INTRODUZIONE: IL TIROCINIO AL NIDO “CARLA
LEVATI” E LE INTERVISTE AI GENITORI
STRANIERI Ho scelto questo argomento per la prova finale perché durante il tirocinio,
che ho svolto nel periodo che va dal novembre 2007 al marzo 2008 presso
il Nido Comunale “Carla Levati” di Seriate, in provincia di Bergamo, oltre
ad osservare e partecipare alle attività del nido, ho avuto modo di venire a
contatto con la realtà della forte presenza di figli di immigrati nel territorio.
Questo tema da tempo mi suscitava da tempo un forte interesse: volevo
osservare l’integrazione degli stranieri in una istituzione educativa locale.
Nel nido sono presenti bambini stranieri in una percentuale di circa il 20%
del totale dei bambini: essi sono tutti nati in Italia, a Bergamo, o nella
stessa Seriate, che è provvista di un ospedale. Sembra prevalere tra gli
educatori la tendenza a considerare i bimbi del nido come tutti uguali,
senza fare discriminazioni, rapportandosi con loro con attenzione e
disponibilità, ma viene forse un po’ a mancare la valorizzazione delle
diverse culture di provenienza.
Durante il tirocinio ho intervistato con interviste semi-strutturate i genitori
stranieri in merito alla lingua che parlano a casa con i loro figli.
L’intervista semi-strutturata consente di focalizzarsi su determinati
argomenti, senza però rimanere rigidamente vincolati allo schema
domanda-risposta. Le domande, che hanno una forma piuttosto aperta,
possono stimolare un argomento collaterale, ma nel contempo, essendo
focalizzate sul tema della lingua, e non ad esempio su un tema più generico
come quello dell’esperienza dell’integrazione nella società italiana,
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consentono di evitare risposte che possano andare al di fuori della ricerca e
sconfinare in una narrazione troppo dispersiva.
Ho svolto le interviste con l’utilizzo di un piccolo registratore, dopo aver
garantito ai vari intervistati il rispetto dell’anonimato.
E’ risultato che quasi tutti parlano la loro lingua d’origine con i figli,
magari non sempre, non in tutte le situazioni. In ogni caso, questi genitori
hanno il desiderio e l’intenzione di comunicare con i figli nella loro lingua.
Ho interpretato questa loro scelta come una volontà di conservare la loro
identità, pur con la speranza, allo stesso tempo, soprattutto per i figli, di una
buona integrazione in Italia. Alcuni di loro inoltre hanno sottolineato che,
se il loro figlio impara la loro lingua materna, durante la visite in patria,
potrà comunicare con i parenti; c’è anche chi sembra che aver lasciata
aperta la prospettiva di un eventuale ritorno al paese d’origine.
Si tratta di genitori di età compresa fra i 25 e i 40 anni, che si trovano in
Italia già da qualche anno, e che si sono rivolti al nido, oltre che a causa
delle loro esigenze lavorative, anche in seguito a un atteggiamento di
fiducia verso le istituzioni educative italiane, che considerano in genere
migliori rispetto a quelle dei loro paesi.
Gli intervistati sono:
• una mamma albanese, il cui marito è albanese • una mamma ungherese, il cui marito è italiano • una mamma boliviana, il cui marito è boliviano • una mamma ucraina, il cui marito è ucraino • una mamma palestinese, il cui marito è egiziano • una mamma etiope, il cui marito è etiope • una mamma romena, il cui marito è italiano • un papà boliviano, la cui moglie è boliviana 4
• una mamma albanese (nucleo monoparentale)
• una mamma romena, il cui marito è italiano
Le domande poste sono:
• da quanto tempo sei in Italia?
• quale lingua parli con tuo figlio a casa?
• quale lingua parli con i tuoi connazionali?
Queste interviste mi hanno stimolato il desiderio di approfondire, nella
prova finale, il discorso del bilinguismo nei figli di immigrati. Nella scelta
dell’argomento, oltre al mio interesse verso i temi dell’immigrazione, ha
giocato un notevole ruolo il fascino che il linguaggio e le sue regole hanno
da sempre esercitato su di me.
QUESTIONI EMERSE DALLE INTERVISTE: I genitori intervistati in generale non sembrano preoccupati del fatto che il
bambino debba imparare due lingue, perché pensano che l’apprendimento
di due lingue, a pochi mesi di vita, avvenga in modo naturale e automatico.
