles, 1992)
Esso rappresenta il primo tentativo di interpretazione quantistica della modulazione “mentale” della
percezione del dolore. Si potrebbe parlare di algologia quantistica.(Tiengo, 2008)
Eccles aveva introdotto l’idea di una “struttura di collegamento” i moduli, attraverso la quale la
mente non sarebbe «in contatto» con i singoli neuroni, bensì con i cosiddetti “dendroni” formati da
gruppi neuronali della neocorteccia, o meglio dalle terminazioni dendritiche di popolazioni cellulari
che si raggruppano insieme.(Pareti, 2010)
Sarebbe la mente stessa a selezionare i moduli con i quali interagire, in uno scambio di impulsi con i
dendroni. Una valida sponda a sostegno di questa concezione si ritrova nella Teoria dei tre mondi
elaborata da Eccles con Karl Popper.(Popper and Eccles, 1977)
¨ qui che interviene il fondamento probabilistico della fisica dei quanti: la probabilità da parte di
un’intenzione mentale di selezionare per l’esocitosi una vescicola già in posizione nella griglia
vescicolare presinaptica nel microsito della membrana, calcolata sulla base del principio di incertezza
di Heisenberg, sarebbe di gran lunga inferiore a 1.
Secondo Eccles, la coscienza si manifesta per mezzo delle intenzioni, e le conseguenti azioni
volontarie si realizzano con l’aumento della probabilità delle emissioni vescicolari in migliaia di
sinapsi tra le cellule corticali.
Interpretando il “dolore come sistema complesso” si supera il modello biomedico fondato sulla
causalità lineare, responsabile della contrapposizione tra dolore somatico e dolore psicogeno. In sua
vece si invoca il principio probabilistico che individua il dolore in termini di “eventi” che possono
assumere funzioni d’onda, variabili nel tempo, e «la cui configurazione morfo-funzionale presenta
una probabilità di evenienza, contingente nel tempo».
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Alla visione “duale” (dolore somatico/dolore psicologico) si sostituirebbe pertanto una diagnostica
per probabilità, attenta alle posizioni intermedie delle varie forme algiche. Piø che il sintomo
doloroso, ora interessa la relazione “paziente che-soffre”, che si articola come un sistema di
molteplici componenti, dalla percezione alla comunicazione dello stato.
Per arrivare all’interpretazione del dolore come sistema complesso alcuni neurofisiologi hanno
rivisitato l’idea del sistema nervoso centrale quale “neurocaos”, elaborata da Walter Freeman, oltre
due decenni fa. Questo modello era esprimibile matematicamente nei termini di una collezione di
attrattori caotici, nel senso che l’attività era paragonabile a quella di un sistema dinamico che evolve
verso un attrattore, cioè verso una porzione dello spazio dove convergono le sue traiettorie, ma che in
questo caso ha una struttura “strana”, irregolare. Passando dal modello alla struttura biologica,
Freeman ipotizzava che il processo percettivo corrispondesse a un brusco cambiamento o “balzo
esplosivo” del sistema dinamico dal “bacino” di un attrattore a quello di un altro.
E da quel momento non solo il caos è parso come «un possibile codice neuronale» a spiegazione
delle funzioni corticali, ma l’ipotesi dei sistemi dinamici non lineari ha cominciato ad applicarsi
anche alla trattazione di malattie “dinamiche”, quali l’epilessia e altre patologie cerebrali, arrivando a
comprendere il dolore.(Pareti, 2010)
All’intersezione tra l’elaborazione degli stimoli esterni e interni si collocherebbe quel differenziale
di probabilità quantistica”, che riorganizza il dolore come un sistema circolare a partire dal momento
percettivo, cui fanno seguito la sofferenza e il comportamento del dolore e infine la comunicazione.
Omeostasi e dolore
Nell’ambito di un contesto evolutivo è stato proposto il modello dell’omeostasi nel quale il nucleo
ventrale mediale posteriore (VMpo) e il suo bersaglio corticale parieto- insulare (la corteccia
interocettiva) sono attivi in risposta a tutte le sensazioni provenienti dall'interno del corpo legate al
suo stato di salute, come se fosse una rappresentazione interna dello stato fisiologico del corpo.
L'omeostasi è un processo dinamico responsabile del mantenimento dell' ottimale equilibrio
fisiologico(Cannon, 1929).
Gli stati comportamentali (sonno, eccitazione, insonnia, attenzione, vigilanza, ritmo circadiano)
determinano quale equilibrio ' omeostatico ' dovrebbe essere raggiunto. I processi cognitivi e
affettivo–emozionali modulano e, a volte, avviano il comportamento ' omeostatico '. (Carli, 2009)
Tutte le specifiche informazioni relative alla condizione del corpo e dello stato fisiologico dei vari
tessuti vengono convogliate al midollo spinale da fibre afferenti primarie di piccolo diametro (A delta
e C) ( Figura 5).
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Figura 5. (Carli, 2009)
La coordinata attivazione delle tre sezioni, sistema motorio - somatico, autonomo e neuroendocrino è
integrata con le rappresentazioni sensoriali del corpo ed è responsabile della generazione del
comportamento. L'integrazione avviene ai tre livelli principali, il midollo spinale, tronco encefalico e
l'ipotalamo.
Secondo questo modello, lo squilibrio omeostatico, e quindi il dolore, provoca reazioni di difesa
veloci e lente.
Figura 6.(Carli, 2009)
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La reazione veloce è caratterizzato da un incremento della vigilanza, della frequenza cardiaca, della
pressione del sangue e del flusso di sangue degli arti, ed è organizzata dai sistemi dell’ asse
ipotalamo-mesencefalico e ipotalamo-ipofisi-surrene (Figura 6). Questi meccanismi, attivati dalla
corteccia prefrontale mediale, sono responsabili di reazioni centralizzate incluse analgesia non
mediata da oppioidi e il comportamento di evitamento.
Tali meccanismi lavorano attraverso l'azione sinergica delle colonne dorsolaterale e laterali della
Materia Grigia Periacqueduttale (PAG) del mesencefalo e del sistema nervoso simpatico.
La risposta lenta di difesa è caratterizzata dal recupero e dalla guarigione dei tessuti, quiescenza,
ridotta frequenza cardiaca e attività vasomotoria a causa della prevalenza parasimpatica, e della
analgesia mediata da oppioidi, originando dalla corteccia prefrontale orbitale che attiva il PAG
ventrolaterale.
I due sistemi PAG hanno connessioni reciproche e attivano il midollo ventromediale e del tegmento
pontino dorsolaterale generando iper o ipoalgesia, secondo la strategie di gestione del corpo in senso
attivo e passivo in grado di contrastare lo squilibrio omeostatico provocato dai fattori di stress
psicologici o fisici.(Heinricher et al., 2009, Heinricher and Ingram, 2008)
I livelli ormonali rappresentano una parte rilevante del risposta al dolore insieme con la risposta
immunitaria, il cui funzionamento bidirezionale cervello - sistema immunitario -cervello è modulata
dall’attività del sistema autonomo ed endocrino.
Il sistema immunitario è in grado di informare i sistemi di difesa nel cervello per mezzo delle
citochine attraverso gli organi circumventricolari, per mezzo dei neuroni afferenti vagali e del nucleo
del tratto solitario (Figura 7).
Figura 7.(Carli, 2009)
Il cervello, a sua volta, modula la reattività del sistema immunitario, principalmente attraverso i
centri di controllo simpatico del tronco cerebrale e il sistema ipotalamo- ipofisario.