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parte finale una certa ottimistica ingenuità ed esagerando il ruolo dei genitori, visti come
persone che devono rendere il rapporto dei figli con le loro lingue felice e divertente (in
figurativamente un “luna-park” linguistico), mette l’accento su alcune componenti
fondamentali per l’educazione linguistica. Secondo Baker nell’educazione di figli bilingui i
fattori fondamentali non sono di natura strettamente linguistica, bensì di natura sociale e
interazionale. Il successo del bambino, infatti, dipende dalla sua percezione della necessità,
dal suo interesse e di conseguenza dal piacere che prova nell’imparare le diverse lingue;
nonché dalla possibilità di poterlo fare (è chiaro che in questo senso i genitori e l’ambiente
giocano un ruolo essenziale). È difficile dire quali siano esattamente tali “condizioni
sufficienti”, ma un aspetto da non sottovalutare è proprio quello del rapporto tra le lingue e il
loro peso relativo, in quanto entrambe le lingue devono avere una presenza costante e
sistematica nella vita del bambino.
Anche se molti individui definiti “bilingui naturali” hanno acquisito le due o più
lingue che conoscono prima o fuori dell’ambiente scolastico, non bisogna trascurare il fatto
che in moltissimi casi (particolarmente numerosi in un’epoca di migrazioni, di
globalizzazione nelle comunicazioni e nell’economia) la possibilità di un individuo di
apprendere una o più lingue diverse dalla propria lingua nativa, e la possibilità di essere
alfabetizzati in più di una lingua e di poter studiare in più di una lingua, dipendono
primariamente da scelte di pianificazione linguistica, che derivano a loro volta da scelte di
tipo sociopolitico ed economico delle società, come per esempio le società europee
occidentali che per millenni hanno imposto un’unica visione monolingue. La pianificazione
linguistica si muove, di solito, tra il polo dell’omologazione e dell’assimilazione e quello
della differenziazione (e del mantenimento d’identità e culture diverse, seppur a contatto). Si
ha un chiaro esempio di tale pianificazione, nella politica linguistica seguita dagli Stati Uniti
che, fino agli anni Cinquanta, ammetteva l’insegnamento solo in lingua inglese, perseguendo
il fine dell’assimilazione culturale di chi proveniva da altri paesi; la situazione è mutata tra la
fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta: nel 1974 una legge sancì il diritto per
ogni bambino di essere scolarizzato anche nella propria lingua madre. Le misure adottate in
questa direzione hanno portato a un’ampia diffusione dello spagnolo in particolare nel sud
degli Stati Uniti. La conseguenza è una forte ostilità da parte della popolazione anglofona: c’è
addirittura chi vede nel bilinguismo un fattore che ha ostacolato e ostacola tuttora,
l’integrazione degli ispanici negli Stati Uniti. Questo dimostra come la pianificazione
linguistica ha cause e scopi extralinguistici, ma essendo una scelta che tocca l’identità
personale e sociale, oltre agli interessi materiali dell’individuo e della comunità, può spesso
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risultare controversa. È chiaro che il bilinguismo individuale, considerato come un fenomeno
intrinseco al singolo individuo o a poche situazioni particolari, appare innocuo e vantaggioso,
ma può diventare, e lo è di fatto diventato, uno scottante problema politico e sociale che
riguarda il rapporto tra diverse comunità.
L’educare un individuo al bilinguismo e al biculturalismo (o plurilinguismo e
pluriculturalismo) è prima ancora che una scelta linguistica e culturale, una scelta politica e
sociale, che contrassegna il senso di appartenenza o meno di una comunità o di un individuo a
una comunità più ampia. Una scelta che può aggiungere o sottrarre prestigio a una lingua
piuttosto che a un’altra (e di conseguenza al gruppo che la parla), che è indice di alleanze e
comunanza di culture (in questo senso si muovono le politiche dell’Unione Europea nel
quadro del previsto plurilinguismo e l’interesse dell’UNESCO relativamente
all’insegnamento delle lingue straniere a scuola). Educare un bambino con due o più lingue
contemporaneamente non è semplice al giorno d’oggi. Nonostante si dica il contrario, si sente
parlare spesso nella nostra società, in cui il monolinguismo è la norma e lo sviluppo
linguistico monolingue serve come modello per genitori e operatori d’infanzia, di confusione,
ritardo e mescolanza tra le lingue (questi gli stereotipi più diffusi).