Anzi, alcuni vedono il bilinguismo come un fattore positivo.
Fa eccezione Z., la mamma di N., un bambino albanese di circa 2 anni, la
quale ha un altro figlio che ora va alla scuola materna, e che ha fatto un po’
fatica ad iniziare a parlare: sembra essere leggermente in ansia per quanto
riguarda l’apprendimento delle lingue da parte dei figli, e non sa bene quale
lingua sia meglio parlare con loro. Sembrerebbe orientata a parlare in
italiano con i figli e in albanese con il marito e con i connazionali.
Non c’è grande desiderio di parlare con la figlia la lingua materna anche in
una delle due mamme rumene, che sono entrambe sposate con italiani. V.,
che ha circa 25 anni, ed è in Italia da 5, parla benissimo l’italiano e dice di
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non parlare il romeno a casa. All’inizio aveva pensato di parlarlo con la
figlia, che ora ha circa 3 anni, ma poi ha rinunciato, forse per timore di
escludere dalla conversazione il marito, che non parla il romeno: “Per me è
difficile… dovrei parlare due volte, dovrei dire le cose due volte, una per
mio marito e un’altra…”. Questa signora non parla il romeno neanche con i
suoi connazionali: ormai le viene più “naturale” parlare in italiano, e ha già
dimenticato alcune parole romene.
Tra l’altro, ho notato che sua figlia ha già acquisito un notevole numero di
vocaboli italiani.
L’altra signora romena, S., di circa 35 anni, in Italia da circa 7, ha anch’essa
acquisito un ottimo italiano. In famiglia parla in genere l’italiano, anche
perché l’altra sua figlia, che va alle medie, ora parla in italiano. Però con la
piccola, P., che frequenta il nido e ha circa 2 anni, nei momenti di maggiore
intimità, come per esempio quando la fa addormentare, “chiacchiera” in
romeno; dice che le ha insegnato nella sua lingua i nomi degli animali.
Inoltre le sembra che, quando parla in romeno con sua mamma al telefono,
la bimba capisca, e percepisca il tono più dolce che acquista la sua voce.
Anche lei ha dimenticato alcuni vocaboli romeni, ma con i suoi
connazionali parla in romeno.
L., la mamma di un bambino ucraino di 14 mesi, in Italia da quasi 6 anni,
ha risposto che a casa, con il figlio, sia lei che il marito parlano in ucraino,
e anche un po’ in russo, lingua leggermente differente dall’ucraino. Dei
due, soprattutto L. conosce il russo in modo approfondito. Per quanto
riguarda l’italiano, pensa che il bimbo lo apprenderà automaticamente,
grazie al fatto che ha iniziato a frequentare il nido da qualche mese. L. con i
suoi connazionali parla in ucraino, e pensa che nello stesso tempo sia
importante che anche lei e il marito imparino bene l’italiano, per una
migliore integrazione e per una forma di rispetto verso la cultura italiana.
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La mamma di E., un bambino boliviano di circa un anno, è arrivata nel
nostro Paese 6 anni fa e sembra molto motivata a parlare con il piccolo solo
in spagnolo, forse anche perché sta notando che l’altro suo figlio di 14 anni,
che è arrivato in Italia quando ne aveva 10, ora non ricorda più delle parole
in spagnolo. Con i connazionali parla in spagnolo.
Il papà di G., un piccolo boliviano di circa 2 anni, è immigrato 5 anni fa.
Con G. parla in spagnolo, o meglio, come ha specificato, in castigliano, e
anche un po’ in italiano. Gli fa inoltre vedere dei dvd in spagnolo, ma ha
osservato, per quanto riguarda i cartoni animati, che G. preferisce vederli in
italiano. La lingua parlata con i connazionali è lo spagnolo.
La mamma di N., che è palestinese, ha sposato un egiziano, il quale
conosce anche l’inglese e il francese. E’ in Italia da 5 anni. Anche lei
conosce l’inglese. Con la figlia di circa 2 anni parlano in arabo; hanno
intenzione di insegnarle anche l’inglese.
La mamma di B., una bambina etiope di circa 2 anni e mezzo, è immigrata
6 anni fa. Parla con la piccola nella sua lingua nazionale, l’amharico, ma
B., pur capendo quello che le dice, le risponde in italiano.
