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alle imprese un cambiamento culturale, un cambiamento cioè
degli assunti e dei valori fondamentali che ne orientano le scelte.
La direzione di questo cambiamento può essere tradotta in una
locuzione: responsabilità sociale, dal latino responsare, cioè
rispondere.
La risposta alle attese dei propri dipendenti, in primo luogo, è
la fonte di una sempre crescente integrazione lavorativa e, di
conseguenza, della diffusione di una cultura socialmente
responsabile all’interno delle organizzazioni. Ecco perché
l’approccio culturale allo studio delle organizzazioni è il più
appropriato quando si parla di responsabilità sociale.
Gli studi di management sulla responsabilità sociale si
possono indirettamente far risalire agli anni venti, con la scuola
delle Relazioni Umane, che ha sottolineato l’importanza dei
fattori intangibili sul rendimento dei lavoratori, cioè tutti quegli
incentivi non economici, dalle condizioni di lavoro alla
possibilità di costruire relazioni sociali, che aumentano la
prestazioni lavorative e l’integrazione lavorativa. Questi studi
hanno messo in risalto la dimensione informale e soggettiva
delle organizzazioni, che si costruisce sulla base di percezioni,
relazioni e attribuzioni di senso. Weick, negli anni settanta, è
colui che descrive in modo più dettagliato come le persone diano
un senso a ciò che vivono, attraverso i processi di sensemaking.
E’ solo attribuendo senso, e cioè dando valore alla realtà, che è
possibile costruire una cultura comune, sulla base di esperienze
condivise. Schein, Gagliardi, Abravanel, e altri scienziati
dell’organizzazione, fra gli anni settanta e ottanta, hanno dato
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una definizione precisa di cultura e ne hanno descritto i processi
di costruzione
Il bilancio sociale è «un rapporto che l’impresa realizza, dopo
aver effettuato la valutazione in termini quantitativi e qualitativi
di una serie di indicatori scelti, attraverso il quale rendiconta ai
vari portatori di interesse se e come abbia raggiunto determinati
obiettivi» (Sartori, 2002, pag. 38-47). Il bilancio sociale è quindi,
uno strumento di comunicazione trasparente degli investimenti
previsti nei confronti della gestione delle risorse umane, del
rapporto con i fornitori, con gli azionisti, la società civile e
l’ambiente. Come tale, il bilancio sociale può diventare un
supporto fondamentale nella creazione e diffusione di una
cultura organizzativa socialmente responsabile. Il nodo critico
risiede nell’uso che viene fatto di questo strumento. L’azienda
rischia di ridurlo a una semplice strategia di marketing, che
migliorerebbe l’idea che la società ha dell’impresa e
dell’imprenditore ma che ne snaturerebbe le finalità. Solo grazie
a un cambiamento culturale e alla creazione di condivisione
valoriale interna, è possibile aggirare questo rischio e fare
dell’impresa un attore realmente sensibile all’impatto sociale
della sua attività globale.
Questo elaborato descrive come il nuovo scenario economico
mondiale e i processi di cambiamento delle organizzazioni le
abbiano condotte alla necessità di rivolgersi ai loro stakeholder
in modo responsabile. Ci si propone di studiare questi fenomeni
dal punto di vista della sociologia economica e
dell’organizzazione, in particolar modo utilizzando come
approccio quello culturale. Infine, come punto d’arrivo di questo
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studio, si tenta di proporre una definizione di responsabilità
sociale d’impresa, intesa come cultura strategica, e di bilancio
sociale, come strategia espressiva di questa cultura.
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CAPITOLO I
L’INFLUENZA DEL CONTESTO
1.1 Le imprese si trasformano
Nell’arco degli ultimi trent’anni, la storia dell’industria ha
subito una rapida accelerazione, che ha profondamente
trasformato la sua struttura e i suoi processi organizzativi e, di
conseguenza, i rapporti che questa intrattiene con i suoi
interlocutori. L’adozione della teoria sistemica dell’impresa
porta necessariamente ad analizzarla non come un’entità isolata e
avulsa da qualunque legame con entità di maggiori o minori
dimensioni, bensì come uno degli elementi costituenti di un più
ampio e generale ambiente, che comprende le dimensioni fisica,
politica, tecnologica, culturale, sociale ed economica. Per questo
motivo, è errato definire oggi l’impresa soltanto come un’entità
la cui funzione fondamentale è produrre. Come sostiene
Williamson, l’impresa è una struttura di governo (governance),
che deve saper gestire in modo ottimale i rapporti con i suoi
interlocutori, anche a livello globale. Williamson sostiene che
per comprendere i costi di transazione, cioè quelli necessari per
stipulare e gestire trattative, non è sufficiente riferirsi ai caratteri
del mercato, ma occorre prendere in considerazione anche i
fattori umani. Ciò comporta, da un lato, il fatto che l’unità
elementare di analisi non è più il prodotto ma la transazione,
dall’altro, che è sempre più complesso definire dove finiscano i
confini dell’impresa. Questi non sono più determinati dalla
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tecnologia, poiché la stessa tecnologia può servire
contemporaneamente più imprese. Il valore aggiunto
dell’impresa non si misura più in base ai beni materiali
posseduti, ma dalla sua capacità di “stare” in società e rispondere
alle attese di dipendenti, fornitori, clienti e comunità locali.