Un problema che paradossalmente si viene a creare sia per l’individuo sia per la
società è il rapporto, non sempre simmetrico, tra il bilinguismo e il biculturalismo. Da una
parte è chiaro che l’apprendimento e l’utilizzo di una lingua comporta, almeno in una certa
misura, di venire a contatto con la cultura che in quella lingua si esprime: la lingua organizza
la realtà, dunque parlare una lingua significa in qualche modo interiorizzare una particolare
visione del mondo, una modalità di concettualizzazione che certamente non è identica in tutte
le lingue. Questo è appunto il problema delle minoranze linguistiche, che rischiano la
standardizzazione, se la lingua della maggioranza diventa anche per loro dominante, e di
essere di conseguenza assimilate anche nei loro peculiari aspetti culturali. Tuttavia essere
“bi/multiculturale” è proprio come l’essere bilingue un fenomeno continuo e non discreto.
Tendenzialmente chi è biculturale è in grado di identificare e comprendere atteggiamenti,
opinioni, valori appartenenti a più di una cultura. Dovrebbe quindi anche essere in grado di
comprendere più facilmente come il conflitto o lo shock culturale, che spesso si crea quando
diverse culture entrano in contatto, dipende appunto da una erronea assolutizzazione di punti
di vista, che sono invece relativi. Quindi, ci si chiede i bambini bilingui e biculturali saranno
gli adulti tolleranti e aperti alla differenza della società di domani? Sicuramente un individuo
bilingue, per utilizzare al meglio la risorsa data proprio dalla “diversità”, deve
contemporaneamente sviluppare competenze interculturali, tali da permettergli di sentirsi a
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proprio agio in una situazione comunicativa, in cui si usano lingue diverse dalla propria, e di
svolgere attività cognitivamente complesse in più lingue: insomma dovrà essere capace di
“pensare in più lingue” (Grosjean; 1982).
Questo potrà effettivamente realizzarsi solo se ci sarà una reale volontà politica che
incoraggi il mantenimento delle altre lingue native, oltre all’italiano, e ciò in applicazione
della Dichiarazione Universale dell’UNESCO sulla diversità culturale. Essa stipula che “ogni
persona ha diritto a un’educazione e una formazione di qualità, che rispettino pienamente la
sua identità culturale”
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. Dispiace constatare che sebbene oggi il pregiudizio fondato
sull’equazione una lingua = un popolo = un’identità nazionale è percepito solo come un
ostacolo alla comprensione del comportamento linguistico dei parlanti e dei meccanismi di
evoluzione della lingua. Tali pregiudizi legati al nazionalismo linguistico della storia italiana,
continuano ad essere denunciati sia da notevoli convegni internazionali, sia dalle risoluzioni
ufficiali dell’Unione Europea. Tuttavia la diffusione di credenze popolari circa il rapporto tra
lingua e società non è ancora trascurabile. È sorprendente come il paese che fino a ieri aveva
goduto e al tempo stesso sofferto per la presenza di una così ricca varietà di lingue e dialetti
all’interno dei propri confini nazionali (un paese da cui sono partite comunità di emigrati fra
le più numerose al mondo) abbia fatto ancora così poco per educare a capire e a rispettare la
diversità di quanti oggi crescono con una lingua diversa da quella della tradizione nazionale.
Tutte le questioni che ruotano sul rapporto conflittuale tra lingua, società ed
educazione linguistica in Italia interessano principalmente tre categorie di professionisti: i
linguisti che cercano di trovare soluzioni sul piano teorico, i politici che devono prendere
decisioni programmatiche per potersi allineare alle direttive dell’Unione Europea, che è oggi
alla ricerca di interventi più omogenei di politica comunitaria, e gli insegnanti che operano
quotidianamente nel mondo della scuola. Dai loro osservatori si è cominciato a guardare con
interesse alle migliori soluzioni linguistiche, scolastiche e sociali di tutti quei paesi che già da
tempo hanno sviluppato un’esperienza di convivenza civile tra gruppi etnolinguistici diversi.
Inoltre bisogna sottolineare come la varietà di lingue e culture minoritarie che appartengono
alla storia nazionale è ancora molto ricca, anche se queste non sono mai state rette da politiche
pluraliste; viceversa a questa eterogeneità interna si è sempre opposta una forte tendenza
centralista, che solo da qualche tempo sembra più mitigata da un impegno più attento ai
cittadini e al territorio. Le lingue parlate attualmente in Italia dovrebbero essere valorizzate,
anziché essere sacrificate in favore del monolinguismo.