J., un’ungherese che è in Italia da 13 anni e che ha sposato un italiano,
parla molto bene l’italiano. A differenza delle due mamme romene, e della
mamma albanese, ha una forte consapevolezza dell’importanza della
propria lingua materna. Mi ha spiegato che l’ungherese discende dallo
stesso ceppo linguistico del finlandese, anche se poi nel corso dei secoli
queste due lingue si sono notevolmente differenziate. La lingua ungherese
ha subito l’influsso del turco, del russo e del tedesco. Da quando suo figlio
A. è nato, per i primi 14 mesi gli ha sempre parlato in ungherese, eccetto
quando era presente anche il marito, che non conosce questa lingua. Ha il
desiderio che A. impari la sua lingua, ma vuole che questo avvenga senza
forzature. A 14 mesi il bambino ha iniziato a frequentare il nido, e la
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mamma per un periodo, anche a causa del minor tempo che passava da sola
con lui, non parlava quasi più in ungherese con lui. A questo punto si è
accorta che il piccolo aveva fatto notevoli progressi in italiano, ma era
rimasto fermo a pochi vocaboli in ungherese: allora ha ricominciato a
parlargli nella sua lingua materna, e ora A., a circa 3 anni, riesce a dire
qualche frase in ungherese, oltre, come io stessa ho notato, ad esprimersi
con chiarezza in italiano. J. mi ha detto che il piccolo è molto interessato
all’ungherese, e al fatto che una stessa cosa si possa dire in due modi
diversi. Forse addirittura in futuro il bimbo insegnerà l’ungherese a suo
padre… Questa famiglia fa diverse visite in Ungheria, ai parenti di J.,
garantendo così ad A. un’ulteriore e significativa possibilità di crescere
bilingue. Inoltre il bambino dimostra un vivo interesse per le favole e i
libretti per la sua età.
Infine, la mamma di A., una bimba albanese di circa 2 anni, in Italia da 6
anni, parla con la figlia in albanese e anche un po’ in italiano. Sembra che
A. capisca entrambe le lingue.
Tutti gli intervistati, a parte la signora romena, parlano con i loro
connazionali nella lingua materna.
La mamma di E., la signora boliviana, sembra aver perfettamente capito
quanto sia importante parlare in spagnolo con il figlio, affinché questi
mantenga la sua lingua d’origine.
Il caso di B, la bambina etiope, sembra dimostrare che il fatto di
frequentare il nido e di trascorrere diverse ore a contatto con un ambiente
dove si parla la lingua italiana porti, già all’età precoce di 3 anni, a una
certa predominanza della seconda lingua sulla prima. Forse questo
atteggiamento può essere dettato dal tentativo di conformarsi alla
maggioranza italiana. Questa situazione, che in base alle concezioni del
passato poteva essere considerata positiva (in quanto si riteneva che
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favorisse l’apprendimento della L2), è invece oggi considerata molto
critica, come nel corso di questo lavoro cercherò di dimostrare.
Il bilinguismo nei figli di coppie miste: Il caso delle due mamme rumene sembra essere legato al forte investimento
affettivo che esse hanno attivato nel momento in cui si sono legate ai propri
partner italiani, creando con loro una famiglia.
Inoltre entra in gioco anche la difficoltà del coniuge immigrato, all’interno
della coppia mista, di affermare l’importanza della sua lingua materna,
soprattutto se essa non gode di prestigio internazionale, a differenza ad
esempio dall’inglese.
Elisabeth Deshays è una studiosa inglese che ha sposato un francese e tratta
nel suo libro “Come favorire il bilinguismo dei bambini” della propria
esperienza personale (ha tre figli che sono bilingui); inoltre espone i
risultati di una ricerca svolta intervistando più di 100 persone provenienti
da 15 Paese diversi. Deshays pensa che il principio secondo il quale una
madre può stabilire un rapporto autentico con i figli solo tramite la propria
lingua materna sia sicuramente valido; tuttavia, nel caso in cui essa si senta
perfettamente a suo agio con la sua seconda lingua, può utilizzare
quest’ultima nella relazione con i figli. L’importante è che riesca ad
esprimere spontaneamente i suoi pensieri e i suoi sentimenti nella seconda
lingua, con una comunicazione sciolta, naturale e corretta.