Vediamo più in dettaglio come si sia passati da un sistema
produttivo in cui l’impresa veniva considerata un’entità a sé
stante, a uno in cui l’esigenza fondamentale è relazionarsi con i
suoi interlocutori, tenendo presenti le loro attese e bisogni.
Nel corso del tempo è cambiato il modo di organizzare il
lavoro e, di conseguenza, il modo di definire l’impresa. La nuova
definizione deriva dal fatto che sono aumentati gli interessi in
gioco e, che l’impresa oggi, è costretta a farsi carico di nuovi
problemi, che non derivano solo dall’interno, ma dalla società in
cui sono inserite.
Nell’impresa moderna, giocano gli interessi di più attori
diversificati; chi sono questi attori e come hanno acquisito
importanza?
1.1.a. Dal fordismo all’impresa flessibile
Il filo rosso che aiuta a comprendere i cambiamenti avvenuti
nelle imprese, a partire dalla fine del XIX secolo ai giorni nostri,
è il modo di organizzare il lavoro al loro interno.
Negli Stati uniti d’America, alla fine dell’ottocento,
l’ingegner Frederick Winslow Taylor fonda la teoria dello
Scientific Management, che verrà messa in pratica nella fabbrica
di costruzioni di automobili Ford. Il contesto socio-economico è
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quello statunitense, con una forte concentrazione industriale, una
spinta produzione in serie, un afflusso di manodopera
impreparata, una tenace opposizione ai sindacati che chiedono
aumenti salariali. Fliegstein (1990), che studia le trasformazioni
dell’impresa nell’economia americana secondo la prospettiva del
controllo, definisce questa fase come caratterizzata da una
concezione produttiva del controllo. Il controllo è l’insieme di
strategie che i manager e gli imprenditori usano per affrontare le
sfide che il proprio ambiente offre e, soprattutto, per vincere la
concorrenza. Secondo questa concezione, i concorrenti si
vincono stabilizzando i processi produttivi e creando situazioni
oligopolistiche di prezzo in quel settore. Il fine è quello di far
crescere l’azienda a tal punto da eliminare il rischio di essere
coinvolti in una guerra dei prezzi. Come raggiungere questa
posizione? Attraverso una produzione stabile, affidabile, dai
costi ridotti e di grandi quantità di merci. La stabilità è
l’obiettivo finale, che può essere raggiunto grazie al metodo di
produzione taylor-fordista, i cui principi base sono: separazione
tra braccio e mente poichè tutto viene deciso dalla direzione e,
chi produce deve seguire minuziosamente gli ordini di chi
organizza il lavoro. Gli operai, infatti, non hanno margini di
autonomia. Ciò richiede e provoca la dequalificazione della
forza lavoro; in fabbrica non serve avere un mestiere, perché le
operazioni sono talmente elementari che chiunque è in grado di
eseguirle. Ciò aggiunge il vantaggio della sostituibilità della
forza lavoro: l’operaio, essendo semplicemente un’appendice
della macchina, può venire rimpiazzato da altri in qualsiasi
momento. Il modo di produrre è standard, si apprende
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facilmente e in tempi rapidi, infatti, si parla di one best way:
l’analisi scientifica del lavoro, svolta unicamente dal
management, rende possibile l’individuazione dell’unico modo
migliore per eseguire ogni singola operazione nel minor tempo e
con il minimo sforzo. Grazie a questi studi si può costruire la
cosiddetta catena di montaggio: un meccanismo che trascina
ogni cosa e ogni uomo alla velocità dovuta mediante banali
apparecchiature di convogliamento. Così una miriade di micro-
movimenti individuali rientra in un unico tempo generale
indipendente dal ritmo dei singoli. (Accornero, 2002). Grazie a
questo meccanismo si raggiungono:
- standardizzazione dei prodotti: economici, robusti con pezzi
intercambiabili e ritrovabili sempre;
- fattore quantità: la cosa fondamentale non è produrre merci di
qualità ma una quantità sempre crescente di merci.
Quale immagine dell’impresa emerge da questi pochi
elementi? Un’impresa di grandi dimensioni, concepita come uno
strumento razionale per raggiungere scopi specifici (Bonazzi,
2002), in cui qualsiasi perturbazione proveniente dall’interno o
dall’esterno va eliminata. Tutte le funzioni produttive e
strategiche si risolvono all’interno (integrazione verticale),
grazie al management, unico attore attivo a livello decisionale e
di interesse. L’organizzazione è un micro-sistema sociale isolato
dal resto e autosufficiente.
Con gli anni sessanta del ventesimo secolo, il modello taylor-
fordista entra in crisi, poiché dalla società e dall’economia si
presentano nuove esigenze. In Italia, sono vive proteste operaie,
agitazioni sindacali, e il terrorismo politico, che vuole