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http://www.unesco.org
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Questo elaborato si propone di affrontare a grandi linee tutte queste questioni,
cercando di analizzare le problematiche più complesse e di smontare i pregiudizi più diffusi
che spesso oscurano quella affascinante e complessa condizione di bilinguismo che è tipica di
chi, da bambino o da adulto, impara a vivere con due lingue diverse.
Le fonti su cui si basano le osservazioni del presente elaborato sono materiali
bibliografici provenienti da diverse discipline (linguistica generale, linguistica acquisizionale,
psicolinguistica, sociolinguistica, neuropsicologia) che hanno affrontato l’argomento con
strumenti, metodologie e punti di vista differenti.
Nella prima parte di questo lavoro si presentano il fenomeno del bilinguismo e le
numerose definizioni/classificazioni che sono state elaborate allo scopo di disaminare la
naturale variabilità del fenomeno. A tale scopo vengono descritte le differenze tra bilinguismo
sociale, caratterizzato dalla compresenza di due lingue in una società, e bilinguismo
individuale, ovvero la compresenza di due lingue nella stessa persona, che è stato trattato in
maniera più approfondita. In seguito si analizzano i gradi di competenza individuati nel
soggetto bilingue e i fenomeni linguistici che possono scaturire dal contatto tra due lingue,
nello specifico: l’alternanza di codice o code-switching e l’interferenza.
La seconda parte dell’elaborato presenta lo sviluppo del linguaggio nel bambino
bilingue; si affronta inizialmente il processo di acquisizione del linguaggio umano con le
relative ipotesi che si sono susseguite tra gli specialisti. Poi si descrivono le diverse tipologie
di bilinguismo che scaturiscono al variare di alcuni fattori quali: l’età di esposizione alle due
lingue, la frequenza e il tipo di input linguistici, il contesto e le modalità di esposizione che
distinguono nettamente l’acquisizione dall’apprendimento. Sono state, infine, analizzate le
due forme di bilinguismo precoce che derivano dall’ordine di acquisizione delle due lingue: il
bilinguismo precoce simultaneo e il bilinguismo precoce consecutivo. Si è considerato degno
di trattazione anche il tanto discusso tema dell’esistenza o meno del cosiddetto “periodo
sensibile”, che vede nel fattore età delle barriere responsabili di differenze fondamentali nei
processi di acquisizione della prima lingua, rispetto all’apprendimento tipico di lingue
seconde con le relative fasi di fluttuazione tipiche del grado di competenza bilingue.
La terza e ultima parte del lavoro mette in luce la percezione sociale del
bilinguismo e del soggetto bilingue in una società governata essenzialmente dal
monolinguismo. In tal modo si analizzano le differenze e la analogie esistenti tra soggetti
bilingui e monolingui dal punto di vista cognitivo, linguistico e sociale, basando il confronto
su diverse ipotesi anche discordanti. Si è cercato di portare alla luce gli stereotipi e i luoghi
comuni che sono stati legati nel corso degli anni (specialmente da persone che guardano il
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fenomeno con occhi da monolingue) alla persona bilingue soprattutto a livello linguistico, e
scomporre la loro infondatezza scientifica, per giungere ad elencare, i numerosi vantaggi e le
ovvie opportunità che si possono trarre da tale condizione. È stata data maggiore enfasi al
caso italiano della convivenza pacifica, ma allo stesso tempo molto improvvisata, di lingue e
varietà di lingua differenti, che richiede invece un maggiore impegno da parte della classe
politica e delle istituzioni scolastiche alla collaborazione. Lo scopo di tale cooperazione
dovrebbe puntare ad instaurare le condizioni necessarie ai soggetti bilingui, immigrati o
meno, per lo sviluppo armonioso e il mantenimento della loro diversità linguistica e culturale.
Partendo dal presupposto che lo studio del fenomeno “bilinguismo” comprende diversi
aspetti, da quelli più ampi, di tipo sociolinguistico, a quelli più strettamente linguistici,
imperniati sugli effetti che il contatto fra lingue provoca, a quelli relativi alle forme
individuali nel quale tale condizione si manifesta. Il presente lavoro può essere considerato
una prima base teorica per un progetto di ricerca empirica futuro, che miri a mostrare
attraverso un’analisi qualitativa longitudinale su bambini bilingui, alcuni esempi
rappresentativi di un riuscito bilinguismo individuale, malgrado le difficili condizioni date
dall’ambiente circostante.