Questo sembra essere il caso di alcuni genitori stranieri di coppie miste.
Invece, secondo questa autrice, il genitore straniero di una famiglia
bilingue, se vuole favorire il bilinguismo del bambino, deve parlargli nella
propria lingua fin dalla nascita, altrimenti questi non parlerà mai la sua
lingua. “Non c’è ombra di dubbio: in una coppia mista il partner “straniero”
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che desidera che il figlio parli due lingue e che le conosca a fondo deve
parlargli con la lingua “straniera” fin dall’inizio. L’abitudine e il bisogno,
se sono stabiliti fin dalla nascita, non possono essere sradicati”. A
differenza del figlio di genitori immigrati della stessa nazionalità, quello di
una coppia mista “non diventa automaticamente bilingue; infatti sono
indispensabili la volontà e la determinazione del genitore straniero e
l’atteggiamento ben disposto e positivo del genitore autoctono”.
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Solitamente nelle coppie miste è la donna che abita nel paese d’origine del
marito, anche se negli ultimi anni si verifica anche il caso opposto. Qualora
il coniuge autoctono capisca, ma non padroneggi perfettamente la lingua
del partner, preferirà usare la propria lingua con il figlio, e di conseguenza,
quando sono assieme tutti e tre, ciascun genitore parlerà nella propria
lingua madre. “Nella maggior parte dei casi il bambino molto piccolo inizia
a parlare la lingua della madre (con cui passa la maggior parte del tempo);
poi, quando va all’asilo o a scuola, predomina la lingua del padre, quella
del paese in cui vive”.
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La situazione è diversa se il genitore che vive nel proprio paese non
conosce la lingua del coniuge: c’è il rischio che venga escluso dalla
conversazione fra il coniuge e il figlio, con conseguenze negative di
frustrazione e di estromissione dall’educazione.
In questo caso il genitore straniero deve evitare di parlare nella propria
lingua, oppure può provare ad insegnarla anche al coniuge; quest’ultima
soluzione è molto consigliata da Dehays, in quanto rappresenta per il
genitore la possibilità di imparare la nuova lingua giocando, cantando e
chiacchierando.
1
Deshays E., “Come favorire il bilinguismo dei bambini”, p. 85-87
2
Ibidem, p. 88
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Una teoria che viene considerata valida per le coppie miste che vogliano
favorire il bilinguismo dei figli è quella di “una lingua per persona”,
formulata da Grammont all’inizio del ‘900: il padre e la madre dovrebbero
parlare al bambino esclusivamente nella propria prima lingua. Questa teoria
non deve però essere considerata come un dogma. Infatti, una deroga a
questo principio è rappresentata dalle situazioni a tre sopra descritte, nelle
quali il genitore straniero, se il coniuge non capisce la sua madrelingua,
deve evitare di parlarla. Altre eccezioni possono essere la presenza di
compagni di gioco autoctoni, o di membri della famiglia del coniuge. C’è
inoltre da considerare un fattore molto delicato: i bambini hanno spesso un
forte conformismo, desiderano adattarsi il più possibile all’ambiente
circostante, in quanto sanno di non poter controllare il proprio universo.
Tutti i genitori intervistati da Deshays hanno riscontrato che prima o poi il
bambino cerca di negare, o di nascondere la sua conoscenza della lingua
straniera, “per non sembrare diverso dagli altri bambini”.
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Questa fase dura
a volte fino ai 9 anni, mentre in alcuni casi si prolunga fino all’adolescenza.
Comunque, quasi sempre, quello che prima era motivo di imbarazzo e di
vergogna diventa fonte di orgoglio, arricchimento e fiducia in sé.
Fino a che il bambino non inizia a frequentare l’asilo o la scuola, la lingua
che parla solitamente è quella della madre, o della figura di riferimento.
Con la scolarizzazione le cose cambiano: il bisogno di comunicare con gli
altri bambini diventerà sempre più forte, e di conseguenza la lingua
materna perderà il suo ruolo predominante.
Si verifica allora di frequente il cosiddetto “dialogo bilingue”: il genitore
straniero parla la propria lingua al figlio, che la capisce, ma risponde nella
lingua locale. Questa forma di comunicazione permette di conservare il
bilinguismo. Il genitore deve avere la pazienza e la costanza di continuare a
3
Ibidem, p. 96
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